di Nino Giaramidaro
Entriamo nella penombra delle stanze di Nicolò D’Alessandro. Ogni tanto un faretto squarcia per fermarsi sopra infiniti tratti di china che danno forma a figure comprensibili, lampi di fantasia, racconti puntuali di un sofferto vissuto siciliano. Forse D’Alessandro ha ispirato Albrecht Dürer e altri disegnatori e incisori dal Medioevo a venire.
In quei cento metri quadrati affollati di opere autoctone e di mozziconi di altre culture, tante altre lontane e vicine, ci si muove circospetti, controllando passi e gesti. Per non rischiare di calpestare una statuetta di Bali, una miniatura errante, un rotolo dove c’è illustrata, a lungo, la lingua secondo la vulgata della mano di D’Alessandro. Mano responsabile del disegno a china più lungo del mondo: 83,50 metri per 1,50.
Attenzione, su un tavolo e sul piccolo mobilio d’intorno ci sono le “scatole magiche” dalle quali fuoriescono strisce di carta manoscritte. Ad una ad una somigliano a «una lunga, scura, triste lingua, per formare una pozza» di incomprensibilità e suggestione. L’immaginazione si dispiega su illustrazioni, intarsi e grafie che sembrano familiari ma che difendono i segreti di popoli, etnie, genti sconosciute e sulle quali le nebbie della mente non hanno mai concesso di interrogarsi.
È difficile scoprire tutto quello che sembra disposto in modo manifesto, ma spesso occulto, mimetico, in una collocazione che può diventare esoterica. Io e il mio amico Toti Clemente, fotografo e polemista, siamo entrati nel Laboratorio Museo del Disegno nella casa d’arte di D’Alessandro. In via Mogia 8, a Palermo.
Toponimo obliquo, improbabile che Nicolò abbia scelto un luogo abbacchiato, sinonimo di avvilimento. È più conducente pensare all’antica misura di capacità per solidi, o a quella dei terreni, oppure al mastello, alla botte: barlumi oramai incerti di civiltà contadina non persa di vista da sensibilità come quella dell’artista nato a Tripoli, cresciuto ad Agrigento e diventato palermitano.
Una cifra determinante per D’Alessandro è la commistione, la molteplicità che si interseca e assedia le sue giornate, il suo modo di adempiere il destino quotidiano: pittore, disegnatore, scrittore, incisore, grafico, affabulatore e piccolo mecenate che nel suo micro museo ospita artisti, a volte grandi ma scògniti, fuori circuito o dispersi nelle infinitesime città del mondo siciliane.
Negli scampoli di pareti scoperti, su tavoli e tavolinetti, mensole e altri appoggi troviamo ancora le chine del messicano Juan Esperanza della serie “L’eros dei segni”, mostra conclusasi il 25 maggio. Con occhiute indagini, incuneati fra le opere stanziali si scoprono oggetti, scritti e manoscritti, affollamento d’arte che fa viaggiare la mente da un Paese ad un altro in una mescolanza inestricabile.
Filippo Fratantoni, ceramista, insegnante e direttore del Museo della ceramica di Santo Stefano di Camastra, seduto su una poltrona con vista panoramica sulla stanza alessandrina, col trascorrere dei minuti avverte un interesse in crescita per Esperanza, messicano che da molti anni vive a Sutera.
«La sua cultura profondamente india, messicana ed europea, la sua organica esperienza della sperimentazione contemporanea – sostiene Tano Siracusa, intellettuale e fotografo agrigentino – si relazionano ad un territorio tanto prezioso di memorie e di bellezza quanto in progressivo disuso. Una generazione, quella fra i venti e i quaranta anni, manca all’appello. È fuori, in Italia, in Europa, altrove».
Si parla con la mostra sullo sfondo delle parole, perché D’Alessandro vuole contribuire a salvare la lingua, la comunicazione ormai isterica e vacante, fatta di fretta, mucchi di consonanti, troncamenti quasi sanguinanti, senza più pause ritmi sillabe brevi e lunghe sottintesi rafforzativi: quella personalità della parola con disprezzo imprigionata nel disuso.
Nelle città non ci sono più nemmeno i “circoli della concordia”, dove si esercitavano l’allusione la metafora il traslato, in genere maligni ma partecipati, tormentati dal mal sottile del dire e non dire.
Conversiamo seduti su poltrone belle e spareggiate, col naso teso agli odori di carta, inchiostri, lacche e colori, bibite di ospitalità. Scorre la memoria l’ironia l’autoironia.
Nicolò D’Alessandro disegna per La Repubblica della domenica il volto di un personaggio al quale il giornale dedica una pagina. «Ho comprato del pesce al mercato – racconta – e quando a casa l’ho “scartato” ho scoperto che era stato avvolto in una pagina di giornale con uno dei miei disegni».
Come accade a molti ultrasettantenni che vivono a Palermo, la conversazione conduce al giornale L’Ora, frequentato professionalmente sia da lui sia da me. Vogliamo ricordarcene, e desideriamo che anche Fratantoni e Clemente acciuffino qualche scampolo di ricordi. Questo quotidiano palermitano e siciliano, chiuso 27 anni fa, non vuole essere dimenticato, combatte contro l’oblìo con tutto l’orgoglio di coloro i quali parteciparono alla sua epopea, specialmente in quegli anni ’60-’70 densi di avvenimenti – nessuno dei quali, forse, si sottraeva alla mafia – con Vittorio Nisticò, carismatico direttore e, secondo più di un sospetto, uno dei pochissimi giornalisti che aveva compreso il senso della Sicilia.
Nicolò D’Alessandro ricorda la sua partecipazione all’iniziativa di artisti e intellettuali negli ultimi anni ’70 per scongiurare la chiusura del giornale, abbandonato dal suo editore, il Pci impersonato da Amerigo Terenzi: circa un metro e novanta, capelli rossi, passo veloce e ampio, nei suoi raid attraversava il corridoio del giornale come fosse un camminamento di trincea; io l’ho sempre immaginato come uno dei rivoluzionari comunisti, prototipo Vittorio Vidali, che attraversavano il mondo e ubbidivano al Comintern. Nel ‘43 fu attivissimo nell’organizzazione militare clandestina contro il nazifascismo, «coraggioso combattente per la libertà» secondo Pertini. Morì nel 1984, a 75 anni, in Corea del Nord per un’emorragia cerebrale.
Memoria. Scorre tremula sugli anni che hanno lenito lo sgomento. Il dialogo con Nicolò sdrucciola verso il silenzio. Cuttitta parla dei fotografi e di quegli otto che hanno illustrato Santo Stefano di Camastra con immagini ora impacchettate e in attesa sul pavimento della wunderkammer, camera della meraviglia, faticose testimonianze che sembrano guardare gli impacciati visitatori. Nicolò accende il telefonino. Siamo – apprendo – in “streaming” o collegati a un sistema telematico che per me non ha nome.
Si fanno vivi amici, artisti, intellettuali da tutta la Sicilia, da New York, dalla Russia non solo per vedere i disegni di Esperanza che vengono inquadrati dalla telecamera telefonica: ascoltano la conversazione in una neo coniugazione del “sabir”, lingua franca, pidgin del Mediterraneo dall’antichità sino al primissimo ’900, che sembra evaporare anche dalle pareti plurietniche di quella “casa del fare e del sapere” per favorire la parola.
La comprensione. Marinai, pirati, pescatori, commercianti e armatori parlavano sabir nei porti per riuscire a capirsi. Da Genova a Tangeri, da Salonicco a Istanbul, da Marsala ad Algeri, da Valencia a Cagliari; come avveniva fra gli schiavi maltesi, i rinnegati in Algeria, pirati e corsari, europei che riparavano oltremare, fuggiaschi alla ricerca di rifugi nel segreto Maghreb.
Le parlate siciliane si mescolano con il sillabare di lingue lontane, Nicolò D’Alessandro va con il suo telefonino dove lo porta una parola, una frase, un disegno, una testimonianza di passato che può diventare futuro. «Padri di noi, ki star in syelo, noi voliri ki Nomi di Ti star saluti». Basta il suono di questo incipit del Padre Nostro sabir [1], suono individuale, da lettura, chiarissimo e fascinoso, per condurci dalla memoria all’avvenire. Forse la lingua che sarà salvata ci svelerà un nuovo sabir.
Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
Nota
[1] Il Padre Nostro
«Noi volir ki il Paisi di Ti star kon noi, i ki Ti lasar ki tuto il populo fazer Volo di Ti na tera, syemi syemi ki nel syelo. Dar noi sempri pani di noi di cada jorno, i skuzar per noi li kulpa di noi, syemi syemi ki noi skuzar kwesto populo ki fazer kulpa a noi. Non lasar noi tenir katibo pensyeri, ma tradir per noi di malu. aMENAmen». Era il sabir, la lingua franca, formatosi poco a poco, prendendo in prestito termini dalle lingue mediterranee.
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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie scattate in occasione del terremoto del 1968 nel Belice.
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