Stampa Articolo

Scenari cinematografici della Sicilia (1946-1963)

copertina-il-gattopardo-villa-bosco-grande

Il Gattopardo, Villa Bosco Grande, pausa di lavorazione

di Giovanni Isgrò

Non si potrebbe conoscere il senso del nostro cinema e del suo fondamentale apporto nel panorama complessivo e sovranazionale della cinematografia, senza partire da quel grande palcoscenico naturale ad articolazione multipla che è la Sicilia. In un certo senso si può dire che il cinema, al di là del necessario apporto della tecnologia, proprio per la possibilità che offre di coniugare con una velocità superiore a quella del tempo reale, il totale col particolare, è l’arte che in modo più pertinente risponde al criterio della rappresentazione nella nostra Isola, e in quanto tale ha una sua potenzialità applicativa “naturale” e antichissima. Non a caso l’avvento del cinema fu come un fenomeno a lungo atteso, così come il suo attuarsi è stato spesso antropologicamente vissuto, prima che esteticamente goduto.

La nostra “avventura filmica” inizia subito dopo il secondo conflitto mondiale, un anno prima de La terra trema di Luchino Visconti, ed esattamente nel 1946, con Turi della tonnara del palermitano Pino Mercanti. Una scelta che vuole indicare il senso forte del contributo che la Sicilia ha dato alla storia del cinema italiano, anche al di là della “grande” filmografia. Un “destino”, questo della specificità della nostra cultura (anche nell’era cinematografica), che parte da lontano e attraversa secoli di storia. Una temporalità diversa, sotto molti aspetti persino autonoma, nonostante i troppi “condizionamenti” che la stratificazione della storia ci ha imposti.

Avremmo potuto continuare il solco tracciato dalla storiografia ufficiale, concentrata a seguire le avventure della cinematografia che “conta” nella terra di Sicilia, o restituire aggiornamenti di ampi e ben documentati percorsi analitico-descrittivi già formulati da appassionati studiosi di filmografia siciliana, ai quali rimandiamo comunque per utili riscontri. Al di là dei parametri e dei linguaggi della critica di settore, abbiamo preferito cercare il senso profondo di una intensa stagione e le motivazioni che la determinarono. Quasi vent’anni di vicende cinematografiche, dal secondo dopoguerra al Gattopardo di Luchino Visconti, in parte antropologicamente e sociologicamente alimentate dal nostro humus, in parte nate e maturate autoctonamente; in ogni caso in grado di offrire straordinari aggiornamenti e implicite conferme del valore di una cultura così antica e al tempo stesso modernissima; apparentemente scollata dagli statuti consolidati della circuitazione ufficiale, e per questo marginale se non liminare, eppure in grado, in qualsiasi momento, di accostarsi attualisticamente agli ultimi orientamenti delle arti della rappresentazione, fino al limite della sperimentazione.

1-vulcano-anna-magnani-foto-di-scena-con-vulcano

Vulcano, Anna Magnani, foto di scena

Tutte le tipologie della filmografia dell’epoca sono presenti nell’Isola, dal grande riferimento al neorealismo, seguito dai generi della commedia all’italiana e di costume, compreso il cinema di cappa e spada e di parodia, fino ai film dell’impegno sociale e alla ripresa del Kolossal. A dar vita e ad alimentare, a volte, di nuovi valori forme già consolidate, c’è una miscela esplosiva fatta di intense varietà di colore e di impressionante fisicità ed energia, mutuata da fondamenta antiche e dall’iterazione ritualistica del tempo rinnovato; ci sono le conflittualità sempre latenti, il culto delle passioni, e ancora, la straordinaria stratificazione delle architetture legate a civiltà e dominazioni diverse, la cattura visiva del paesaggio. Un “espressionismo” siciliano predestinato a dimostrare coi fatti l’impossibilità di unificare le diverse aree cinematografiche italiane senza riduzione di valore. Non a caso la Sicilia è alla testa di un “regionalismo” cinematografico; movimento culturale che conferì una dimensione pluralistica alla prima rete dell’unità cinematografica d’Italia. Non a caso l’invenzione regionale del cinema italiano nasce e matura in Sicilia.

Sul piano della ricostruzione sistematica dei fatti è facile individuare le due linee operative portanti, quella della produzione “nazionale” e quella “regionale”. Per quanto riguarda l’impegno italiano nell’Isola, come è noto, nella seconda metà degli anni ‘40 la Sicilia è già terreno fertile di sperimentazione di grandi registi. Dopo la lontana memoria di 1860 di Blasetti, girato nel 1934, è Visconti a misurarsi per primo ne La terra trema con la materia siciliana, mescolando sul solco del neorealismo gli stimoli provenienti dai cortometraggi/documentari prodotti dalla siciliana Panaria Film e le suggestioni verghiane, in un momento di progettualità animata da obiettivi di impegno socio-politico commissionata dal P.C.I. Segue Luigi Zampa con Anni difficili che arricchisce le problematiche socio-politiche con la comicità dialettale siciliana arrivando ad una felice originalità ed autonomia rispetto allo stesso neorealismo. La trilogia dei grandi film degli anni ‘40 si chiude con In nome della legge di Pietro Germi, in cui il rapporto mafia/film d’azione, al di là delle polemiche, ben si inserisce nell’ambiente siciliano. Tre diverse forme di sperimentazione, dunque, nate tutte da un rapporto ravvicinatissimo con l’immagine della Sicilia.

2-vulcanoincastellatura-per-le-riprese-in-tonnara

Vulcano, incastellatura per le riprese in tonnara

Sarà Rossellini nel 1949 a completare il numero dei grandi registi dell’immediato dopoguerra presenti in Sicilia con Stromboli terra di Dio, dando a sua volta il suo contributo per una riproposta forte dell’espressività e del fascino di un’isola siciliana. Ma a questo punto, proprio per le note vicende che intrecciarono l’opera di Rossellini con le riprese coeve di Vulcano, non si può non richiamare il percorso postbellico della produzione siciliana autoctona. Quattro case di produzione palermitane in azione in rapida successione, anche se in realtà soltanto due in grado di resistere più a lungo e con strutture organizzative più solide, in un momento in cui Cinecittà stentava a riprendersi dopo i gravi problemi causati dalla guerra. L’avventura del cinema di produzione siciliana del secondo dopoguerra inizia, come abbiamo detto, con Turi della tonnara (1946) e I Beati Paoli (1948), due film di genere totalmente diverso uno dall’altro, eppure nati dalla esigenza di far conoscere costumi, ambienti, tradizioni, della terra di Sicilia sia in epoca contemporanea che attraverso la mediazione della lettura storica.

Da un lato fu un’operazione riconducibile dall’esterno al neorealismo, in realtà tutta fondata in maniera autonoma, sulla valorizzazione del rito e del paesaggio siciliano, dall’altro una testimonianza riferibile al film in costume, ma anche in questo caso incentrata su una originale quanto inedita traduzione cinematografica di una pagina di storia siciliana. Si tratta di due realizzazioni della O.F.S. di Palermo con un’appendice, Il principe ribelle, girato utilizzando gli stessi impianti di produzione del precedente. La Panaria Film di Palermo, dopo aver prodotto una serie di eccellenti cortometraggi, prevalentemente dedicati alla cultura del mare, si esprime in una serie di realizzazioni in parte coraggiose, in parte avventurose, sempre all’insegna della promozione dell’immagine della Sicilia, intrecciando il proprio operare con artisti italiani e stranieri, alcuni dei quali protagonisti della storia del cinema mondiale. La prima prova del livello cercato è proprio Vulcano, nato, come si dirà più estesamente, dal progetto destinato in un primo tempo a Rossellini e successivamente affidato a William Dieterle con primi interpreti Anna Magnani (proprio in quei mesi abbandonata da Rossellini per Ingrid Bergman) e Rossano Brazzi già noto a Hollywood. La fine degli anni ‘40 registra due esperimenti, interessanti per certi aspetti anche se non eccezionali sul piano della qualità, prodotti da altre due case palermitane, la Hildago e l’Epica Film. Rispettivamente La cintura di castità e Vespro siciliano, entrambi del 1949, segnano due dati significativi. Nel primo caso, la funzione e l’operatività di un teatro di posa, nel quale vengono girati tutti gli interni; nel secondo, la perizia scenotecnica espressa nella costruzione di barche e navi presso la Cala di Palermo e l’accampamento dei cospiratori approntato en plein air nella pineta di Monte Pellegrino.

3-salvatore-giuliano-1961

Salvatore Giuliano (1961), un momento delle riprese

La prima metà degli anni ‘50 non è, diversamente dagli anni appena trascorsi, un periodo molto fortunato per il cinema in Sicilia prodotto al di fuori della regione. Fanno eccezione le regie di Luigi Zampa: Anni facili del 1953, felice satira sociale e politica, mentre la stagione del neorealismo è già in declino, e L’arte di arrangiarsi del 1954. Cavalleria Rusticana di Carmine Gallone è sicuramente un film minore nonostante Antony Quinn, e c’è la caduta, per fortuna provvisoria, di Germi con Gelosia, dopo l’esemplare esperimento del film d’azione messo in atto con In nome della legge, girato a Sciacca. Questa è la vita registra poi un’aderenza troppo condizionata al testo pirandelliano nella quale rimangono imbrigliati Pastina, Soldati, Zampa e Fabrizi, ciascuno nell’episodio da essi diretto. Dalla parte della produzione siciliana si registra invece il grande atto di coraggio della Panaria che affida in un primo tempo il progetto de La carrozza d’oro, il primo film in technicolor della storia del cinema europeo, a Luchino Visconti per poi consegnarlo, dopo un nuovo “tradimento” del grande regista italiano, a un altro maestro del cinema mondiale, Jean Renoir. A parte La carrozza d’oro, peraltro accompagnata da due film di recupero realizzati ancora per la Panaria a Cinecittà da Carlo Ludovico Bragaglia, utilizzando gli stessi impianti del film maggiore, anche gli altri film siciliani di questo periodo risultano complessivamente di tono minore; si pensi a Vacanze a Villa Igea (1954), I figli dell’Etna (1955), / girovaghi (1956). Lo stesso Vacanze d’amore del 1954 prodotto dalla Panaria, nasce da un progetto di valorizzazione della costa di Cefalù, lanciata verso il turismo internazionale, piuttosto che da un intendimento di particolare impegno artistico.

4-la-smania-addosso-santa-margherita-belice-il-regista-marcello-andrei-mentre-si-accinge-a-girare-una-scena

La smania addosso, Santa Margherita Belice, il regista Andrei

Bisogna aspettare la fine degli anni ‘50 con Il Bell’Antonio di Bolognini e L’Avventura di Antonioni, entrambi del 1959, per ritrovare il senso di una creatività di rispetto applicata ad ambienti, personaggi ed espressioni culturali e di costume della Sicilia. Una sorta di ritorno in grande stile dei luoghi siciliani come strumento propositivo, scatenante la genialità del grande regista.

All’inizio degli anni ‘60 l’avventura delle case di produzione siciliana è definitivamente terminata. Cinecittà è ormai in piena ripresa in coincidenza con il boom economico nazionale. Roberto Rossellini apre il 1960 con Vìva l’Italia, un’opera progettata fuori dall’Isola e costruita poi su misura in Sicilia in stretta relazione con i luoghi autentici, tenendo conto delle piccole rivalità fra comunità della Valle del Belice, utilizzate per dare maggiore forza e realismo alle scene dei combattimenti fra soldati borbonici (impersonati da figuranti provenienti da Calatafimi) e liberatori garibaldini (impersonati da figuranti irreggimentati nei paesi di Vita e Salemi).

Negli anni immediatamente successivi riprende la grande sperimentazione del cinema italiano in Sicilia. Riappare Germi che si risolleva dalla caduta di Gelosia con Divorzio all’italiana (1961) e Sedotta e abbandonata (1963). Due testimonianze esemplari di commedia all’italiana originalmente calate in un contesto siciliano e in quanto tali restituite alla cultura sovranazionale ricche di straordinaria espressività. In questo senso giova anche il ritrovato impegno “civile” del regista che sa tradurre in una dimensione profonda e socialmente utile le osservazioni sul costume della vita di provincia. Contemporaneamente, Francesco Rosi sbarca a sua volta in Sicilia per attuare il suo avventuroso progetto su Salvatore Giuliano (1961). Ne verrà fuori il capolavoro a tutti noto per l’impegno nella denuncia sociale che segnerà una delle prime testimonianze significative del genere nella storia del cinema italiano.

A questo punto l’oro e il piombo si intrecciano nel grande polverone cinematografico. Accanto a superficiali film di parodia come Rocco e le sorelle (1961) e Divorzio alla siciliana (1963), trovano posto il film-inchiesta e il film-documento con I nuovi angeli ( 1961 ) di Ugo Gregoretti e Un uomo da bruciare ( 1962) di Taviani-Orsini, mentre sul piano della satira di costume l’estensione va dall’ironia de La smania addosso (1962) di Marcello Andrei al sarcasmo di Mafioso (1962) di Alberto Lattuada.

5-il-gattopardo-piazza-santeuno

Il Gattopardo, Piazza sant’Euno

Il Gattopardo (1963/4) di Luchino Visconti chiude questo primo ciclo di ricerche sull’identità siciliana nel cinema. Una apertura verso un’epoca ottocentesca apparentemente così lontana ma in realtà tanto vicina attraverso le riflessioni del protagonista del romanzo di Tomasi di Lampedusa. E fu una ricchezza “senza fine” di costumi, di arredi, di splendide architetture in un contesto “storico” ma al tempo stesso così attuale; una sorta di immersione totale del grande maestro in una dimensione che, dopo il definitivo abbandono del neorealismo, gli consente di esprimere attraverso la fiction richiami e riferimenti così vicini alla sua memoria aristocratica e di dare sfogo al suo senso estetico.

A questo punto siamo alle note conclusive di questa veloce carrellata. La Sicilia dell’immediato dopoguerra fu terra di “pre-cinema”; produttrice di cortometraggi ai quali va riconosciuta una fondamentale funzione di arricchimento anche di opere importanti, compresa La terra trema di Visconti. In questo senso il pre-cinema può essere considerato come una identità in divenire, disposta a creare diversamente e a coesistere con cinematografie diverse. Senza dubbio rappresentò la condizione più favorevole per una originale assimilazione delle forme artistiche del tempo, in particolare del neorealismo. L’evoluzione cinematografica degli anni immediatamente successivi confermò l’esistenza di un “tempo siciliano” della filmografia; una condizione fondata su basi spesso materialmente elementari, tuttavia orientabili al sublime per “sapienza artigiana”. Non a caso c’è sempre un’aria antica, ritualistica. Da qui una sintonia straniata con il procedere del cinema nazionale.

Contemporaneamente a ciò il cinema in Sicilia, anche per il contributo dato da grandi registi finisce per distinguersi per la sua diffusione sociale e per la sua articolazione formale; e se non si arrivò, sul piano autoctono a iscrivere nella storiografia ufficiale la nascita del “maestro”, nonostante il generoso Pino Mercanti, tuttavia si continuò a preparare il terreno, creando un ventaglio sempre più ampio di virtualità e sensibilità favorevoli alle selezioni del futuro.

6-la-smania-addosso-santa-margherita-belice-foto-di-scena

La smania addosso, Santa Margherita Belice, foto di scena

Viene da domandarsi come mai il cinema siciliano poté evolversi fino a costituire un polo di riferimento nazionale pur non potendo mettere in campo mezzi omologabili con quelli delle grandi produzioni. Senza dubbio il pionierismo di alcuni protagonisti della cinematografia, disposti a sperimentare e a coinvolgere registi e attori fra i migliori dell’epoca, ebbe un ruolo determinante per imporre l’immagine dell’Isola sul piano anche internazionale. Ed anche se i limiti delle strutture delle locali case di produzione, emersi in particolare al ritorno alla piena attività di Cinecittà, sembrarono tornare a favorire la costante di una Sicilia intesa come terra di conquista e di colonizzazione, in realtà, proprio allora, venne fuori, ancora una volta, il senso di uno specifico e di una cultura addestrata alla restituzione originale di forme importate e maturate altrove.

In linea di massima si può dire che va riconosciuto al cinema siciliano il merito di aver fatto coesistere artisticamente la ritualità, il paesaggio, la memoria con la cultura filmica di importazione. È così che la maggior parte dei grandi registi sentì il bisogno di tornare più volte a girare nell’Isola, pronti ad adattare se non a modificare radicalmente la sceneggiatura iniziale, fino a progettarla talvolta per intero in corso d’opera. Si può parlare di una sorta di laboratorio, appunto, capace di abbracciare “tutto” l’arco delle esperienze, sia sul piano tecnico che su quello antropologico: una miniera inesauribile che, se pure fu in qualche caso sfruttata come luogo funzionale alle creazioni di fiction, come può avvenire in un grande teatro di posa dalle molteplici possibilità, dall’altro rimase riferimento esemplare per la realizzazione di idee e progetti che hanno fatto la storia del cinema italiano e, in qualche caso del cinema mondiale.

Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019

Appendice

Schede Film

malaxarneTURI DELLA TONNARA o MALACARNE o OLTRAGGIO ALL’AMORE – 1946

Regia di Pino Mercanti e Giuseppe Zucca

con Otello Toso, Mariella Lotti, Amedeo Nazzari, Giovanni Grasso, Umberto Spadaro, Anna Silena

Produzione: O.F.S. (Organizzazione Filmistica Siciliana) di PALERMO

 Il marinaio Turi circuisce a seguito di una scommessa con il gobbo calzolaio Fifi, la giovane Mariastella, figlia del capo-rais della tonnara. Questa sarà poi abbandonata e spinta dalla disperazione a prostituirsi. Riscatterà tuttavia successivamente la sua vita per amore del figlio nato dal breve rapporto con Turi. La vicenda si intreccia con quella di Zu Bastianu, ex galeotto graziato che vive solo e che ha trovato la forza dì redimersi.
Primo importante film realizzato dalla O.F.S., di cui il regista Pino Mercanti fu l’animatore artistico. La O.F.S. era stata creata da Francesco Gorgone due anni prima col sostegno del Banco di Sicilia, accogliendo le attrezzature tecniche e industriali della Sicania Film dell’architetto Bonci. L’obiettivo di lunga durata era quello di creare presso gli studi della Favorita Film di Palermo un polo produttivo autonomo; una sorta di città del cinema, che raccogliesse le migliori forze imprenditoriali, finanziarie, organizzative ed artistiche della Sicilia.
In questo film l’esperienza acquisita da Francesco Alliata come autore di cortometraggi entrò direttamente nella realizzazione delle riprese delle scene della tonnara che effettuò a titolo gratuito, come egli stesso dichiara nella seguente intervista: «Alla fine della guerra, mi ero comprato una bella macchina da ripresa a passo normale, una Arriflex 35 mm. dotata di vari obiettivi e di vari accessori. Stetti un mese e mezzo fra i “tonnaroti”. Là mi venne il grande desiderio di fissare nella memoria, nella pellicola, queste attività nostrane, che anche allora erano poco conosciute. Le tonnare, infatti, erano a tre-quattro miglia dalla costa; si stava per lungo tempo là fuori, isolati ed in attesa. Non si sapeva mai con precisione quando sarebbe avvenuta la mattanza, quindi non si poteva certo programmare una visita alla tonnara ed essere sicuri di riuscire veramente a vedere qualcosa. Capitava che per dieci giorni non succedeva niente e poi, all’improvviso, durante tre giorni, mattanza in continuazione, dalla mattina alla sera. Insomma, erano cose molto poco conosciute e per questo nacque in me il desiderio di fare qualche cosa di più per documentarle e diffonderle»
Nell’economia del film l’attore Otello Toso contende la parte principale all’azione corale della pesca dei tonni che con le sue drammatiche sequenze animate dalle ansie e dalle speranze di prosperità dei pescatori stessi, dà uno spaccato della vita siciliana di quel tempo. Dopo 1860 di Blasetti (che pure dovette rifare alcune riprese “siciliane” nelle campagne romane), Oltraggio all’amore è il primo esempio di film aderente alla realtà dell’Isola.
Nella piena evoluzione del neo-realismo lo sguardo ravvicinatissimo alla condizione dei pescatori di tonno e l’intreccio della fiction rivelano un contributo non secondario nel panorama complessivo della storia del cinema italiano della seconda metà degli anni ‘40.
Le riprese esterne furono effettuate nel golfo di Castellammare (per gli interni anche il Teatro Massimo di Palermo fu utilizzato in parte come teatro di posa) e vi parteciparono numerosi attori siciliani oltre che parecchie comparse irreggimentate sul posto. Anche il personale tecnico, ad eccezione dei due aiuto-operatori e dei truccatori, fu tutto siciliano. In particolare, il palermitano Edmondo Affronti nel suo ruolo di aiuto-regista, diede un forte contributo alla riuscita delle riprese.

 LA TERRA TREMA – 1947

Regia di Luchino Visconti

con attori non professionisti: Agnese e Nelluccia Giammona, Antonino Arcidiacono, Lorenzo Velastro Produzione: UNIVERSALIA FILM

La terra trema, ispirato al romanzo I Malavoglia di G. Verga e ambientato ad Aci Trezza, racconta le sfortunate vicende del pescatore ‘Ntoni e della sua famiglia: il desiderio di mettersi in proprio, il fallimento dovuto alla perdita della barca durante una tempesta, l’impossibilità di pagare l’ipoteca, che determinerà anche la perdita della casa e le conseguenti disavventure personali.
 Il film nasce come prima parte di una trilogia sulla vita dei poveri di Sicilia: l’episodio di una famiglia di pescatori che lotta contro il ricatto e il potere mafioso dei grossisti di pesce; quello dei minatori che formano una cooperativa per lavorare una miniera abbandonata, infine la lotta dei braccianti per l’occupazione delle terre incolte. Commissionato in un primo tempo dal Partito Comunista Italiano, il progetto a carattere documentario con obiettivi di impegno socio-politico, subì una trasformazione in itinere. A fronte di un lavoro della durata di un mese, Visconti preferì concentrarsi sulla prima parte della trilogia per la quale profuse sette mesi di lavoro, rinunciando al tempo stesso al finanziamento del P.C.I.
La terra trema nasce nel pieno del trionfo del neo-realismo ed è notoriamente acquisito come una delle migliori realizzazioni di Luchino Visconti, certamente testimonianza fra le più significative della storia del cinema italiano. L’ originalità del lavoro, tutto in presa diretta e rigorosamente dal vero, sta fondamentalmente nella mediazione dell’artista Visconti che sa tradurre in fiction d’arte la preesistente esperienza documentaristica, peraltro ben affermata in Sicilia attraverso l’appassionata azione di operatori a lui vicini anche per rapporti familiari (Renzino Avanzo, uno dei protagonisti dell’avventura della siciliana Panaria Film, è suo cognato), che molto probabilmente dovette avere un ruolo determinante nella genesi tecnica del capolavoro che pure nasce un anno dopo Turi della Tonnara di Mercanti.
«Volevo fare un film dei Malavoglia, ma non si trovava un produttore disposto a comperare i diritti (10 o 20 milioni, non ricordo). Così a Salvo D’Angelo della Universalia, che mi aiutò a distribuire il film dissi: Va bene, farò i Malavoglia di oggi, una “Terra trema” moderna. II tema è quello di una famiglia, la casa del Nespolo, il mare. Andai ad Acitrezza con un foglietto di appunti e basta. Non ho mai scritto niente per La terra trema, e i dialoghi li ho fatti fare improvvisare tutti dai pescatori, dalle donne. Per questo sono così veri» (L. Visconti).
Così ricorda Antonino Arcidiacono, che impersonò il ruolo di ‘Ntoni: «Visconti girava tutto al naturale. Anche la scena dei grossisti è vera. Noi l’abbiamo rifatta così come succedeva e lui l’ha scritta di notte, come faceva sempre, e il giorno dopo l’abbiamo girata. Visconti non si è inventato proprio niente, neanche i miei vestiti. Così ero quando mi hanno visto per la prima volta che tornavo da pesca. / … / Lui metteva assieme quattro, cinque persone e ci faceva commentare la scena da girare. Mentre parlavamo prendeva appunti su quello che noi si diceva e poi andava da alcuni vecchi di sessanta, settanta anni e gli faceva dire le parole in dialetto siciliano stretto stretto. Poi le dovevamo dire noi, proprio come parlavano allora»
«Mi ricordo che all’inizio Visconti doveva fare un documentario sui pescatori, sugli agricoltori mi pare, e sui lavoratori delle miniere di zolfo, e prese molte persone. Ci vedeva, ci guardava, ci incontrava e ci chiedeva se volevamo fare un documentario. Siccome allora ad Aci Trezza c’era miseria, ognuno pensava che poteva guadagnare qualcosa. La paga era di 1.500 lire ma quando entravamo nell’inquadratura la volevamo raddoppiata. / … / Visconti era terribile. Una scena la faceva ripetere fino a venti volte; anche tutta una giornata poteva passare per fare la stessa scena. Alla fine delle riprese, che durarono sette mesi, si fece una grande festa. 250 persone avevano lavorato in quel film. E’ stato un film realista veramente; Luchino Visconti ci faceva fare proprio quello che facciamo» (Dichiarazione di Lorenzo Valastro, “Lorenzo”, grossista di pesce nella vita e nel film).

 I BEATI PAOLI (I CAVALIERI DELLE MASCHERE NERE) – 1948

Regia di Pino Mercanti

con Otello Toso, Lea Padovani,  Mario Ferrari, Michele Abbruzzo, Umberto Spadaro, Carlo Ninchi, Massimo Serato, Paolo Stoppa

Produzione: O.F.S.

 L’azione si svolge agli inìzi del Settecento a Palermo. Contro ì dominatori e contro l’imbelle patriziato insorge un manipolo di uomini intrepidi: i Beati Paoli. Il volto celato da un nero cappuccio, la mano armata di una rete e di un pugnale, silenziosi, invisibili e inafferrabili conducono la loro guerra implacabile.
 È il secondo film della O.F.S. che viene annunciato nel luglio del 1947 insieme a Lupi della foresta e a I Malavoglia. Nella piena evoluzione del neorealismo, la scelta di un film in costume dà il segno della autonoma impostazione programmatica della O.F.S. che coerentemente persegue il suo obiettivo di valorizzare l’immagine anche storica della Sicilia. I riferimenti alle vicende narrate da William Galt (ossia Luigi Natoli), consentirono al film di riscuotere un largo successo di pubblico.
«Con Pino Mercanti, ormai definitivamente votato alla causa siciliana del cinema, cercammo di realizzare l’ambizioso quanto costoso progetto. Chiedemmo un prestito considerevole al Banco di Sicilia e cercammo delle azioni. Le difficoltà della cinematografia italiana dell’epoca e il notevole rallentamento del ritmo di lavoro per gli artisti anche del cinema nazionale, ci consentì, d’altro canto, di avere a disposizione un cast di alto livello. Gli attori infatti si prestarono all’opera per un prezzo davvero mite; poco più di una semplice ospitalità. Per la prima volta fu utilizzato il Palazzo dei Normanni, ossia il Palazzo Reale, per alcuni interni. In particolare la “sala gialla” fu trasformata dalla presenza di alcune colonne effimere realizzate per l’occasione. Anche la scalinata dell’atrio valorizzò notevolmente le scene di palazzo. Altri interni furono girati presso il Palazzo Comitini di Palermo, mentre per il resto si utilizzarono i due contigui teatri di posa che costituivano gli stabilimenti dell’O.F.S. in Via Monte Pellegrino: due grandi magazzini, dal soffitto molto alto che consentiva un’agevole collocazione degli strumenti di illuminazione. In quella circostanza tuttavia io e Mercanti che ci alternavamo nella regia, facemmo realizzare con tubi innocenti ricoperti da teli neri un’area di sfogo per consentire al carrello della macchina da presa di indietreggiare abbastanza al fine di garantire maggiore profondità di campo. I misteriosi sotterranei dei Beati Paoli furono riproposti “al vero” nei cunicoli di una cava, oggi interamente ricoperta per consentire il manto stradale dell’attuale Piazza Unità d’Italia. Gli esterni furono girati quasi interamente sulla costa palermitana. Nel complesso si trattò di una entusiastica avventura, piena di buona fede, nel corso della quale Pino Mercanti, acceso sicilianista, battagliò con la stampa nazionale che tendeva a sminuire gli sforzi della nostra iniziativa, marginale rispetto ai circuiti della cultura cinematografica ufficiale. Lo stesso fratello di Pino Mercanti tuttavia, fece di tutto per sottrarre il nostro regista all’attività cinematografica, avendo desiderato, lui che era un alto magistrato, che il fratello non abbandonasse il “posto” di funzionario del Banco di Sicilia» (Edmondo Affronti – aiuto regista)

 IL PRINCIPE RIBELLE (I LUPI DELLA FORESTA) – 1948

Regia di Pino Mercanti

con Massimo Serato, Paolo Stoppa, Mariella Lotti, Umberto Spadaro

Produzione: O.F.S.

 Uomini liberi reclutati fra tutte le classi sociali lottano contro gli invasori austriaci. Capo dei lupi della foresta è un nobile isolano, il Principe di Santagata, il quale, ferito in una imboscata, è soccorso e curato da alcuni frati in un convento di montagna. Qui viene scoperto da Cristina, figlia del Viceré, una giovane spregiudicata e avventurosa. Seguono colpi di scena e duelli, fino a quando il giovane principe, arrestato, è condannato al rogo, ma viene salvato dai suoi compagni e da Cristina.
 Per la realizzazione di questo film si utilizzarono in linea di massima gli stessi impianti scenografici e gli stessi costumi del precedente I Beati Paoli, di cui peraltro Il principe ribelle era la prosecuzione narrativa. Naturalmente ci fu una sorta di avvicendamento per quanto riguarda la tipologia dei ruoli degli attori, anch’essi gli stessi del precedente film della O.F.S.

IN NOME DELLA LEGGE – 1948

Regia di Pietro Germi

con Massimo Girotti, Jone   Solinas, Camillo Mastrocinque

Produzione: LUX FILM

 Tratto dal romanzo Piccola Pretura dell’ex magistrato Giuseppe Lo Schiavo. Un giovane pretore presta servizio in un piccolo centro della Sicilia dominato dalla mafia. Avversato da tutti, gli è amico un giovane e onesto lavoratore. Deluso e amareggiato per le ingiustizie e i soprusi decide di andarsene; ma la morte del giovane suo amico Paolino lo spinge a rimanere per combattere la mafia.
 All’uscita del film si disse che si trattava di un western siciliano. In particolare si rimproverò a Germi di avere tradotto una problematica politico-sociale in un  film  d’azione, sia pure dalla spettacolarità molto rigorosa e forte. In realtà esiste una scansione narrativa dagli efficaci contrasti, una notevole sensibilità visiva che restituisce bene l’emozione dell’immagine della Sicilia. Gli stessi personaggi sono ben integrati nella struttura filmica e vivono come sintesi fra l’intento civile del regista e il significato della cultura e della realtà siciliana.
Il film è stato girato quasi interamente a Sciacca, in diversi luoghi della città: al S. Michele, nella zona del Carmine (dove si trovava il circolo), nella Piazza Scandaliato, in prossimità dell’ingresso del Municipio, all’Olivella; in Piazza Noceto il set centrale.
«Ho scritto, assieme ad altri, il trattamento senza mai aver messo piede in Sicilia. Il film aveva nella mia testa un valore di costruzione drammatica / … / quanto avevamo fatto intuitivamente non si rivelò sbagliato, andava bene lo stesso, però assunse tutta una nuova illuminazione /…/. E allora tutto acquistò una nuova dimensione, una diversa e più profonda realtà e anche un pathos maggiore, un senso epico e umano più profondo» (Pietro Germi).
«In nome della legge fu un bel film, girato in Sicilia, che in quel momento era un posto particolarmente interessante. C’era ancora Giuliano, c’era la mafia. Noi non avevamo seccature, perché dal momento in cui il film veniva accettato tutto andava liscio. /… / La gente, Giuliano non lo nominava mai, era un argomento tabù. Non so che cosa la produzione avesse dato da intendere laggiù, ma avemmo tutti i permessi facilmente, e comunque siccome il film si girava tutto a piccole scene, era difficile intuire il suo significato generale» (Massimo Girotti).
«La troupe in Sicilia, fu accolta con il massimo entusiasmo. Allora, poi, erano gli anni in cui c’era la passione per il cinema, il cinema per la gente era qualcosa di magico, di fiabesco. Trovammo porte aperte dappertutto e pochissime difficoltà rispetto a quelle che ci furono dopo con l’andare degli anni, e a quelle tipiche di un certo costume siciliano. Non avevamo praticamente nessun fastidio dagli ambienti mafiosi, forse anche perché, tutto sommato pur essendo un film sulla mafia, la mafia ne usciva bene» (Mario Monicelli).

STROMBOLI TERRA DI DIO – 1949

Regia di Roberto Rossellini

con Ingrid Bergman, Mario Vitale, Renzo Cesana.

Produzione: R.K.O.

 Una giovane russa rinchiusa in un campo di concentramento italiano conosce un pescatore dell’isola dì Stromboli e lo sposa per evitare la prigionia. Il matrimonio non è felice perché la donna si sente spaesata e la casa dell’isola è molto angusta. Ali ‘approssimarsi della maternità decide di fuggire, mentre l’isola di Stromboli sussulta per il terremoto. Dopo un lungo cammino la giovane, al limite della resistenza si abbandona al pianto e alla disperazione in prossimità della cima del vulcano rivolgendosi a Dio.
 Il film per certi aspetti è una derivazione da un iniziale progetto maturato dai contatti tenuti fra Roberto Rossellini e il cugino Renzo Avanzo già suo aiuto-regista, e insieme a questo con gli altri giovani protagonisti della impresa della Panaria, la casa di produzione palermitana che fino a quell’epoca si era distinta nella realizzazione di cortometraggi, in parte girati nelle isole Eolie. Le storie di cui i giovani documentaristi furono testimoni nell’arcipelago siciliano, raccontate a Rossellini e alla Magnani, conquistarono i due artisti che pensarono alla realizzazione di un film ambientato proprio nelle isole Eolie. La Panaria, consociata con Ferruccio Caramelli, Presidente della Artisti Associati Italiana diede avvio al progetto che avrebbe dovuto concretizzarsi alla fine del 1948. La fuga di Rossellini dall’Italia, conquistato dalla nota lettera di Ingrid Bergman, con la quale l’artista svedese dichiarava al regista italiano di voler lavorare per lui, interruppe improvvisamente i preparativi del film. Rossellini “riapparve” dopo alcuni mesi con la sceneggiatura di Stromboli terra di Dio, protagonista Ingrid Bergman, prodotto dalla casa americana R.K.O. Utilizzando l’idea delle sequenze della tonnara e le ambientazioni previste dalla Panaria, Rossellini si ispirò ad un racconto di Antonio Aniante, Eva, provocando le accuse di plagio da parte dello stesso Aniante. Le riprese del film iniziarono nel mese di Aprile 1949, circa venti giorni prima di quelle di Vulcano, per la cui realizzazione la Panaria dovette ridefinire l’intero progetto realizzativo dopo il “tradimento” di Rossellini.
Il film è rimasto nella storia cinematografica del dopoguerra soprattutto per le note vicende che unirono la Bergman a Rossellini, contemporaneamente al clamoroso distacco dalla Magnani, anche se Rossellini avrebbe considerato successivamente Stromboli terra di Dio come la prima parte di una trilogia della solitudine centrata su un personaggio femminile (le altre due parti sono, come è noto, Europa 51 e Viaggio in Italia). Al di là degli scandali e delle cronache mondane, ma al di là anche della trama e della interpretazione della protagonista, rimangono forti l’espressività e il fascino delle immagini di quei luoghi che arrivarono rapidamente per la prima volta in tutto il mondo. La produzione americana R.K.O. fu infatti in grado di distribuire contemporaneamente 1500 copie del film nei cinque continenti, puntando soprattutto sulla curiosità che l’evento artistico/mondano aveva ormai universalmente causato e riuscendo a rifarsi delle spese.

VULCANO 1949

Regia di William Dieterle

con Anna Magnani, Rossano Brazzi, Geraldine Brooks

Produzione: PANARIA FILM

 Una donna dal burrascoso passato torna dopo molti anni nella sua Vulcano per difendere la sorella dalle insidie   di   un   losco palombaro   che vorrebbe prostituirla. Lo uccide e poi si lascia morire durante il terremoto fra le macerie della sua casa.
 Vulcano è il primo film della Panaria, la casa di produzione palermitana fondata nel 1946 da Francesco Alliata, Quintino di Napoli, Pietro Moncada e Renzo Avanzo; quattro appassionati di cinematografia marina che nei primi anni avevano già realizzato alcuni importanti cortometraggi di cinematografia subacquea, in buona parte effettuati nell’arcipelago delle Eolie. Il passaggio dal documentario sàia fiction fu l’argomento del progetto Vulcano stimolato da uno dei quattro soci, Renzino Avanzo, l’unico non siciliano del gruppo che già lavorava nel cinema come professionista, essendo stato aiuto-regista di Roberto Rossellini, di cui era anche cugino, e comunque naturalmente inserito nella cultura e nella pratica cinematografica anche per la frequentazione di Luchino Visconti, suo cognato.
Il film fu inizialmente affidato alla regia di Roberto Rossellini con protagonista Anna Magnani. Le note vicende sentimentali del regista che abbandonò la Magnani per Ingrid Bergman, arrestarono clamorosamente il processo di organizzazione e realizzazione del progetto, che successivamente venne affidato, dopo la defezione di Rossellini, al regista americano di origine tedesca William Dieterle, già attore nella compagnia di Max Reinhardt, che aveva al suo attivo parecchi film con grandi attori. La ricerca negli Stati Uniti, condotta da Renzo Avanzo e il Commendatore Caramelli, associato alla Panaria per la produzione del film, fu completata dall’ingaggio della giovanissima attrice Geraldine Brooks e di Rossano Brazzi che già lavorava a Hollywood, e che parlando correttamente l’inglese avrebbe consentito la realizzazione in presa diretta del film destinato anche al mercato americano.
Vulcano fu girato interamente presso l’omonima isola, interni ed esterni, fra difficoltà logistiche notevoli. La troupe che faceva base sull’isola la lasciò solo due volte per girare delle scene a Lipari, alle cave di Pomice ed a Salina. A Vulcano si allestirono, con sistemazioni di fortuna tutte le infrastrutture necessarie, compresi gli uffici stampa, i gruppi elettrogeni, i laboratori e i depositi per le apparecchiature.
Il film conserva le stesse qualità di fotografia dei documentari; del resto Vulcano propone fedelmente la vita e la realtà delle isole Eolie sul finire degli anni quaranta. Non a caso, ritornano le immagini della pesca al pesce spada, quelle della tonnara e delle cave di pomice tratte dai documentari della Panaria Film e che Dieterle decise di adoperare. L’aderenza alla realtà, l’uso dei luoghi reali, compresi anche gli interni, la forma della presa diretta fecero sì che Vulcano avesse tutte le peculiarità solitamente attribuite ai film neorealisti, ed invece spesso assenti da quelli.

LA CARROZZA D’ORO – 1952

Regia di Jean Renoir

con Anna  Magnani, Duncan  Lamont, Odoardo Spadaro, Paul Campbell, Riccardo Rioli, Michael Tor, Nada Fiorelli

Produzione: PANARIA FILM

 Il viceré del Perù, colonia spagnola, sì invaghisce di una attrice che recita in una compagnia dì commedianti dell’arte. Le regala una carrozza d’oro con grande scandalo della nobiltà. Minacciato e sorpreso per questa reazione, il Viceré sta per cedere quando l’attrice lo assale svergognandolo. Inutile il tentativo di riconquista da parte del viceré: Camilla ha già altri due spasimanti, un cavaliere e un torero. Alla fine, delusa da tutti e tre l’attrice sceglie la sua vera passione, il teatro.
Ispirato alla commedia di Mérimée, Le Carrosse de Saint Sacrement, il progetto fu in un primo tempo affidato a Visconti, il quale per circa un anno lavorò insieme ad uno stuolo di collaboratori alla preparazione del film. L’eccessiva cifra (circa 140 milioni) di cui poté fruire il regista non portò ad alcun risultato concreto. Fu questa la ragione per la quale il produttore Francesco Alliata, dopo aver cercato invano in Italia un altro regista che potesse sostituire il deludente Visconti, si rivolse al grande Jean Renoir, di cui lo stesso Visconti, come è noto era stato assistente. L’opera fu girata, per la prima volta in Europa in technicolor.
Le riprese del film avrebbero dovuto essere effettuate in alcuni paesi della Sicilia orientale, nei quali è particolarmente significativa la presenza di architetture barocche: Scicli, Comiso, Ragusa, Ma. La ricognizione effettuata in questi centri rivelò l’impossibilità di mimetizzare l’eccesiva presenza di cavi di luce elettrica, linee telefoniche, insegne luminose e persino palazzi moderni. Si decise pertanto molto a malincuore di ricostruire tutto a Cinecittà. La vicenda siciliana di questo film si concentrò pertanto su uno straordinario elemento: la carrozza d’oro, appunto. La produzione individuò infatti una antica carrozza appartenuta alla famiglia di uno dei soci della Panaria, il principe Moncada, che l’aveva ereditata dai principi di Butera. Una gigantesca vettura dorata in stato di totale abbandono che fu splendidamente restaurata per l’occasione. Un vero e proprio status symbol della nobiltà siciliana adattato a carrozza di rappresentanza del viceré. La storia successiva della carrozza della fiction porta verso esiti di interesse attuale. La carrozza infatti è oggi in esposizione presso lo scalone principale del Palazzo dei Normanni di Palermo, sede del Parlamento Regionale e meta di migliaia di turisti.

 IL BELL’ANTONIO – 1959

Regia di Mauro Bolognini

Con Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Pierre Brasseur, Rina Morelli, Tomas Milian

Produzione: ARCO FILM – CINO DEL DUCA – LYRE CINEMATOGRAPHIQUE

Antonio Magnano dopo molti anni toma a Catania, sua città natale, con la fama di dongiovanni. Quando si diffonde la notizia che con la bellissima ragazza appena sposata non riesce a consumare il matrimonio, scoppia lo scandalo. Per salvare l’onore della famiglia e dimostrare la virilità dei maschi di casa, il padre di Antonio muore fra le braccia di una prostituta e lo stesso Antonio diffonde la notizia che il figlio che la servetta di casa porta in grembo è suo.
 Ritratto forte di una società delle apparenze con complicazioni al limite dell’assurdo, utilizzate per sottolineare aspetti di costume di certa società siciliana. Apprezzabili le preziosità fotografiche, lo stile narrativo moderno e vigoroso, la vivacità di alcuni episodi, la caratterizzazione di alcuni personaggi.
«Fu una lavorazione stupenda, i Catanesi partecipavano con entusiasmo e mi trovavo a Catania bene come a casa, in Toscana» (Mauro Bolognini).
«In Sicilia non ero mai stato, e lì se uno ha un minimo di antenne capisce subito quanto drammatico possa essere il caso di un uomo impotente in una terra dove il sesso viene considerato un fatto quasi d’onore. Lo si intuiva da tante cose: dalla natura, dal sole, dalla fierezza che hanno i Siciliani, dalla loro chiusura, da questa cattiva educazione che hanno avuto per secoli e che ha fatto sì che una legge proprio d’onore regoli i rapporti sessuali. /…/ Mi ricordo che quando girai Divorzio all’italiana a Ragusa, pochi giorni prima del nostro arrivo c’era stato il fatto di una giovane sposa che aveva evirato il marito col rasoio perché, poverino, era un ‘bell’Antonio’ e lei si era sentita disonorata» (Marcello Mastroianni).
«Per i sopralluoghi e la scelta dei posti partimmo in aereo io e Mauro Bolognini, arrivammo alle 8,30 a Catania e dicemmo ad un taxista di portarci in giro lentamente per le vie della città, e scegliemmo così, senza scendere dal tassì, la casa di lui, quella di lei, la chiesa, tutto. Alle sei e mezza avevamo finito tutto. Mancava solo la villa di lei e prima di tornare all’aeroporto facemmo fare un giro fuori città all’autista e trovammo anche quella, scrivemmo da Roma e ci dettero il permesso. Né io né Mauro eravamo mai stati in Sicilia» (Alfredo Bini -Produttore).

L’AVVENTURA – 1959

Regia di Michelangelo Antonioni

con Monica Vitti, Gabriele Ferzetti, Lea Massari, Dominique Blachar, Renzo Ricci

Produzione: CINEMATOGRAPHIQUE LYRE – PRODUZIONI CINEMATOGRAFICHE EUROPEE CINO DEL DUCA

 Durante una crociera alle Eolie una ragazza del gruppo scompare. Tutti gli amici la cercano fra gli scogli e in mare fino a notte, invano. Due di loro decidono di continuare le ricerche in Sicilia attraversando diversi paesi. Durante le ricerche Sandro scopre la sua avventura con Claudia, la quale tradisce in questo modo l’amica Anna scomparsa.
 È il primo film della maturità di Antonioni. Liberatosi dalle scorie del primo neorealismo, il regista centra la sua attenzione sull’analisi del comportamento dell’uomo. Sfruttando, al tempo stesso, la sua giovanile esperienza di documentarista riesce a plasmare l’ambiente siciliano con l’articolazione del dramma.
Al di fuori di compiacimenti folcloristici, il paesaggio è fotografato in forme estremamente suggestive e utilizzato dall’autore per frammentare il ritmo dell’azione ed esprimere l’estraneità dei personaggi agli ambienti in cui si trovano ad agire. La capacità della macchina da presa di indagare e di indugiare per meglio “scoprire” l’isola rivela le tensioni delle cose e le sensazioni mute dei paesaggi, come è giusto che avvenga in un film d’arte in cui Antonioni esprime tutti i temi a lui cari: la precarietà dei sentimenti, l’incomunicabilità, l’indagine sulle figure femminili.
Il film fu girato in condizioni davvero avventurose a Lisca Bianca, nelle isole Eolie, in mezzo al mare in tempesta. «Tutte le mattine con una barca andavamo a girare su uno scoglio che si chiama Lisca Bianca, a venti minuti da Panarea. Quando il mare era calmo si vedevano sbuffi di vapore venire fuori dall’acqua e sciogliersi in tante bollicine sulfuree. Era costante nella burrasca. In quel breve tragitto per andare a Lisca Bianca rischiavamo letteralmente la vita. Credo di averlo odiato, il mare. /… / Avevamo imparato a caricarci i proiettori sulle spalle e a costruire praticabili a picco sul mare» (Michelangelo Antonioni)
Altre scene sono state girate nella Sicilia orientale (Capo d’Orlando, Messina, Taormina, Noto, Etna) e a Bagheria. In quest’ultimo centro Antonioni, dove fu attratto dalla presenza del suo amico Guttuso, girò alcune scene poco significative sul piano della individuazione dei luoghi. Ad esempio, mascherò il nome della Stazione ferroviaria con l’indicazione di quella di Milazzo, nella scena della partenza della protagonista; e lavorò nel salone degli specchi di Villa Palagonia senza volere in alcun modo identificare lo splendore di questa stessa villa.

 VIVA L’ITALIA – 1960

Regia di Roberto Rossellini

con Renzo Ricci, Paolo Stoppa. Franco Interlenghi. Giovanna Ralli

Produzione: CINERIZ-TEMPO FILM-GALATEA

 I noti eventi della conquista del regno delle due Sicilie ad opera dei Mille fino alla partenza di Garibaldi per il volontario esilio di Caprera.
 «Nel film Viva l’Italia! mi sono preoccupato di smitizzare la figura di Garibaldi, ma non per demolirne l’opera. Il personaggio mi affascinava, Garibaldi era, in fondo, un romantico: portava il poncio, aveva la barba ed i capelli lunghi. Il bisogno di comporre tutti gli elementi che mi potevano servire per delineare il personaggio mi hanno spinto a far sì che non esista, in tutto il film, una sola battuta di dialogo che non sia presa o da lettere o da proclami» (Roberto Rossellini).
«In Viva l’Italia! facevo Giuseppe Bandi, il memorialista della spedizione dei Mille, con Renzo Ricci che faceva Garibaldi. Il film fu poi utilizzato per le celebrazioni del centenario dell’Unità d’Italia, tanto che la prima fu fatta a Torino per Italia ‘61. Girato sui luoghi veri, con gente vera, copione appena accennato, come si sapeva che succedeva sempre con Rossellini. Nell’apparente caos, Rossellini mi è sembrato molto documentato, aveva letto tutto il possibile, sapeva tutti i particolari. Ho avuto l’impressione di un maestro di vita più che di un uomo di cinema» (Franco Interlenghi).
«La produzione mise insieme circa 700 giovani di Salemi e Vita per interpretare il ruolo di garibaldini (in buona parte picciotti), con una paga giornaliera di £. 1.500 circa pagate in monete d’argento. Ci venivano a prendere con i pullman al mattino, per portarci nel territorio di Calatafimi, dove altre centinaia di comparse indossavano le divise borboniche. Rossellini sfruttò in questo modo l’antica rivalità fra gli abitanti di Calatafimi e quelli di Salemi per dare maggiore forza realistica alle scene della famosa battaglia. Durante le riprese molti picciotti si mimetizzavano fra gli alberi per giocare a carte disertando il lavoro. La cosa venne scoperta subito e non si ripeté più. La produzione distribuiva “pietre” di carta per le scene delle sassaiole durante gli scontri; in compenso talvolta alcuni picciotti mettevano del pietrisco nelle canne dei fucili caricati a salve per colpire realmente gli avversari. Nel complesso le scene furono girate senza molte interruzioni e ripetizioni perché lavorammo con entusiasmo e partecipammo effettivamente all’intenzione dello scontro. Fra i garibaldini salernitani emergeva la figura di Benedetto Di Dia che all’epoca aveva 35 anni. A lui Rossellini fece interpretare il ruolo di Montanari e diede anche l’incarico di fare da controfigura a Garibaldi durante la salita verso Calatafimi. L’adesione dei Salernitani e dei Vitesi al ruolo dei garibaldini fu talmente forte che si rifiutarono di indossare i costumi borbonici nel momento in cui si verificò da parte della produzione questa esigenza scenica» (Ricordo di alcuni figuranti di Salemi).

DIVORZIO ALL’ITALIANA – 1961

Regia di Pietro Germi

con Marcello Mastroianni, Daniela Rocca, Stefania Sandrelli, Leopoldo Trieste.

Produzione: LUX/VIDES/GALATEA

 Storia del barone Ferdinando Cefalù detto Fefé che, per portare all’altare la bella cugina sedicenne di cui si è innamorato, concerta un piano perfetto che lo vede eliminare la moglie sorpresa in flagrante tradimento e cavarsela, a termine dell’art. 587 del codice penale, con una condanna ridicola.
 Germi ritrova la strada dell’impegno civile, cercando di mettere in evidenza contraddizioni e scompensi della vita italiana del tempo, dando avvio ad una fortunata serie di film divertenti e satirici. In questo filone il binomio Germi-Sicilia si riproporrà con Sedotta e abbandonata.
«La vena comica l’ho tirata fuori, affrontando un tema non di costume ma di mentalità. Il grottesco è tutto qui: aver confuso il sesso con l’onore e avere avallato questa confusione con un articolo di legge. Bisognerebbe leggersi i resoconti di certi processi celebri: l’assassino è un martire e un eroe. /… / Subito fin dal primo momento dovemmo renderci conto che la Sicilia faceva parte a sè. Il paesaggio siciliano, spiagge e campagne, città grandi e piccole è sempre pieno di fascino, e la natura, ora prodiga ora avara, è estremamente viva. Purtroppo tanto mi attira la natura altrettanto mi respinge un certo aspetto del costume, ancora rigidamente legato alla vecchia tradizione musulmana, eguale oggi come quando andai per la prima volta in Sicilia ai tempi di In nome della legge. A Ispica e a Ragusa ogni ragazza che assumevamo come comparsa giungeva al lavoro scortata da una mezza dozzina di fratelli o parenti vari, che si aggiravano poi per ore attorno al set senza mollare di un attimo la sorveglianza» (Pietro Germi).
«Se alla fine io arrivai a fare questo film fu perché su suggerimento di Notarianni mi feci fare delle fotografie con i capelli tutti lisci e li pettinai così, sulla convenzione siciliana: cioè anche io, come una americano, pensai che un barone siciliano dovesse avere i capelli lisci anche se magari li ha ricci, come quelli di tutti gli Italiani incluso i miei» (Marcello Mastroianni).

SALVATORE GIULIANO – 1961

Regia di Francesco Rosi

con Pietro Cammarata, Frank Wolf, Salvo Randone, Accursio Di Leo

Produzione: FRANCO CRISTALDI

 Le vicende di Salvatore Giuliano, il più celebre bandito del dopoguerra siciliano, raccontate nei luoghi reali, pur fra gli irrisolti misteri e le omertà che lasciano ancora tratti oscuri in questa storia recente.
«Ho girato il film negli stessi luoghi dove avvennero i fatti: fra le strade di Montelepre, a Sagana, nelle montagne di Montedoro, nella pianura di Portella delle Ginestre, a Castelvetrano. Ho cercato di far rivivere i documenti attraverso i nomi, i fatti, gli angoli delle strade. I luoghi dei miei film non sono semplici sfondi scenografici, ma condizioni ambientali che determinano le storie, anzi la storia. Per Salvatore Giuliano trovai grosse difficoltà iniziali, perché i fatti erano troppo recenti. L’opposizione della gente la potei vincere solamente dimostrando che lavorando sotto i loro occhi e chiedendo la loro partecipazione -indispensabile a dare al film la sua “vibrazione” reale – mi offrivo a loro disarmato, con intenzioni oneste e sincere, e che perfino potevano controllarmi. Ci sono stati momenti molto difficili, per esempio la scena dello scatenamento delle donne di Montelepre, che non era prevista in sceneggiatura. Le donne non volevano farla, e dovetti mandare a prendere donne dallo Spasimo, un quartiere popolare di Palermo, tra le quali ovviamente c’erano anche donne di vita ecc. Quando le donne di Montelepre hanno visto tutto questo, hanno detto: ‘no, le donne di Montelepre siamo noi, ci dobbiamo essere anche noi’, perché non volevano che l’immagine delle donne di Montelepre fosse deformata (come se la gente potesse distinguere le donne di Montelepre da quelle di Palermo!). Al momento di girare, poi, è accaduto che non esisteva più né Montelepre né Palermo, esisteva solo una presenza femminile che è esplosa con una violenza incredibile, rendendomi molto faticoso riuscire a tenerle buone. Hanno talmente rivissuto i momenti in cui i carabinieri portavano via i loro uomini che la finzione della rivolta rischiava di diventare realtà. A Montelepre prima di darmi la loro autorizzazione a girare nel paese, c’è stato una specie di interrogatorio simile a un processo alle intenzioni, in sede di consiglio comunale, presenti i due parroci, il sindaco, il tenente dei carabinieri e rappresentanti della popolazione … Io giocai solo sull’onestà delle mie intenzioni; alla fine dissi: “Io ho scelto di lavorare sotto i vostri occhi, maggiori garanzie di questa non ve ne posso dare”. Mano mano, essendo io riuscito a vincere questa diffidenza, ho ricreato le stesse condizioni in cui dieci anni prima erano nati gli avvenimenti. Gli attori erano contadini che avevano vissuto la storia che io ho ricostruito con loro. Non è un documentario, è una ricostruzione di un momento storico, su una documentazione storica il più possibile precisa, perché ho adoperato nomi e luoghi veri e documentati a vicende vere. Non volevo falsare la realtà. Ho sentito l’esigenza di, “inventare” uno stile, perché la realtà è stata ricostruita anni dopo, ma attraverso la partecipazione di chi l’ha vissuta. L’episodio di Portella delle Ginestre è significativo. Sono andato a vedere cosa succedeva un primo maggio, con la troupe ma senza girare. Erano gli stessi contadini dei tre paesi attorno a Portella a radunarsi ancora sulla pietra di Barbato, dove c’era il discorso e poi la festa. La festa l’ho poi ricostruita tale e quale e ho aggiunto gli spari da lontano; e quando sono arrivati gli spari la gente si è comportata esattamente come si era comportata allora. C’era una donna davanti alla macchina da presa che cercava il figlio che aveva perduto nella confusione… Tutto il film è stato fatto così. /…/ ebbi anche molte difficoltà con la famiglia di Giuliano, che non aveva capito le mie intenzioni. Quando ho girato al cimitero di Montelepre, volevano impedirmi di farlo. Poi è venuto il fratello maggiore di Giuliano… Alla fine ho girato, ma con momenti di forte tensione…» (Francesco Rosi).

LA SMANIA ADDOSSO – 1962

Regia di Marcello Andrei

con Gerard Blain, Landò Buzzanca, Ernesto Calindri, Nino Castelnuovo, Gino Cervi, Vittorio Gassman, Umberto Spadaro, Annette Stroyberg, Leopoldo Trieste

Produzione: MEC CINEMATOGRAFICA – LES FILMS AGIMAN

 Due amici usano violenza a una ragazza ma ciascuno di loro si rifiuta di sposarla. Nella vicenda intervengono le famiglie, la mafia, i carabinieri. In tribunale l’avvocato di uno dei due giovani riesce a far prevalere la tesi che è stata la ragazza ‘disonorata’ a provocare il suo cliente.
 «Inizialmente ci orientammo verso Gibellina, dove tuttavia trovammo un clima sociale desolante: tanti uomini col basco nero e nessuna donna per le strade. Andammo in una pensione, dove ci vennero a trovare due signori che ci chiesero di raccontare loro la vicenda del film. Quando capirono che c’era un personaggio di mafia, se ne andarono senza dirci nulla, ma il mattino seguente il padrone della pensione mi fece sapere che la nostra presenza non era gradita. Ci spostammo così a Santa Margherita Belice; fui affascinato subito da questo paese primitivo ma bello, fresco, nonostante il clima dell’estate. Anche in questo caso, tuttavia, vennero a trovarci nell’albergo di Palermo dove alloggiavamo due signori di Santa Margherita Belice. Vollero leggere la sceneggiatura; cosa che fecero in brevissimo tempo. Alla sera tornarono a trovarmi per dirmi che alcuni aspetti della vicenda, e in particolare del comportamento del personaggio del mafioso avrebbero dovuto essere attenuati, e che in linea di massima erano d’accordo per la realizzazione del film. In effetti, durante tutta la lavorazione de La smania addosso, questi due signori furono sempre presenti, seguendo attentamente tutte le battute e tutta l’azione. In certe strade, tuttavia, non ci fu consentito di girare, ma l’ultimo giorno ci salutarono rispettosamente offrendoci un caffè; anche se alla fine ci dissero di essere coscienti che nel cinema esistono i “trucchi” e che con questi si potevano modificare tante cose. Lavorammo in varie parti del paese, riprendendolo così com’era, senza artifici, senza interventi scenografici o scenotecnici. Ci comportammo allo stesso modo con l’altro paese contiguo, Montevago, dove girammo parecchie scene utilizzando, come a Santa Margherita, diverse decine di comparse, generici, ragazzi e ragazze del luogo. Siamo rimasti circa due mesi in quei paesi. La popolazione era deliziosa; ci portavano i biscotti sul set e ci invitavano a pranzo. Era una gara continua di ospitalità: il Sindaco, un Avvocato, la gente comune vivevano un’atmosfera di festa collettiva. A Santa Margherita incontrai una delle più belle donne del mondo. Ci spostammo in più punti. Finito di girare, mi trasferivo per la scena del giorno appresso: strade, stradine, cortili, ingressi, finestre, cercai sempre di riprendere il meglio. Ci spostammo pure a Partanna dove furono girate le scene dell’uscita dal Tribunale e qualche altra breve sequenza. Girammo anche nella casa del Sindaco di Santa Margherita Belice che andava fiero della sua sala da pranzo. I due grossi nomi, Cervi e Gassman, li pretese la casa di distribuzione, la Warner Bros. Gassman era stato mio compagno di liceo, mentre con Cervi, anch’egli mio caro amico, avevo lavorato in teatro. Cervi mi confidò che con Santa Margherita Belice aveva un “credito” di presenza, in quanto in un primo tempo era stato scelto da Visconti per la parte del Principe di Salina, poi attribuita a Lancaster, probabilmente per una piccola invidia maturata nell’ambiente di lavoro. La lavorazione del Gattopardo, ad un certo punto, coincise con quella del mio film. Gli alberghi di Palermo diventarono impraticabili perché pieni di attori. Fu così che ci spostammo a Sciacca. Un venerdì mattina seppi che Visconti era venuto a Santa Margherita. Seppi anche che quel giorno Luchino non scese neppure dalla macchina; fece un giro rapido nella piazza principale e se ne andò di corsa, probabilmente infastidito dalla presenza di un’altra troupe» (Marcello Andrei).

UN UOMO DA BRUCIARE – 1962

Regia di Vittorio Taviani – Valentino Orsini con Gian Maria Volonté, Didi Perego, Lydia Alfonsi, Spiros Fokas, Marina Malfatti, Vittorio Duse, Sandro Sperli, Turi Ferro

Produzione: MOIRA FILM – AGER FILM -SANCRO FILM

Salvatore, giovane sindacalista, ritorna al paese d’origine in Sicilia. Il suo impegno lo porta ad un durissimo contrasto contro la mafia locale. Finirà ucciso per mano di un anonimo sicario.
 Opera prima dei Fratelli Taviani, ispirata alle vicende del sindacalista siciliano Salvatore Carnevale, il film è la conclusione naturale di un lungo lavoro di preparazione avviato negli anni Cinquanta dai Taviani e da Valentino Orsini, quando i tre amici decisero di realizzare una serie di documenti di ispirazione sociale, partendo dal teatro.
Il film è stato girato a Sciara, un piccolo centro dell’immediato entroterra fra Termini Imerese e Cefalù. L’evento cinematografico fu vissuto da tutta la popolazione con grande partecipazione; e ancora oggi c’è chi discute sulla fedeltà del film ai fatti di mafia che tolsero la vita a Salvatore Carnevale.
«Il neorealismo era nostro padre; ma d’altro canto cosa ci può essere di neorealistico nel nostro primo film? Probabilmente c’era questo essere immersi nella natura e nella storia, in un paesaggio ben determinato geograficamente e storicamente. Il film però nasceva proprio in polemica con lo scadimento del neorealismo nel bozzettismo cronachistico, nel naturalismo piccolo borghese. Un uomo da bruciare riaffermava la necessità della violenza nella lotta. Per esempio, durante il congresso delle Leghe contadine i compagni accusano Salvatore di ‘voler fare la rivoluzione’ e Salvatore risponde che non è esperto in teorie politiche: ‘so soltanto che se oggi abbiamo sconfitto la mafia è solo una questione di tempo. La mafia è ancora lì, sulla terra, nelle miniere, e ci aspetta’. E infatti la mafia lo ucciderà. Salvatore è un eroe positivo nonostante i suoi difetti» (Vittorio Taviani)
«I fratelli Taviani mi chiesero di fare il protagonista, e fu il mio primo protagonista. La contraddittorietà del personaggio che interpretavo sullo schermo venne fuori proprio dalla lettura della storia di questo sindacalista siciliano, che esprimeva una sua reale esigenza di autonomia, contrastante con la realtà in cui operava. / … / In quegli anni fu difficile portare sullo schermo questa storia e questo personaggio, soprattutto perché i Taviani erano alla loro prima esperienza e nessuno li conosceva. Io non avevo certo quello che viene detto un mercato cinematografico, e così non fu facile montarlo proprio da un punto di vista finanziario, organizzativo» (Gian Maria Volontè).
«Fui chiamato per giocare in piazza con altri ragazzini ai ‘ciampi’, una specie di gioco delle bocce» – «Ho giocato a biliardo con Volontà al primo piano del bar che stava lì nella casa d’angolo che ora non c’è più; io ricordo i carrelli della troupe e gli attori sul corso; i contadini a cavallo e coi muli che scendevano verso di noi; ma soprattutto il funerale che scendeva da Via D’Asaro con l’Ape scoperta e dietro il corteo delle bandiere rosse» (testimonianze di due figuranti).

IL MAFIOSO – 1962

Regia di Alberto Lattuada

con Alberto Sordi, Norma Bengell, Ugo Attanasio, Lilly Bistrattin, Michèle Bally, Cinzia Bruno, Katiuscia Piretti, Armando Thiné, Carmelo Oliviero, Francesco Lo Brigio

Produzione: COMPAGNIA CINEMATOGRAFICA ANTONIO CERVI

 Un siciliano svolge una vita tranquilla al nord con una bella moglie milanese. Venuto a trascorrere le ferie in Sicilia nel suo paese d’origine, viene inaspettatamente costretto da un giro mafioso a compiere un delitto in America, dove viene spedito chiuso in un baule. A missione compiuta fa ritorno in Italia.
 Commedia satirica, il film di Lattuada è un raro esempio di proposta ironica del fenomeno mafioso e impietosamente sarcastica del costume siciliano. C’è tutta la Sicilia del folklore, dettagliatamente descritta nelle figurazioni di maggiore effetto utili a stimolare la risata dello spettatore: l’accoglienza strappalacrime a suon di “patri” e “matri” della coppia “milanese”, le donne baffute e barbute dalle dentature storpie, le nidiate di bambini, le coppole, le lupare, i mandolini. Tutti segni che Lattuada individua e propone come sicilianissimi. E ancora, la promiscuità, le galline sotto il letto, gli sguardi di diffidenza, i pellegrinaggi nella casa del boss, gli occhi spianti dietro le persiane. Una enfatizzazione ed una esasperazione di una Sicilia che per Lattuada non sembra essere altro che questa, in contrapposizione alla bellezza inappuntabile della moglie milanese e della precisione cronometrica di un nord tutto da esaltare a confronto.

SEDOTTA E ABBANDONATA – 1963

Regia di Pietro Germi

con Stefania Sandrelli, Saro Urzì, Lando Buzzanca, Leopoldo Trieste, Aldo Puglisi, Lola Braccini, Rocco D’Assunta, Umberto Spadaro, Oreste Palella

Produzione: LUX – ULTRA -VIDES – LUX C.C.F.

 Una giovane donna viene sedotta dal fidanzato della sorella. Di fronte alla “necessità” dì riparare il torto, il giovanotto cerca di darsi alla latitanza. Quindi è la ragazza a non volerne più sapere. Il padre, che ha cercato in tutti ì modi di difendere l’onore e l’immagine della famiglia, muore il giorno delle nozze.
 Il film è stato girato a Sciacca, Santa Margherita Belice, Favara, Ispica. Fra le suggestioni delle ambientazioni esterne delle piazze e dei paesaggi della Sicilia, ormai acquisite dalla cinematografia, assume particolare interesse la presenza del Palazzo dei Principi di Cutò, ormai in rovina, che proprio pochi mesi prima era stato attentamente visitato da Luchino Visconti con l’intenzione di riproporre filologicamente l’immagine del Palazzo di Donnafugata nel suo Gattopardo.
«Al di là dell’aspetto più pratico e contenutistico in Sedotta c’è un groviglio complicato, mostruoso, che fa eccezione alle leggi della natura. C’è tutta la rappresentazione di un ambiente, di una società: tipi, caratteri, tutto un mondo. In sostanza Sedotta, e vorrei che nel film si vedesse, è la deformazione quasi goyesca di una realtà. Mi piacerebbe che un critico dicesse: “da questa storia che fa ridere si esce con un senso agghiacciato di paura, come dopo aver assistito a una galleria di cose, di facce, di mostri”. Mi piacerebbe che si dicesse questo: la mia ambizione sarebbe di averlo realizzato, di essere riuscito a dirlo» (Pietro Germi)
«Germi era indeciso, non sapeva se farmi fare il fratello o il seduttore. Poi per il seduttore non andai bene perché non ho l’aspetto di una vittima, sembro uno che un cazzotto non lo subisce ma lo molla. Ma ancora non aveva trovato Puglisi, che poi fece quel personaggio molto bene, e così ero in ballottaggio tra quei due caratteri. Saro Urzì fu fantastico, rese davvero una interpretazione stupenda di quel ruolo molto, molto difficile. Lui era un attore che non si poteva guidare, doveva essere lasciato libero, e questo Germi lo capì. I personaggi di Sedotta e abbandonata erano delle maschere, eravamo tutti truccati in maniera quasi carnevalesca. Una notte, giravamo in una piazza di Sciacca e nel percorso dall’ambiente che avevano adibito a sala trucco, alla piazza – 300 metri di strada -le donne, che erano tutte grasse, tutte acconciate strane, tutte sciatte, si ribellarono. Io capii questa loro ribellione: che cavolo ci sarebbe voluto a portarle sul set con delle macchine? Perché sotto i riflettori qualsiasi deformazione assume un valore, ma fuori, uno combinato in quel modo diventa squallido! Invece Giacosa, un vecchio segretario di produzione, si incazzò molto, cominciò a urlare e se la prese anche con me che parteggiavo per loro. Io ero entusiasta di questo mestiere, e cercavo di dare una mano come potevo. Per esempio nella scena del tribunale quando la ragazza disonorata esce e immagina tutte queste facce orrende che urlano “puttana!” come degli assatanati, le facce, le espressioni delle comparse non risultavano mai abbastanza feroci, e allora mi misi dietro la macchina da presa e comincia a lanciare insulti in puro siciliano. La reazione venne subito! L’amore di Germi per il sud nasceva dal caldo. Lui amava il caldo, poi amava le facce del sud, amava la gente zitta come lui, le lunghe partite di scopa o di tre-sette intorno al tavolo di una osteria su cui era posta la mezzina del vino.” (Lando Buzzanca)
«Sulla scalinata eravamo circa venti ragazzi. All’inizio distribuivo dei biscotti, poi quattro di noi si avvicinarono alla finestra due sulle spalle degli altri due, da dove si poteva assistere alla scena del tentativo di impiccagione del barone. Saro Urzì ci dava alcune indicazioni sulle battute. Durante l’azione sulla scalinata, si svolgevano le riprese del cortile: c’erano alcune donne che lavoravano, alcune galline, un asino e un carretto. L’altro luogo di ripresa era nella piazza (nella parte antistante il palazzo del Gattopardo), da dove Urzì entrava per dare inizio alla scena della visita la barone. Il compenso che spettò a noi ragazzi fu di 2.000 lire» (Gaspare Cicio: figurante)

IL GATTOPARDO – 1963

Regia di Luchino Visconti

con Burt Lancaster, Alain Delon, Claudia Cardinale. Rina Morelli, Paolo Stoppa, Lucilla Morlacchi

Produzione: TITANUS

 Tratto dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il Principe di Salina, assiste con sapiente lungimiranza ma anche con la consapevolezza che tutto è destinato a rimanere uguale, all’ approssimarsi del “nuovo corso” in una Sicilia atavicamente legata alle sue tradizioni. Non ostacola gli entusiasmi del nipote Tancredi per le vicende garibaldine e favorisce le sue nozze con la bella Angelica figlia dì un ricco borghese.
 Abbandonando l’ideologia e l’approccio tecnico del tramontato neorealismo, Visconti ritorna in Sicilia per rappresentare la grandezza e la decadenza di una civiltà in declino. Non più dunque una realtà popolare, ma la dimensione di una nobiltà che pure ha lasciato un segno profondo nella cultura della Sicilia. In questo film Visconti assimilandosi al protagonista crea una sorta di cesura con la cultura nazional-popolare. aprendo ad uno spettacolismo che esalti il fascino di uno splendore antico.
«Mi piacque immensamente il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Mi affezionai a quello straordinario personaggio che è il principe Fabrizio di Salina. Mi appassionai alle polemiche della critica sul contenuto del romanzo al punto di desiderare di poter intervenire a dire il mio pensiero. /… / Film e opera letteraria non possono essere la stessa cosa neppure nel caso di una narrativa realistica e naturalistica i cui temi principali hanno una certa affinità con l’espressione cinematografica. Figuriamoci Il Gattopardo. /… / Sarebbe la mia ambizione più sentita quella di aver fatto ricordare in Tancredi e Angelica la notte del ballo in casa Ponteleone. Odette e Swann, e in don Calogero Sedara nei suoi rapporti coi contadini e nella notte del plebiscito Mastro don Gesualdo. E in tutta la pesante coltre funebre che grava sui personaggi del film, sin da quando la lapide del “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi’” è stata dettata, lo stesso senso di morte e di amore-odio verso un mondo destinato a perire tra splendori abbaglianti che Lampedusa ha certo assimilato sia dalla immortale intuizione verghiana del fato dei siciliani, sia dalle luci e dalle ombre della Recherche». (Luchino Visconti).
«Una delle ricerche più impegnative fu quella relativa alla individuazione del Palazzo che potesse riproporre l’immagine di Donnafugata descritta da Tomasi di Lampedusa. Sapevamo che il Donnafugata dei Racconti e del romanzo in un certo senso era un’invenzione di Tomasi di Lampedusa; una sorta di summa di memorie dei palazzi dei Lampedusa stessi, raccolte in un’unica identità quasi onirica, identificata nel palazzo di Santa Margherita Belice. Quando arrivammo in questo paese dell’agrigentino, trovammo solo una facciata semi-diroccata, un edificio quasi tetro, con saloni scuri, complessivamente in degrado, con stanze fatiscenti. Vedemmo, fra gli altri, anche il palazzo di Palma di Montechiaro che pure piacque al Visconti e il Palazzo di Donnafugata vicino Ragusa non distante dal mare. L’interno era magnifico, meravigliosamente arredato, tuttavia di stile “secondo impero”, troppo avanti rispetto al momento storico che si doveva rappresentare. Scartammo, dunque, anche questa possibilità. A questo punto cessammo di fare ricerche per tutta la Sicilia e ci decidemmo, insieme a Visconti e alla Produzione, di costruire un’intera facciata a Ciminna, un paese dell’interno della provincia di Palermo, intatto e aspro, la cui chiesa piacque tanto a Luchino» (Piero Tosi – costumista, scenografo).
«La produzione, per motivi logistici, sollevò subito delle resistenze sulle possibilità di girare nei paesi in cui pure erano stati individuati palazzi riferibili all’idea di Donnafugata, in particolare a Palma di Montechiaro, dove Visconti si era soffermato con forte entusiasmo. A parte la distanza da Palermo, risultò estremamente disagevole ospitare una troupe di quel livello ed attrezzare un set così impegnativo come quello richiesto per Il Gattopardo. Io stesso dovetti faticare a lungo per dissuadere Visconti, e alla fine dovetti persino ricorrere a qualche menzogna per convincere Luchino a trovare altre soluzioni. Alla fine la scelta cadde su Ciminna, proprio perché molto più vicina a Palermo e soprattutto perché la piazza presentava una dislocazione degli edifici (il prospetto del palazzo, della chiesa e del Municipio) abbastanza convincente per le scene in esterno. Nonostante ciò, fummo costretti a ricostruire ex novo tutto per dare alla residenza estiva del principe di Salina la giusta dignità. In particolare, l’intera facciata del Palazzo fu una effimera sovrapposizione a una serie di case retrostanti. Ci vollero quarantacinque giorni di lavoro, durante i quali furono trasportati a Ciminna chilometri di tubi innocenti e colossali carichi di gesso da Messina. L’architetto Garbuglia aveva con sé quattro capisquadra e sei operai specializzati fatti venire direttamente da Roma. Gli altri operai furono reclutati fra i contadini del luogo. Gli autotreni carichi di sassi che avrebbero dovuto ricoprire il fondo stradale rimasero impantanati nelle vie di campagna; i ciottoli furono così portati a spalla come ai tempi della costruzione delle piramidi. Per quanto riguarda la residenza invernale, invece, non ci furono problemi di scelta: Villa Boscogrande, per questa ragione, peraltro vicinissima a Palermo, venne rapidamente restaurata dalla produzione e riconsegnata agli antichi splendori. Nel Palazzo Ganci a Palermo, Visconti girò invece la scena più famosa e più lunga del film, quella del valzer di Angelica e Don Fabrizio. Il Palazzo fu riaperto appositamente per le riprese che durarono più di un mese e mezzo. Eccezionale il numero dei tecnici, oltre agli attori e alle numerose comparse: circa 20 elettricisti, 120 sarti, 150 decoratori e ancora parrucchieri e truccatori. Gli interni di Donnafugata, furono girati a Villa Chigi, ed Ariccia, e interamente arredati da Visconti» (Pietro Notarianni – Direttore di produzione della Titanus)
«Mi trovai a dirigere contemporaneamente cinque cantieri diversi per le costruzioni delle scene dell’ingresso dei garibaldini a Palermo. Le centinaia di saracinesche da sostituire con le persiane, la pavimentazione di asfalto da occultare con la terra battuta, i fili-della luce e del telefono e le antenne della televisione da eliminare in quartieri di Palermo, non rappresentarono che le difficoltà più risibili. Le costruzioni di Palermo, fra cui quella della Porta attraverso la quale fanno irruzione le Camicie Rosse furono realizzate in quindici giorni». (Arch. Mario Garbuglia – architetto scenografo).
 ___________________________________________________________________________
Giovanni Isgrò, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università di Palermo, è autore e regista di teatralizzazioni urbane. Ha vinto il Premio Nazionale di Saggistica Dannunziana (1994) e il premio Pirandello per la saggistica teatrale (1997). I suoi ambiti di ricerca per i quali ha pubblicato numerosi saggi sono: Storia del Teatro e dello Spettacolo in Sicilia, lo spettacolo Barocco, la cultura materiale del teatro, la Drammatica Sacra in Europa, Il teatro e lo spettacolo in Italia nella prima metà del Novecento, il Teatro Gesuitico in Europa, nel centro e sud America e in Giappone. L’avventura scenica dei gesuiti in Giappone è il titolo dell’ultima sua pubblicazione.

______________________________________________________________

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>