«Ninna nanna ninna o/ questo bimbo a chi lo dò (…)/ lo daremo all’Uomo Nero/ che lo tiene un anno intero./ Lo daremo all’Uomo Bianco/ che lo tiene finché è stanco» (ninna nanna popolare italiana); «Sono incazzato nero» (modo di dire popolare italiano); «Lavoratore in nero» (modo popolare di definire un lavoratore senza regolare contratto).
Queste filastrocche o modi di dire raccontano di stereotipi molto popolari in Italia, talmente radicati nel parlare quotidiano che non ci chiediamo neanche più cosa “davvero” vogliano dire, o perché questi significati negativi siano associati proprio al “nero” e non a un altro colore. Sono modi di dire razzisti? Tutti pensiamo che le nostre mamme non erano certo razziste quando ci cantavano la ninna nanna dell’Uomo Nero per farci addormentare… E allora di che si tratta? C’è una specie di interdetto, di zona d’ombra, quando proviamo a rispondere a questa domanda.
Pensando a come rispondere, ci siamo detti che l’Italia sta vivendo ormai da decenni una sostanziale difficoltà nell’entrare in relazione con qualsiasi forma di “diversità”. Al complesso fenomeno migratorio che sta attraversando l’Italia, vista spesso come la soglia dell’Europa e quindi della “libertà” per molte persone, si risponde con politiche istituzionali inadeguate. A queste politiche violente, fatte di respingimenti e di Centri di espulsione, fa eco un diffuso atteggiamento di chiusura, di difesa incondizionata o di aperta diffidenza nei confronti di chi cerca semplicemente di esercitare un diritto di ogni essere umano, il diritto di muoversi e spostarsi liberamente (art. 13 Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 10 Dicembre 1948).
Da qui muove l’idea di realizzare l’Archivio Immaginari (post)coloniali. In alcuni Paesi dell’Europa, tra negazionismi e riscoperte, è da tempo in atto un acceso dibattito che tenta di affrontare il tema del proprio passato coloniale, discutendo la formazione di una cultura imperialista nei diversi contesti specifici. La storia dell’Italia e la coscienza degli italiani sembrano invece aver quasi totalmente dimenticato il proprio periodo coloniale e tale “dimenticanza” ha prodotto una sorta di rimozione collettiva, rendendo oscura la relazione tra gli immaginari passati e quelli del presente, legati alla strisciante cultura razzista diffusa nel nostro Paese.
Non ci interessa qui di occuparci direttamente delle politiche istituzionali sui processi migratori, di Mare Nostrum o Frontex Plus. Ci arriveremo, ma passando da un’altra strada. Ci interessa partire da una semplice “ninna nanna”, dal bambolotto Ciccio Bello Angelo Negro, dalla pubblicità delle caramelle Tabù, da Calimero, il pulcino che nessuno voleva perché piccolo e nero. Ci interessano le bustine di zucchero, gli striscioni negli stadi, le pubblicità storiche o contemporanee di caffè, detersivi, biscotti o alcolici con immaginari intrisi di stereotipi su di “Noi” e sugli “Altri”. Ci interessano Orzowei, il romanzo di Alberto Manzi del 1955 e la serie televisiva che ne hanno ricavato negli anni ’70, ma anche i Mondo Movies italiani degli anni ’50-’60 e i Cannibal Movies degli anni ’70.
Ci interessano insomma tutti gli oggetti e le immagini con cui molti di noi sono cresciuti felicemente da bambini e adolescenti, intrisi di “esotismo” e di un certo modo di guardare a noi stessi e agli altri, tra desiderio e repulsione. Ci interessa il «non sono razzista ma…», perché è proprio lì che si trova il piacere legato al consumo di immagini razzializzate. Dunque non ci occuperemo di “razzismo” ma di “razzializzazione”, cioè di come il consumo di immagini e oggetti pervasi di stereotipi razziali possa essere un’esperienza persino piacevole e desiderabile per tutti noi, anche se non siamo affatto razzisti. Come si può spiegare questa ambiguità? Ci occuperemo di comprendere il modo in cui tutti questi immaginari, che sono la base della cultura popolare italiana, abbiano formato una specie di sceneggiatura sotterranea, con la quale ancora oggi interpretiamo o rappresentiamo l’altro, il “diverso”, e di conseguenza noi stessi.
Riteniamo che molti di questi immaginari in Italia hanno la loro origine nel periodo coloniale, quando il nostro Paese si è conquistato il suo cosiddetto “posto al sole”, in particolare nei territori di quella enorme riserva economica e immaginativa che è stata l’Africa. In Italia, così come negli altri Paesi Europei, la colonizzazione non ha avuto inizio nel periodo delle grandi dittature del XX secolo, come il Fascismo, ma è stato un processo funzionale alla formazione di uno Stato nazionale e di un “carattere nazionale” già dalla metà del XIX secolo, e ancora per tutto il periodo democratico e liberale. Le grandi potenze europee, divenute poi le protagoniste della storia continentale del Novecento, hanno fondato la loro ricchezza e la loro stessa cultura sulle relazioni coloniali. Rileggere quindi la storia del colonialismo italiano non vuol dire solo risalire alle invasioni del periodo fascista, dimostrando così che quella storia fa parte del DNA del nostro Paese e che, rimuovendola, non potremo mai trovare le vere radici della nostra cultura attuale.
Il progetto Archivio Immaginari (post)coloniali [1] vuole far emergere documenti e oggetti di allora e di oggi, che hanno a che fare con il nostro passato coloniale. Materiali contenuti in archivi pubblici e privati, ancora spesso invisibili, che possono aiutarci a comprendere le connessioni tra quel passato coloniale e il nostro presente interculturale. Il senso del prefisso “post”, che compare nel titolo del progetto non riguarda, infatti, solo il superamento di eventi storici passati, ma ha un implicito rimando al presente: si riferisce alla relazione degli italiani con i migranti che vivono nelle nostre città, che lavorano nelle nostre campagne e nelle nostre aziende, alla relazione con gli altri Paesi del Mediterraneo, nostre ex colonie o ex colonie di altri Paesi europei, alla relazione con i processi innescati dai radicali mutamenti politici in atto nel Continente africano e nei Paesi arabi.
Il progetto Immaginari (post)coloniali (IpC) prevede la creazione di un archivio condiviso del colonialismo italiano e del presente interculturale in Italia, in stretta relazione con il resto d’Europa e con i territori ex-colonie italiane. L’Archivio IpC conterrà tutti quei materiali conservati nelle case di molti Italiani, che testimoniano di quella lunga e tutt’altro che insignificante fase coloniale della quale l’Italia è stata protagonista. La necessità di far emergere i legami tra gli stereotipi di oggi verso “gli altri” e il nostro passato coloniale non può che partire da una riappropriazione “dal basso” delle memorie private e pubbliche rimaste di quel tempo. Rileggere una fotografia mandata dal fronte, una lettera, una cartolina, la dicitura di un documento ufficiale o la rappresentazione dei popoli colonizzati nelle pubblicità o nelle riviste popolari, potrà aiutare a ricostruire la nascita di tanti stereotipi che ancora oggi sono vivi nella nostra cultura e riemergono spesso in forme meno evidenti ma proprio per questo estremamente pericolose.
Tutti i materiali saranno raccolti tramite un appello pubblico alla cittadinanza, partendo da Roma e dal Lazio e proseguendo poi col resto dell’Italia. Chiederemo alle persone che hanno oggetti e storie del periodo coloniale di inviarceli via posta. Tutti i materiali che ci verranno spediti saranno catalogati, digitalizzati e poi restituiti ai legittimi proprietari, nell’ottica di non privare i donatori dei loro ricordi personali. La schedatura avverrà con i criteri di catalogazione adottati dall’Istituto Centrale per il Catalogo Italiano, seguendo le specifiche dei diversi tipi di materiali. A questa scheda verrà aggiunta una parte legata al “vissuto” dell’oggetto e del donatore. Verrà infatti chiesto al donatore di raccontare la storia della sua relazione con quel dato documento, quale ne sia la natura. In questo modo si realizzerà un archivio “affettivo” degli oggetti donati, nel quale ciascun fruitore potrà leggere una storia personale.
Accanto al recupero di documenti privati verrà svolta un’attenta ricerca negli archivi storici e nelle biblioteche, per immaginare azioni in sinergia con le diverse istituzioni per rendere visibili quei materiali spesso resi invisibili per via della loro mancata esposizione pubblica. L’archivio IpC costruirà una rete con fondazioni, associazioni, università, centri ricerca, istituti d’arte con sedi in Italia e nei territori ex colonie italiane, che si interessino delle questioni coloniali. In particolare la relazione con le diverse realtà attive nelle ex-colonie mirerà a raccogliere anche in loco la stessa tipologia di materiali tratti da archivi privati e da archivi pubblici, sempre nell’ottica di poter immaginare possibili sinergie e progettualità condivise.
L’archivio IpC non sarà semplicemente un deposito di oggetti, un contenitore di memorie, ma una piattaforma aperta e un dispositivo vivo, in stretto contatto con il tessuto sociale. Routes Agency di volta in volta proporrà diverse tipologie di azioni a artisti visivi, performer, scrittori, musicisti e compositori, danzatori, illustratori e grafici, architetti e designer, filmaker e videoartisti, perché possano, partendo dal patrimonio acquisito, renderlo vivo nel nostro presente. L’arte contemporanea, in qualsiasi forma disciplinare si manifesti, ha la possibilità di connettere la memoria del passato con le urgenze del nostro oggi creando discorsi, metafore, immagini che raggiungono il pubblico non solo razionalmente ma anche sensorialmente, corporeamente e emotivamente. Dunque l’archivio produrrà lavori artistici ad hoc che saranno sia mostrati materialmente in performance dal vivo, sia in esposizioni, ma che saranno anche sempre documentati nel sito internet dell’archivio, divenendo essi stessi parte di quel patrimonio.
L’archivio dedicherà particolare attenzione al rapporto con le scuole, organizzando attività di didattica sperimentale, workshop e corsi di aggiornamento per studenti e docenti, mettendo in connessioni i molti professori già attivi nelle scuole di ogni ordine e grado con gli artisti, allo scopo fondamentale di avvicinare le nuove generazioni alla tematica degli stereotipi e delle rappresentazioni razzializzate, per lavorare sulla costruzione di un senso della cittadinanza nuovo, attento e pienamente inserito in un contesto interculturale. A questo scopo si creeranno interscambi tra scuole italiane e scuole nei territori delle ex colonie italiane attraverso workshop e corsi condivisi, sia per studenti che per docenti, in maniera da trovare punti di incontro e di confronto non solo sul passato ma anche sulle visioni e le necessità del presente.
Dialoghi Mediterranei, n.13, maggio 2015
Note
1 Immaginari (post)coloniali è un progetto a cura di Viviana Gravano e Giulia Grechi (Routes Agency). Chiunque fosse interessato a contribuire a questo progetto può scrivere una email a: info@routesagency.com. Tutte le immagini sono elaborazioni grafiche della Graphic Designer Serena Scuccimarra su immagini d’archivio gentilmente concesse dal MOXA – Returming and Sharing Memories, Modena. Partner del progetto: AMM – Archivio Memorie Migranti, Roma; Centro Studi Postcoloniali e di Genere – Università degli studi di Napoli L’Orientale; IRSIFAR – Istituto Romano per la Storia d’Italia dal Fascismo alla Resistenza; Memorie Coloniali, Returning and Sharing Memories, Modena
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Giulia Grechi, dottore di ricerca in “Teoria e ricerca sociale” presso l’Università La Sapienza di Roma, i suoi interessi scientifici includono l’antropologia culturale, gli studi postcoloniali, la museologia, l’arte contemporanea e le rappresentazioni della corporeità. Insegna Fotografia-comunicazione sociale all’Accademia di Belle Arti di Brera (Milano); Antropologia Culturale presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli; Antropologia Visuale e Studi Postcoloniali e Sociologia dei processi culturali presso l’Istituto Europeo di Design di Roma. È redattore della rivista on line roots§routes-research on visual culture. Ha pubblicato il volume monografico La rappresentazione incorporata. Una etnografia del corpo tra stereotipi coloniali e arte contemporanea (2011) e ha curato (con Iain Chambers e Mark Nash) il volume The Ruined Archive (2014).
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