di Mario Sarica
Deprivata gradualmente e inesorabilmente della sua funzione primaria, quella di comunicare e quindi di nominare cose, persone e fatti, quindi di raccontare la vita, per riempire di senso lo scorrere esistenziale, la lingua siciliana, nelle sue infinite parlate e declinazioni territoriali, per difendersi dalla fatale afasia, oltre la corruzione dei tempi, del meticciato e dello slang delle periferie sociali, si affida ormai, come ultima strenua difesa, alla narrativa e ancor di più alla scrittura poetica, la sola in grado di restituirle dignità e valore.
Distanti dai rumori del mondo, i poeti che frequentano con attitudini ri-creative diverse il registro linguistico siciliano, in un tempo fuori dal tempo, riannodano spesso, trasfigurandoli, gli sfilacciati fili della memoria culturale individuale e collettiva, quella che salva dall’oblio e dalla dimenticanza, recuperando, se possibile, lacerti di un’identità perduta e ricostruita da frammenti sparsi, tentando magari di fronteggiare l’angosciante minaccia dello spaesamento. E tra le tanti voci poetiche isolane giunte fino a noi giorni, dalla superficie polifonica rilucente si eleva risonante e seducente, da sirena dello Stretto di Messina, quella di Maria Costa, classe 1926, venuta a mancare nel settembre del 2016 all’età di 90 anni. Una preziosa eredità poetica quella lasciata dalla generosa poetessa di Case Basse di Paradiso, premio “Ignazio Buttitta” nel 2012, la cui voce di vita, oltre che nelle sue tante raccolte e racconti vibra e risuona epifanicamente in due antologie sonore U me regnu è u puitari (2008) e I radichi da me terra (2012). Ed è proprio su queste due mirabili performance poetiche che vogliamo volgere lo sguardo.
Affidandosi pienamente alla gestualità emozionale della parola poetica, ovvero alla phoné, alla voce del corpo, avvicinandoci così a ciò che era lontano e irrimediabilmente perduto, Maria Costa ci guida lungo sentieri smarriti dell’anima, rischiarando il sé e l’altro sulla soglia del mistero del vivere. Ai pezzi sparsi della tradizione, strappati ai loro contesti esistenziali originari, la poetessa del mare dello Stretto, ridà così nuova e vibrante vita poetica, riscattandoli dall’usura del tempo. Maria Costa, come tutti i veri poeti, sta su quella sottile striscia di terra di confine che gli consente di trascendere e svelare la verità delle cose, dunque il sentimento e l’emozione, energia vibrante primaria, necessaria alla consonanza e all’armonia dell’uomo dentro il suo mondo. E di questa sua singolare magia della parola poetica affabulante, avvolgente, ospitale, incarnata alla sua voce, che rimanda al dominio dell’oralità sulla scrittura, quindi dei simboli indecifrabili e delle oscillazioni semantiche, nelle due antologie sonore, grazie anche al paesaggio sonoro-strumentale ricreato da Gemino Calà, entro cui germinano i versi poetici, Maria Costa ci consegna una prova d’autore di assoluto valore e di grande coinvolgimento emozionale.
Lo sguardo che la poetessa rivolge alla tradizione, come singolare e irripetibile esperienza esistenziale, di cui si è alimentata avidamente, e di cui ha visto il fatale disfarsi, è fiero ed orgoglioso, Ne coglie nel profondo luci e ombre, e soprattutto il raccordo con lo scenario mitologico e naturale dello Stretto, sorgente primaria di vita e di senso, senza lasciarsi sedurre dal rimpianto e dalle nostalgie del perduto.
«In Maria Costa – scrive Giuseppe Cavarra, il suo demiurgo – la poesia nasce come bisogno di estrinsecare la propria esperienza, perché sia di giovamento a tutti lungo la strada comune, come modo di rivivere con sofferenza il dolore degli uomini. Una scrittura poetica la sua come apertura al dialogo, come fiducia nella forza della parola che scava in profondità senza infingimenti o compiacimenti. Ciò fa sì che nella poetessa di Case basse la parola poetica si faccia di volta in volta senso ritrovato di un’umanità che non conosce limiti, partecipazione sofferta e silenziosa alle ragioni degli altri».
Il respiro vitale della poesia di Maria Costa crea così una magica illusione visivo-poetica, dove le alterne vicende del vivere si susseguono come in una moviola, grazie al sapiente uso drammaturgico del suo strumento-voce. «La voce infatti attinge al massimo della suggestione quando, svolgendosi da un unico centro in mille rivoli, si carica via via di vibrazioni di note che recano sempre il segno del sottile variare dei moti dell’anima. E ciò grazie ad una molteplicità di timbri che creano una fitta rete di corrispondenze liriche tra il significato e il significante, tra il suono e il concetto che la singola sillaba imprigiona e custodisce». E accade che le tante voci di Maria Costa ci guidano in un territorio dimenticato dove «la voce del corpo diventa rappresentazione originaria e la parola e la vita sono chiamate a rappresentare la scena in prima persona». Opponendosi fieramente al dominio della parola, intesa come semplice rappresentazione del logos, il suo verso poetico declinato alla pura phoné mette a nudo la sua carne, la sua sonorità, la sua intonazione, la sua intensità espressiva, in una parola il suo profondo e remoto genocanto.
A volte, il suo è un grido poetico tagliente e doloroso, che dissolve il rassicurante schermo delle parole, facendo emergere il pathos costitutivo della vita, di ogni vita, e delle sue verità indicibili.
I più avveduti studi sull’oralità hanno, d’altra parte, evidenziato come la poesia sia «l’unico campo della parola dove la sovranità del linguaggio si arrende a quello della voce, piegando il semantico non ancora asservito alle leggi della scrittura, alla musicalità del vocalico». E su questo versante, credo che Maria Costa nelle sue antologie sonore offra con straripante generosità una palpitante testimonianza che non lascia indifferente. La sua fascinazione vocale, dai tanti registri, mutevole nei colori espressivi, secondo i diversi stati d’animo del racconto poetico – dagli elementi naturali, al mito, dalla festa al lavoro – si coniuga con il dolente vissuto, in una incessante tra il dentro e il fuori, il vicino e il lontano. Per dirlo in musica, il suo verso è una sorta di “ostinato poetico” in perenne ricerca di un ri-accordo che, dalla dispersione e dall’oblio del tempo, generi unità, riconoscimento dunque condivisione e identità, infine sentimento di appartenenza ad una storia comune, mettendo in gioco vita e morte, passato e presente.
I versi e la scrittura della poetessa di Case Basse di Paradiso, sulla riviera nord dello Stretto, si nutrono avidamente della lingua madre, quel messinese dalle inflessioni arcaiche, ricolme di vita vissuta e di una carica emozionale contagiosa, che basta ascoltarlo per intenderlo. E nella trasfigurazione del suo gesto verbale e del suo “corpo sonoro emozionato”, impastato di carne e spirito, ecco disvelata la sua connivenza e frequentazione con le cose del mondo, dunque il patire le esperienze, cogliendone l’essenza spirituale, prima della conoscenza, senza alcun risparmio emotivo.
Dopo la rivelatrice prima magistrale performance discografica, quella di U me regnu è u puitari, dove «sa raccontare poeticamente il mondo che ha conosciuto, usando la lingua dei padri, fluttuante tra la realtà e il mito, restituendoci una moltitudine di voci», lungo la scansione del tempo circolare delle stagioni, la poetessa popolare di Case Basse di Paradiso, concede a distanza di qualche anno generosamente il bis. E lo fa regalandoci uno scrigno di preziosi e scintillanti gioielli poetico-musicali della tradizione messinese, ormai fatalmente scivolata nell’oblio, oltre che un’illuminante silloge della sua originale opera poetica.
Un’opera discografica – il secondo titolo edito dalla collana Phoné che fa capo al Museo Cultura e Musica Popolare dei Peloritani – resa possibile grazie alla spiccata sensibilità mostrata dalla Fondazione Ignazio Buttitta, e dal suo presidente, Ignazio E. Buttitta, la cui pubblicazione è coincisa felicemente con il prestigioso premio assegnato a Maria Costa, in occasione della VII edizione del Premio Buttitta (dicembre 2012).
Volgendo uno sguardo penetrante fino alle radici della sua cultura, Maria Costa, nella prima parte di I radichi da me terra, fa riemergere dal suo “vissuto” più lontano, alimentato dal “sapere del popolo”, le forme poetico-musicali della tradizione messinese, sacre e profane, fra Otto e Novecento, incarnandole in soffi vitali affabulanti. Un “sapere popolare” appreso da Maria Costa in famiglia, soprattutto dal padre, Antonino, e dalla zia del padre, Maria Costa, sua omonima (1848-1938). Un prontuario poetico-musicale che si irradiava dagli spazi domestici, fino ad animare gli ambiti di lavoro e i contesti di festa, in una pluralità di forme e generi, entro un’ampia gamma di funzioni interpersonali e socializzanti.
E a restituire tutte le vibrazioni del sentimento e i colori dell’espressione di un lontano vissuto, la voce di Maria Costa, dai tanti registri interpretativi, che lievita spesso in canto gioioso, divertito o dolente. Ad accompagnare la linea del canto, che riscopre profili melodici della tradizione di antica memoria, Gemino Calà, che, alla fisarmonica o alla chitarra, con modalità tipiche della musica tradizionale, segue amorevolmente i profili interpretativi vocali di Maria Costa, caratterizzati da inevitabili oscillazioni tonali e libere improvvisazioni.
Ed è proprio il “sapere del popolo”, così come lo definisce la stessa poetessa di Case Basse, una delle principali chiave di lettura della sua lunga ed intensa vita poetica, di cui il cd offre un campionario quanto mai illuminante. Il suo affabulante microcosmo poetico, affonda, infatti, le sue radici in verità di vita che hanno plasmato l’esperienza esistenziale della comunità messinese, di cui si sono perse le tracce. In consonanza con il paesaggio mitico dello Stretto di Messina, sospeso fra terra, mare e cielo, Maria Costa ci offre generosamente la sua chiave di lettura dell’abitare il mondo, che sublima la fatica del vivere e tutta la gamma dei sentimenti e delle emozioni in forme poetiche, ricolme di umori esistenziali, dai valori universali. I suoi versi sprigionano un’energia vitalistica, trascendendo il bozzetto di genere, proiettandoci di colpo in una dimensione “altra”, fuori dal tempo e dallo spazio, fino allo scintillìo di verità universali.
Ad introdurre e chiudere i testi poetici originali di Maria Costa, da lei stessa mirabilmente interpretati con una phonè dai cangianti colori e umori, le invenzioni e improvvisazioni musicali di Gemino Calà, che incide vibranti ed inebrianti suoni di vita, al clarinetto e allo scacciapensieri. E così i valori guida della cultura popolare, con la loro naturale sapienza, riemergono con vigore e dignità, senza nostalgie o rimpianti, piuttosto con fierezza ed orgoglio, per comunicare ancora con noi, orientando, se possibile, il nostro cammino di uomini smarriti in cerca di radici stabili.
Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019
Riferimenti bibliografici
Sergio Bonanzinga, in Maria Costa, U me regnu è u puitari, CD e booklet, ed. Phonè – Messina (2008).
Giuseppe Cavarra, Introduzione a Maria Costa, Scinnenti e Muntanti, Pungitopo, Messina (2003);
Giuseppe Cavarra, in Maria Costa, U me regnu è u puitari, CD e booklet, ed. Phonè Messina (2008);
Umberto Galimberti, in Idee: il catalogo è questo, Milano (2005).
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Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997).
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