di Mario Sarica
Festa per eccellenza, che racchiude in sé tutte le altre feste possibili, il Carnevale, nella sua accezione di istituto folklorico geneticamente proteiforme, ha certamente pagato, nel corso del XX secolo, rispetto ad altri rituali di tradizione, a volte riplasmati su nuovi bisogni collettivi, il prezzo più alto al fatale disgregarsi del complesso sistema culturale di tradizione orale, di arcaica origine agro-pastorale, che orientava il “senso della vita” e dello “stare al mondo” delle comunità rurali, e più in generale di quelle fedeli ai valori della tradizione.
Profondamente correlato ai periodici riti di rifondazione utopica della società, del Carnevale in Sicilia, un tempo totalizzante e centrale sull’orizzonte esistenziale rurale e urbano, con segni figurativi fortemente caratterizzati sul piano della rappresentazione, restano esemplari cronache demoetnoantropologiche a partire dall’Ottocento, e sul piano performativo isolate, sebbene emblematiche sopravvivenze, in alcuni casi occultate o del tutto azzerate da nuove riscritture festive per offerte di “consumo paraturistico”.
Scandito dai ritmi di un tempo “circolare”, correlato all’“angoscia invernale” espressa dalla morte apparente della Natura, che minaccia la fine del Mondo, lo spazio festivo carnevalesco, “festa delle feste”, che assume in sé tutte le istanze festive, in un “tempo” fuori dal “tempo”, richiama a sé, fin dalle sue arcaiche origini, una pluralità di registri di comunicazione e di comportamenti trasgressivi, da quello fisico a quello verbale a quello sonoro; agli eccessi di natura alimentare, alla lotta fra princìpi e forze contrapposte; fino ai carri allegorici e ai cortei storici.
Un palinsesto di segni e simboli, quello carnevalesco, necessario a dare vita ad una rappresentazione figurativa del Mondo dalla doppia natura, dove si ritorna ritualmente al “caos primigenio”, fino a percepire, sul piano individuale e collettivo, lo smarrimento della presenza nella “perdita dei limiti”, che innesca la rifondazione utopica del cosmo, espellendo tutte le negatività patite nel tempo ordinario.
Così com’è giunto a noi, il Carnevale è, dunque, un codice polisemico fortemente stratificato nel tempo protostorico e storico, che trova nel segno figurativo rituale più eclatante, la maschera, la sua espressione più arcaica e profonda. In quanto assunzione di un’identità altra da sé, per una salutare messa in scena di un mondo alla rovescia, in vista di un radicale ribaltamento dei ruoli, la maschera si fa carico dell’ambivalenza del desiderio senza limiti, che attira e angoscia, nel paradigma primario fra caos e logos. E nella pluralità di segni figurativi e comportamentali, le maschere aggrediscono, spaventano, toccano, prendono al laccio, rapiscono, usano violenze fisiche e sessuali, si comportano da folli e da buffoni.
Storicamente identificate con i diavoli e con i morti, «le maschere racchiudono l’incubo, l’angoscia, il delirio, la possessione, la perdita della presenza, dunque la sospensione simbolica della presenza». La morte, d’altra parte, a qualsiasi latitudine, è «l’esperienza prima e universale della crisi della presenza, da rappresentare, e dunque esorcizzare». La regola, per ogni singola maschera, è capovolgere ogni regola, non solo nel senso che quello che è interdetto diventa lecito, ma nel senso che sospende il corso lineare del tempo, quello feriale e profano, ricolmo di negatività, «per concedere al tempo festivo la sua irruzione, che quindi è irruzione del sacro, nella radice di oltre l’umano».
L’universo delle maschere, che ogni cultura del nostro pianeta ha sentito il bisogno di indossare, e non solo ovviamente a Carnevale, è formidabile tratto distintivo dell’umano che «trascende o meglio, che tenta di vincere la sua natura vulnerabile e transitoria, in cerca dell’illusione di eternità». Ma c’è di più, la maschera si colloca in quello spazio dell’immaginario, in cui «l’anima si esprime creando quell’incanto del mondo, in cui è riconoscibile la cultura di un popolo e, dunque, l’interpretazione del mistero della vita e della morte, del suo irrisolto legame con il cosmo, e in definitiva del senso ultimo dello stare al mondo».
E tra gli effetti collaterali della nostra convulsa contemporaneità, c’è anche da annotare, sul versante festivo, lo svaporare dell’«incanto e immaginazione che la modernità, nell’accezione di scienza e tecnica, ha eroso negli ultimi cinquecento anni in maniera irreversibile, sottraendo all’anima lo spazio vitale per insufflare mondi incantati, dove immergersi per alimentare sogni e magie del vivere».
Dietro la maschera, la festa carnevalesca, dunque, disvela il rito di rifondazione periodica del ciclo di rinascita e rigenerazione del mondo e dell’ordine cosmico, che racchiude in sé al massimo grado i tratti distintivi di ogni festa. Oltre, la festa risponde, poi, sostanzialmente al «bisogno incontenibile e arcaico di distruzione e di spreco che le società primitive, a differenza di quelle attuali, sapevano soddisfare rinunciando a quell’economia del risparmio e dell’accumulo, in cui gli antichi individuavano la ‘parte maledetta’».
La festa, ogni festa, dunque, come interruzione del ciclo produttivo, per «lo spreco improduttivo, che si incarna nel lusso sfrenato, nei monumenti sontuosi, nei giochi, negli spettacoli, nell’attività sessuale sfrenata e perversa, nel consumo alimentare senza limiti, nel basso grottesco».
Ma le feste, ognuno di noi lo sa, sono tutte comandate. Un tempo dagli dèi e dai sovrani, che emanavano le leggi, e che proprio perché le emanavano, ne erano al di fuori e quindi «abitavano la trasgressione». Oggi, spariti dèi e sovrani e svuotate delle loro funzioni primarie, rituali, ideologiche e sociali, delle feste restano solo simulacri in mano agli oscuri signori del consumismo vorace e globalizzato, dove s’incontrano il “vicino” e il “lontano”, secondo un ritmo cadenzato stagionale, non meno ossessivo di quello del lavoro, innescando parodistici rituali, privi del soffio rigenerante e di discontinuità fra tempo profano e sacro-festivo.
Dunque, feste obbligate non meno rigide e stressanti degli alienanti rituali dei giorni feriali, senza marcare sostanzialmente «differenze e scarti di qualità relazionali e passaggi in armonia con il cosmo». Siamo d’altra parte immersi in una sfera culturale non più ancorata come un tempo dentro un limitato orizzonte geografico. E così subiamo, magari inconsapevolmente, gli effetti primari e secondari di un diffuso meticciato culturale, di una delocalizzazione via web, di connessioni delle culture locali con modelli globali.
Da qui la necessità di decifrare i simboli venuti da lontano, che influenzano comportamenti e scelte del nostro presente, dentro una cornice identitaria sempre più cangiante, in un continuo mutamento, da ridefinire di volta in volta. Si pensi, ad esempio, alla parodia delle istituzioni che si celebra nella festa carnevalesca, e che ancora oggi osserviamo nella rappresentazione dei carri allegorici con temi sociali e politici, per restare in ambito siciliano, di Termini Imerese, Acireale e Sciacca, ma anche ai capodanni laici e consumistici delle nostre società, che non fanno altro che mettere in scena la negazione di ogni gerarchia e il rovesciamento in commedia di ogni dramma umano.
Ed ora, entro questi paesaggi “interpretativi” volgiamo lo sguardo ai cerimoniali carnevaleschi di tradizione di area messinese, tentando di scorgere i rituali più arcaici sopravvissuti fino ai nostri giorni come calchi di antichi reperti archeologici. E se all’osservazione diretta sul campo, indispensabile anche per comprendere appieno le ragioni che sottendono alla strenua e tenace resistenza delle residuali forme carnevalesche, e non solo, al dilagare di una pervicace quanto fatale omologazione anche sul piano dei comportamenti festivi individuali e collettivi, uniamo poi la faticosa ma necessaria ricomposizione dei frammenti di memoria dei rituali carnevaleschi scomparsi, si configura un quadro d’insieme particolarmente composito, che si offre ad un’ampia griglia di analisi interpretativa.
Iniziamo, così, ora il nostro viaggio attraverso le scene carnevalesche dal Principe e l’Orso di Saponara.
Ussu di Saponara. Il munifico Principe e il famelico Orso
Usurpate da una latente e mortifera spirale carnevalesca, che invade spesso il quotidiano, delle maschere di tradizione siciliana restano malinconici simulacri vuoti e isolate sopravvivenze, in alcuni casi per fortuna tenaci e vitali. Tra quelle scampate alla fatale estinzione innescata dallo sfaldamento del contesto culturale popolare di cui erano tipica espressione rituale, uno spazio di tutto rilievo lo occupa la maschera dell’Orso di Saponara che, nel segno di una tradizione fortemente radicata, il Martedì Grasso, nelle prime ore del pomeriggio, esce in corteo con il Principe e la Principessa, e la sfarzosa Corte regale, per le vie del centro vallivo dei Peloritani.
Spazio festivo totalizzante, riconosciuto unanimemente dalla comunità come tratto distintivo della propria identità culturale, il Carnevale di Saponara mette in scena una singolare rappresentazione davvero spettacolare e coinvolgente, dalle spiccate valenze simboliche, con rimandi anche di carattere storico, oltre che dai cospicui tratti etnoantropologici.
Esemplare incarnazione del male, del diverso, dell’altro da sé, da espellere dalla società, così come vuole la rifondazione utopica innescata dalla ritualità carnevalesca, la maschera dell’Orso di Saponara dà vita anche ad un contrasto drammatizzato tra il “bene” e il “male”, la “cultura” e la “natura”, l’ “addomesticato” e il “selvaggio”.
Trattenuto dalle corde e dalla catena dei Domatori-guardiani, e controllato a vista dai Cacciatori, la paurosa belva – la sua presenza è segnalata dal fragoroso suono dei campanacci legati tutt’intorno ai suoi fianchi – alterna infatti momenti di socialità, evidenziati da estemporanei balli di riconciliazione, sulle musiche eseguite da una esilarante e parodistico ensemble bandistico carnascialesco, ad improvvise aggressioni rituali alle donne, quelle più vistose e avvenenti. È il suono cupo e minaccioso delle brogne o trumme (trombe di conchiglia), arcaica memoria del caos primigenio, un tempo utilizzate anche per stanare gli animali selvatici, ad annunciare la caccia alle prede femminili.
Nel rispetto di un codice rituale che si ripete da tempo immemorabile, il famelico Orso – interpretato da Sebastiano Gangemi, che ha preso il posto del padre, l’indimenticato e caro Pippo, scomparso prematuramente, ormai parecchi anni fa – ripete simbolicamente il gesto dell’accoppiamento sessuale, che rende figurativamente esplicito il tema della rigenerazione della vita, dunque dell’eterno fluire che congiunge la morte necessaria alla nuova vita.
Una volta prese di mira, le donne vengono aggredite dall’Orso, che sfugge al controllo dei Domatori-guardiani e dei Cacciatori, in maniera fulminea fino a stringerle con forza attorno a sé. L’Orso prima scutulìa la sua preda, ovvero la fa dondolare energicamente fra le sue braccia, poi a strica, la strofina a sé e, infine, mima il gesto dell’accoppiamento, ca jamma fa zummi zummi, agitando freneticamente una delle due gambe. Alla fine della fulminea azione rituale le prede femminili restano, impaurite, frastornate.
Talvolta, per dare prova delle sue straordinarie energie vitali e della sua forza fisica, l’Orso si arrampica sui balconi e perfino sui pali, sollecitando consensi entusiasti e applausi calorosi dalle decina di migliaia di persone che, puntualmente, fanno corona al chiassoso corteo festivo saponarese, cui si aggiungono ormai da tanti anni gruppi mascherati, bande musicali e gruppi folkloristici, nel rispetto dell’accumulo dei segni figurativi e sonori più disparati, tipici della dialettica carnevalesca.
Espressione del selvaggio/selvatico, l’Orso mette dunque in crisi le consolidate norme del vivere civile con le sue gerarchie rigide e invalicabili, mostrando una natura ambivalente e un’energia vitale contagiosa. I Cacciatori e, ancor meglio, i Domatori-guardiani, nella rappresentazione carnevalesca interpretano sia il “bene”, nell’accezione di valore sociale condiviso che regola i rapporti nel tempo ordinario, sia l’ “ordine costituito” imposto e voluto dal principe Domenico Alliata, figura storica di primo piano vissuta nella prima metà del Settecento, cui la tradizione locale ricollega, tra il reale e il favoloso, l’atto di fondazione della festa carnevalesca di Saponara.
Severo e distaccato nella sua elegante uniforme militare, il Principe, accompagnato dalla bella Principessa, con a fianco lo Scrivano di corte e le severe guardie, nella rappresentazione carnevalesca, apre il corteo regale, formato da coppie di Cavalieri e Dame, osservando compiaciuto le prodezze dell’Orso, esibendolo a tutti come segno inequivocabile del suo potere.
Al di là della dubbia fondatezza storica dell’evento, ovvero la cattura di un orso che infestava le campagne di Saponara, mettendo a repentaglio la vita della comunità, attribuita al principe Domenico Alliata, signore di quelle terre, c’è da osservare che il principe entra d’autorità nell’immaginario collettivo soprattutto per i suoi gesti di magnanimità, questi realmente documentati, alimentando la commistione tra il “favoloso” e il “reale”, tipico nei processi di accumulo narrativi della tradizione popolare. Il principe è poi, per sua definizione, espressione eloquente del potere, in grado dunque di ristabilire l’ordine, anche di fronte ad una minaccia tangibile, come quella dell’Orso – peraltro estraneo in epoca storica alla fauna peloritana – incarnazione del male da espellere dalla comunità.
Ma l’animale, portatore di morte e distruzione, catturato, reso inoffensivo e magari addomesticato, oltre che essere simbolo di una entità vitale sconosciuta, e per ciò stesso temibile, diventa, secondo la chiave di lettura carnevalesca, un ulteriore strumento di potere e di controllo sociale nelle mani del principe, dunque, doppiamente da combattere e mettere in crisi con le trasgressioni e il riso liberatorio, tipiche espressioni comportamentali del Carnevale.
I Misi i ll’Annu di Rodì Milici. Alla conquista della corona del Re
Nel variopinto microcosmo carnevalesco di tradizione della provincia di Messina, I Misi i ll’Annu di Rodì Milici, giunti fino a noi, fra sospensioni periodiche e riprese, si segnala come una delle più interessanti messe in scena rituali, nel rispetto di un vero e proprio copione.poetico-narrativo di antica memoria.
A dare vita all’azione rituale-drammatizzata, connessa al critico passaggio stagionale, I Mesi dell’anno, il Re, il poeta e un “borghese”, ovvero un burgisi, identificabile con un fattore. In groppa a cavalli, un tempo caracollando su asini, disposti a cerchio attorno all’attonito Re, con fare minaccioso e roteare di spade, e tono declamatorio-gridato, stridendo con gli eleganti versi, moraleggianti ed ornati, del testo ottocentesco in lingua italiana, i Mesi dell’Anno a turno, identificabili dai tratti allegorico-figurativi distintivi, si rivolgono al Re, espressione del potere e tutore assoluto dell’ordine stagionale, per rivendicare a sé stessi la corona, dunque, pretendendo il dominio assoluto sugli altri mesi.
Riconducibile, secondo la tradizione locale, al poeta locale don Peppe, che a sua volta la mutuò da area catanese, intorno al 1880, la forma carnevalesca di Rodì Milici, conferma la diffusione anche in Sicilia di un tema di teatro popolare festivo ricorrente nelle fonti storico-documentarie di lungo periodo nella più vasta area italiana, riferito alla «forma drammatica connessa al ciclo calendariale, rappresentazione enigmatica dell’evento stagionale», che ha in sé i rischi derivanti ad un ritorno al caos primigenio.
Il plot narrativo de I Misi i ll’Annu fa così emergere prepotentemente il pensiero fondante carnevalesco, quello della rifondazione del Tempo, mirata ad esorcizzare i pericoli e la precarietà connessi ai vari passaggi mensili, a partire dalla rinascita vegetale primaverile. Spetterà al saggio poeta, alla fine delle temute perorazioni dei Mesi, il compito di ricomporre l’insanabile conflitto, ristabilendo così le consolidate certezze del vivere quoritidiano «…siete come la fame con la sete/l’uno e l’altro non vi dis’amate/va bene che il mondo sostenete/maun solo Dio regna in Trinitate…» e spetterà al Re invitare alla fine l’inquieto corteo dei Mesi ad un ballo finale di riconciliazione comunitario. A porre il sigillo dell’avvenuta riconciliazione è il cosiddetto Borghese, che altri non è che un burgisi, un contadino-proprietario terriero, una sorta di “io narrante”, identificabile con l’autore del testo, che esalta la figura del Re, dunque, dell’ordine costituito, cui affidare il buon governo della comunità.
Scacciuni di Cattafi, San Filippo del Mela. Lo Straniero / Aggressore da scacciare
Nel ricco catalogo di maschere carnevalesche di tradizione siciliana, quella dello Scacciuni di Cattafi (frazione di San Filippo del Mela, nel Messinese), per origine, caratteri figurativi e azione rituale, si segnala fra le più singolari. Assimilabile alla categoria delle maschere “belle” ed “allegoriche”, che fanno da contraltare a quelle “grottesche” e “mortifere”, lo Scacciuni attrae per il suo costume multicolore, dai tratti orientaleggianti, e le sue eleganti e sinuose movenze.
Adornato di nastri colorati, pendenti anche dal suo vistoso copricapo conico (segno di fertilità, che richiama l’arcaico tutulus), e tutt’attorno al suo gonnellino, segno di una natura ambigua, lo Scacciuni tiene fra le mani un frustinu (nerbu), anch’esso simbolo ambivalente, dando vita ad avvolgenti e ritmate danze di gruppo.
Colpisce la fissità dell’espressione facciale di ogni singola maschera – il volto non è celato – che non tradisce nella mimica facciale alcuna emozione, affidando alla gestualità, sempre armonica, e alle figurazioni di danza, dalla veloce ed improvvisa scansione ritmica, la funzione primaria espressivo-liberatoria e rigenerante della sua azione rituale, irresistibilmente contagiosa.
Come capita spesso alle maschere di tradizione di più antica memoria, anche quella dello Scacciuni di Cattafi, che appare solitamente in corteo la Domenica di Carnevale e il Martedì Grasso, spingendosi fino a San Filippo del Mela, vanta un’origine leggendaria, replicata da un racconto popolare, che unisce il “reale” al “fantastico”.
Il costume, che costituisce l’odierno mascheramento, secondo la tradizione orale, deriva dagli abiti di foggia orientale sottratti ai barbareschi/saraceni che, in anni imprecisati, fra Cinque e Seicento, minacciavano con saccheggi e assalti periodici l’integrità delle comunità rivierasche della valle del Mela, che alla fine furono respinti e sconfitti. Il gruppo di maschere-danzatori legittima, dunque, la sua origine da un evento memorabile, mettendo in gioco sulla scena rituale carnevalesca i temi dell’”altro da sé”, dello “sconosciuto” del “diverso”, minaccia incombente, da tenere a distanza, se non da allontanare, fino a dominarlo.
Lo Scacciuni , oltre ad incarnare il “diverso- minaccioso”, è portatore del tema della fecondità, di cui è espressione la figura femminile, da difendere, perché minacciata, appunto, dallo “straniero/sconosciuto”, che, nell’ideologia carnevalesca di rifondazione utopica, si lega alla ripresa del ciclo vegetale primaverile, e vitale in genere, segnalata da un’altra figura allegorica essenziale del corteo, quella della “Primavera”, dall’elegante costume.
Particolarmente significativo il gesto rituale di offerta di confetti augurali della maschera della “Primavera” che si alterna, lungo il percorso, alle rasserenanti danze degli Scacciuni, dalle misteriose movenze gestuali, al suono di un balletto tradizionale, cui si uniscono festosamente gruppi mascherati di varia foggia.
Catalettu di Santa Lucia del Mela. Processo, Testamento, Corteo funebre e Rogo di Carnevale
Conosciuto nella cultura popolare siciliana come Nannu, ovvero nonno, sinonimo di vecchio decrepito, ha incarnato in tutti i cerimoniali carnevaleschi di tradizione la maschera-simbolo, quella appunto del Carnevale, cui affidare la parte principale del “mondo alla rovescia” messo in scena dalla festa delle feste, un «capodanno d’inizio ciclo, che svolge la funzione di riscatto propria dei riti di fondazione».
Il Nannu, spesso accompagnato dalla Nanna, che richiama la Quaresima-penitenziale incombente, scrive il Pitrè, « è la personificazione del Carnevale, la maschera principale, massima. L’oggetto di tutte le gioie, di tutti i dolori, dei finti piagnistei, del pazzo furore di quanti sono spensierati e capi scarichi… . Il Nannu va pianto, perché egli ‘A cu lu chianci cci lassa un’unza / A cu’ ‘un chianci cci lassa strun…».
A questa maschera, con il suo arcaico carico di ritualità, ancora vitale in molti cerimoniali carnevaleschi siciliani, si riconosce dunque in chiave interpretativa la principale funzione trasgressiva e liberatoria della festa, un vero e proprio “capro espiatorio” da sacrificare, necessario per raccogliere ed espellere dalla comunità tutte le negatività patite, e rinascere a nuova vita.
Dopo l’esposizione sugli usci e sui balconi, come annota Pitrè, di un «vecchio fantoccio di cenci, allegro e goffo», ecco la prima sequenza rituale della conclusiva messa in scena carnevalesca del Martedì Grasso, ovvero il corteo del Nannu – maschera vivente morente, assistita da improbabili medici-chirurghi, che tirano fuori metri e metri di salsiccia dall’intestino del malcapitato, cui sia aggiunge u repitu o triuliata, il pianto disperato delle inconsolate donne di famiglia «Cannaluvari murriu di notti, lassau nbrogghi areti i potti…Figghiu miu, figghiu di tutti, ora mori e ni lassa a tutti…».
A questa prima concitata e animata scena del Nannu morente, segue il rumoroso e improbabile corteo funebre. «Da quella cantonata – racconta il Pitrè – sbucano una doppia fila di persone con torce a vento, avvolte in bianchi lenzuoli da capo a pie’, e recano in mezzo un catalettu, su cui giace un vecchione, il Nannu. Il funebre corteo piange, grida, schiamazza con acutissimi lamenti: «Ah! Nannu…Ah! Nannu…e comu facemu senza di tia!…Oh! Nannu…E comu campamu!…».
La tensione collettiva cresce fino all’epilogo finale del rituale carnevalesco, che prescrive la scena del testamento di Carnevale e quella del rogo della maschera. A rendere pubblico il lascito finale del Nannu la tradizione vuole che sia il notaio, custode ed esecutore delle odiose leggi.: «…Ha gli occhiali inforcati sul naso, sembra un uomo di vecchio stampo – ci fa sapere Pitrè – …Vibra una voce che dice: “Lassu a li dotti confusi/’Ntra tanti libri e ‘ntra tanti scrittura/Lassu a l’avvucati li causi persi/E a li duttura ci lassu la cura”…».
A porre termine ad ogni trasgressione e licenza, ecco il rogo cui è destinato il Carnevale/Nannu, le cui fiamme, fonte insieme di vita nuova e di annientamento finale, a conclusione del Martedì Grasso, richiamano l’ambivalenza simbolica delle festa, un ritorno al caos primigenio, fino a confrontarsi con la figura della Morte, per parodiarla e dunque esorcizzarla, in vista di un nuovo ordine, sullo sfondo delle rinascita primaverile.
Il Catalettu, ovvero il feretro o bara, di Santa Lucia Mela, rigenerato sulle ceneri di un’antica memoria carnevalesca locale, mette in scena, in maniera esemplare, la sequenza rituale di tradizione, lasciando, prima, ampio spazio rappresentativo al corteo dei carri allegorici e gruppi mascherati, in piena libertà espressivo-figurativa, musicale e sonora, di marca performativa trasgressiva, tipica della dinamica carnevalesca.
Ad immaginare e narrare la scena principale carnevalesca a Santa Lucia del Mela, che prende forma nel Processo, Testamento, Corteo funebre, e Rogo di Carnevale, il carismatico maestro di vita, di teatro e di maschere siciliane, Nino Pracanica. Nella sua rigorosa reinterpretazione filologica del primario evento carnevalesco, realizzata nel 2017, dà vita ad una messa in scena di un vero e proprio teatro popolare siciliano d’altri tempi. Ciò gli consente mirabilmente di “insufflare” nella sequenza cerimoniale l’arcaico soffio vitale, unendo parole, gesti ed “immagini”, in grado di sorprendere la comunità, che si ritrova a vivere da protagonista nel “tempo straordinario della festa”, il liberatorio rituale carnevalesco.