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Nino De Vita e il senso dell’arcaico

modica-002di Giuseppe Modica

“Perché i poeti nel tempo della povertà?”

Oggi viviamo in un’età che Nietzsche – centocinquant’anni fa – avrebbe definito come epoca del “nichilismo”, un tempo cioè in cui i valori tradizionali – sostenuti ed espressi dalle dottrine metafisiche, religiose e scientifiche del mondo occidentale (dal platonismo al cristianesimo fino al positivismo in tutte le sue forme) – sono crollati e a essi non sono ancora subentrati nuovi valori trainanti, capaci di dare un senso e una direzione alla dialettica del divenire storico. Insomma, «manca lo scopo; manca la risposta al ‘perché?’». Quel che resta è un vuoto assiologico disarmante, in cui è il “nulla” eretto a sistema che spocchiosamente trionfa.

Non sorprenda, dunque, che la poesia oggi sia considerata come un genere letterario mai apparso così inadeguato e fuori luogo. Già Heidegger – agli inizi degli anni ‘50 – ne faceva oggetto di amara stigmatizzazione: «il nostro abitare odierno è ossessionato dal lavoro, reso instabile dalla ricerca del vantaggio e del successo, succube dell’industria del tempo libero e dei divertimenti», sicché la poesia oggi viene vista «come un inutile sentimentalismo e come un perdersi nell’irreale». E del resto, non è forse vero che i poeti sono considerati dei semplici creatori di immagini, dei fingitori e, in ultima analisi, dei meri sognatori? Sì, è vero.

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Giuseppe Modica, Finestra sul Mediterraneo, 1989, olio su tavola

Ma allora: «perché i poeti nel tempo della povertà?» La domanda provocatoria che il poeta tedesco Hoelderlin si poneva già alla fine del Settecento è stata raccolta da Heidegger allorché, definendo il tempo della povertà come «il tempo della notte del mondo», un’età cioè a cui manca la luce e talmente buia da non riuscire a vedere neppure la luce che le manca, egli indica nella poesia la potenza in grado di accendere la luce affinché ci si possa accorgere anche solo della privazione in cui siamo sprofondati. E se essa può riuscire a farlo è perché l’esigenza della poesia è direttamente proporzionale al tasso di povertà spirituale che contrassegna il nostro tempo. E se è vero che quanto più si è immersi nell’indigenza tanto più il canto dei poeti può legittimare il proprio diritto di cittadinanza, ciò è possibile perché i poeti sono i soli capaci di cogliere «le tracce degli dèi fuggiti» e di cantarle. Il compito che il nichilismo – suo malgrado – lascia in eredità all’uomo contemporaneo è di imparare ad ascoltare quei canti «se non vogliamo vivere superficialmente e inconsapevolmente», ovvero oppressi dalla dittatura subdola del “Sì” anonimo e impersonale, portatore della chiacchiera insulsa e dell’equivoco e, dunque, d’ogni forma inarrestabile di deresponsabilizzazione.

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Giuseppe Modica, Salina grande, 1990, olio su tavola

La poetica di Nino De Vita

Cutusìo è una contrada del Marsalese che si affaccia sulla costa dello Stagnone, una striscia di terra lacustre lambita da mulini a vento che fanno la guardia alle montagnole di sale raccolte tutt’intorno in bella disarmonia. La luce lì è magica. Ne ricevono l’incanto i cristalli della salina, le vele e le cupole rosse dei mulini, gli aironi e i cormorani che si pavoneggiano a fior d’acqua tra la calendula e l’anemone a dispetto del succedersi dei giorni e delle stagioni. All’imbrunire il vento diventa una bava dolce e carezzevole, quasi un complice delle pale come vele in cerca di quiete e dei pochi viandanti rimasti dinanzi all’imbarcadero per Mozia a sorseggiare lentamente una birra siciliana.

Vi sono siti spaziali e contesti temporali. E poi vi sono i luoghi dell’anima. Cutusìo è un luogo dell’anima, un microcosmo, non solo geografico e storico, ma anzitutto linguistico, cuore di un’etnia che si riconosce in una tradizione veicolata da parole scarne, essenziali, profonde come sanno essere le radici dell’appartenenza a un universo dal tempo dilatato e indefinito. È lì che si continua a sognare nel dialetto degli avi, in quella lingua del “cuore” che nessuna “ragione” è in grado di mettere a tacere. Anzi, mai come in questo caso l’esercizio della ragione si palesa come una convenzione comunicativa, fondata, qual è, sul principio di non contraddizione per cui ogni cosa è se stessa e non altro.

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Giuseppe Modica, Mulino a vento, 1993, olio su tela

Il cuore – di contro – non conosce altro esercizio che quello di uscire dalla prigionia delle cose come tali e farne metafora, un dire che rende le cose altre da sé facendole volare oltre se stesse, oltre il tempo e lo spazio. È la dimensione dell’acronico e dell’atopico, preambolo dell’alogico, che è il regno della poesia. Ciò non equivale a vanificare il senso delle cose ma, tutt’al contrario, a scarnificarle fino a restituir loro quella dignità nascosta che sprigionano a chi le sa osservare senza servirsene, senza ridurle a puro mezzo o a mero oggetto da possedere, a chi, anzi, riesce a instaurare con esse un dialogo muto e assoluto.

Non sorprenda allora che nella terra di Cutusìo aleggino dimensioni primordiali, aurorali, originarie del sentire umano quali lo “stupore” e il “pudore”. Lo stupore è infatti lo stato d’animo (Stimmung) di chi, al cospetto di cose che gli appaiono impenetrabili, resta “muto” (mutus) e, perciò, può farne solo un “racconto” (mythos) per immagini. E una narrazione che si avvale delle immagini costituisce già il cuore stesso del poiein, che è propriamente il produrre creativo del poeta. Di qui il nesso profondo con il pudore, che non è solo la “vergogna” provata dinanzi a ciò che ci sfugge e che, quindi, ci denuda, ma sempre anche la “discrezione” con cui ci rapportiamo alle cose attraverso un sentimento che mira a decifrarle senza violentarle e, dunque, rispettandone la sacralità.

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Giuseppe Modica, Alberi, 2020, olio su tela

Non a caso, stupore e pudore sono le due dimensioni individuate da Giambattista Vico per indicare la cifra antropologica e metafisica dell’umanità ancora infante, rapita dai misteriosi e meravigliosi eventi del creato su cui gli uomini primitivi – i «fanciulli del genere umano» – proiettano il loro spavento e il loro conseguente desiderio di essere protetti. Perciò «il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione». Da questo punto di vista, è poeta chi non soffoca il bambino che lo abita ma, anzi, fa di esso il cuore pulsante della propria visione del mondo.

In questo plesso può collocarsi, in simbiosi quasi fisiologica, la poetica di Nino De Vita, il poeta di Cutusìo. La sua ultima silloge Muddichi (edito da Il Bulino Roma 2021, con opere dell’artista Giuseppe Modica), è – in proposito – emblematica poiché può essere letta come la cifra stilistica dell’intera sua produzione. Le dieci poesie e i tre racconti (cùntura) che la compongono formano due sezioni legate da un tessuto narrativo omogeneo e armonico. Si tratta infatti di una prosa poetica e di una poesia prosastica (non nel senso di “dimessa”, ma di fluida e scorrevole, appunto) in cui l’andamento ritmico è scandito in entrambi i casi da versi che prendono la forma dell’ansimare e del sussulto, quando, dopo un largo volo, non finiscono per planare sull’accordo dell’incipit. E tuttavia si è sempre in presenza di una fine apparente poiché, mentre chiude, essa riapre e si schiude verso una sospensione che scompagina ogni canone atteso o previsto. E perciò i modi e gli intenti dell’apologo stanno stretti alla narrazione del poeta, semplicemente perché qui si tratta pur sempre di esiti che non si chiudono e, pertanto, che non si schiudono verso la pretesa dell’ammaestramento morale. Né si potrebbe essere quasi tentati di pensare, in proposito, a un artifizio retorico, ché, piuttosto, è la voce del “cuore” che – a dispetto di ogni sentimentalismo di maniera – si affaccia verso gli stupori dell’infinità, già a partire dal titolo.

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Giuseppe Modica, Limoni e paesaggio riflessi, 1996, olio su tela

Versi come muddichi, infatti, stanno a indicare che la mensa alla quale si è invitati non consta di tutto il pane, ma soltanto delle sue briciole, quelle cui non si suole dare alcuna importanza. Si tratta perciò di schizzi, di cenni nei quali la ricerca minuziosa della parola sa essere, sì, compiacimento, ma mai sterile e fine a se stesso, bensì fertile e riproduttivo di un edonismo che può dirsi raffinato proprio in quanto non indugia mai sull’esteriorità spocchiosa dei narcisi. Per di più quegli schizzi non osano spingersi oltre se stessi: essi restano nuclei semantici e pittorici autosufficienti, non per incapacità di esplicitazione ma, al contrario, per consapevolezza che le cose – la natura e i suoi fantasmi – “significano” già da sole e che l’unico potere desiderante del cantore è di farle “parlare” con la loro voce[1]. Il discorso poetico si fa qui “metafora” in senso proprio, poiché mentre narra di cose parla dell’uomo, della sua fragilità e della sua potenza, della sua inestinguibile curiosità che non pretende altre risposte se non quelle già implicite nella domanda. Si potrebbe perciò dire che, in forza di questa lente metaforica, il microcosmo qui si fa macrocosmo. Ma sarebbe forse uno stilema ermeneutico riduttivo. E infatti non è tanto l’estensione della ricaduta espressiva a essere in gioco, quanto piuttosto la portata “meta-fisica” di quella ricaduta che, come tale, non è né “micro” né “macro” semplicemente perché è “oltre” (metà) il cosmo.

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Giuseppe Modica, Salina di notte, 2005, olio su tavola

E, coerentemente, a guidare quei versi è uno sguardo che non può dirsi “buono” se non in quanto “ingenuo”, nel senso etimologico di “ciò che penetra nella genesi” delle cose e ne svela l’anima incoata. Sicché far parlare quelle cose significa, a sua volta, scorgere in esse il carattere del mito, di un racconto, cioè, non soltanto primitivo, ma anzitutto primigenio e originario e, come tale, “arcaico”. “Arcaico”, infatti, è propriamente ciò che concerne il “principio” (archè), la radice, il fondamento, l’inizio. Si tratta perciò d’una narrazione che attinge la sua forza da dimensioni depositarie di una verità mai del tutto esplicitabile, e non perché diffratta in mille rivoli, ma in quanto “inesauribile” e dunque catturabile solo nella forma del doverla cercare ancora. È qui che la Weltanshauung del poeta si fa filo-sofia, amore di un sapere lontano dalle accumulazioni quantitative, perciò lieve, frugale e potente, “semplice” ma in senso forte, come ciò che non si può piegare e scomporre ulteriormente, e dunque radicale, proprio come le molliche che lo sostanziano.

E forse è proprio la presenza del mito a rendere felice il consorzio che qui viene instaurato con le opere di Giuseppe Modica, artista anch’egli siciliano, la cui pittura densamente evocativa dell’archeologia mediterranea, approda a una sorta di metafisica della luce, nella quale lo “specchio” assume il ruolo di filtro ermeneutico, autentico “speculum” d’una realtà sempre in procinto d’essere trascesa in una forma dagli esiti a loro volta semplici e inesauribili, essenziali, e perciò sempre inquieti e severi, audaci per costituzione.

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Giuseppe Modica, Strutture emerse, 1985, olio su tela

Oltre l’utopia

In epoca nichilistica, rispetto a un futuro che ci appare sempre più una minaccia e sempre meno una promessa e, quindi, che non è più tale in quanto priva il presente di ogni aspettativa, condizionandone insieme la capacità di rammemorazione che, sola, può restituire al passato il suo inesauribile patrimonio, il tempo, spalmato e appiattito in un eterno presente, diventa contraffatto e si inautenticizza. E poiché si tratta non del tempo matematico o esterno, ma del tempo interno, della durata, è l’anima che piange e soffre questo tempo mortificato. Perciò la poesia può rivestire un ruolo sorprendente e fondamentale proprio attraverso l’alogicità del creatore d’immagini, di chi cioè sa sublimare il cronotopo nella sfera dell’originario. E, da questo punto di vista, essa non è mai tanto necessaria come nel tempo in cui occorrerebbe un «supplemento di anima» per non essere risucchiati dal totem – tutto terreno – della tecnologia e della massificazione. Nella misura in cui mette le ali, la poesia si attesta – e ci sarebbe voluto un filosofo come Heidegger ­a proclamarlo – come «l’espressione più alta della creatività umana». È a essa che bisogna guardare affinché questa scommessa del tempo, sul tempo, non resti una pura utopia.

Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] Si tratta di una parola difficile poiché è scritta com’è parlata e, pertanto, bisognosa di sedimentazioni lente e profonde, nelle quali può tuttavia essere di gran sostegno l’ascoltare le declamazioni di Nino De Vita. I poeti non sono mai stati dicitori convincenti dei propri versi. Chi ha ascoltato il nostro poeta deve però ricredersi. In esse c’è quel tanto di enfatico che conferisce al racconto l’accento e il fraseggio d’un linguaggio tutto nostro, a nostra misura, proprio com’è previsto dal “recitar cantando” dei tenori di antica scuola.
Riferimenti bibliografici
H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione, Laterza Bari Roma 1998
M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968
M. Heidegger, Saggi e discorsi, Ugo Mursia Milano 2014
M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori Milano 2017
F. Nietzsche, La volontà di potenza, Bompiani Milano 2001
G.B. Vico, Principi di scienza nuova, Olschki Firenze 1994

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Giuseppe Modica è stato professore ordinario di Filosofia morale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo, dove ha anche fondato e presieduto il Corso di Laurea in Filosofia e Scienze etiche. Si è occupato, fra gli altri, di autori quali Socrate, Platone, Vico, Schelling, Kierkegaard, Stirner, Heidegger, Levinas, Pareyson, cui ha consacrato numerosi saggi e volumi.

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