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di Jacopo Lentini
Tempo dopo aver percorso oltre ventimila chilometri dal Marocco al Congo (Brazzaville) tra il 2017 e il 2018, ho rispolverato il mio libro di geografia del liceo per provare a ricordare cosa potevo aver studiato dell’Africa prima di attraversarne un pezzo. A parte una breve vacanza in Tunisia di qualche anno prima, luoghi comuni e un paio di amici di origini ghanesi con qualche aneddoto da offrire, le mie conoscenze erano poche o nulle. La preparazione stessa del viaggio verteva più sulla burocrazia da affrontare per passare da un Paese all’altro che sulla comprensione della situazione socio-politica di ciascuno.
Tra gli autori del mio Percorsi di geografia del 2002 ci sono nomi del calibro di Lucia Annunziata, Enrico Deaglio e Gianni Sofri. A loro non saprei dire come sarebbe stato meglio spiegare, quasi vent’anni fa, i primi concetti dell’Africa a un sedicenne. Ma che tutto il continente è al collasso economico tranne il Sudafrica, che nelle metropoli ci sono le baraccopoli, che ci sono “Fame e carestie” e “AIDS”, come titolano due paragrafi del libro, sono quelli che risaltarono. Da allora è cambiato molto, ma poco cambiò del mio bagaglio culturale sull’Africa fino alla partenza.
Ne ebbi la prova quando un giorno mi trovai in una zona remota dell’est della Sierra Leone, nel villaggio di Zimmi, dove cercavo un posto per passare la notte. Nell’unico “motel” del luogo alloggiava un gruppo di cercatori di diamanti che vi faceva base per andare a lavorare a mezz’ora di macchina al fiume Mano, che fa da confine naturale con la Liberia.
Avevo ancora in mente Diamanti di sangue, film del 2006 ambientato proprio in Sierra Leone, con Leonardo Di Caprio nelle vesti di un mercenario alle prese con un traffico illegale delle pietre preziose durante la guerra civile del Paese.
Forse lo aveva in mente anche chi, con più esperienza di me di Africa sub-sahariana, mi suggerì di stare alla larga dai cercatori, quando gli raccontai che questi mi proposero, dopo una chiacchierata amichevole, di andare a vedere la loro attività al fiume. Ma l’atmosfera evocata dal film fu rimpiazzata presto da più solide realtà.
«La foresta ha occhi e orecchie, soprattutto per gli stranieri», fu uno dei moniti che ricevetti, insieme alla più esplicita raccomandazione di non avvicinarmi al mondo dei diamanti, «perché non sai mai cosa c’è dietro». Raccomandazione ragionevole ma poco circostanziata.
Nel Paese ormai pacifico e in una povera zona rurale, l’attività estrattiva artigianale è facilmente paragonabile al lavoro nei campi. Le poche gemme che si trovano coprono a malapena le spese e difficilmente si fa fortuna. Così mi ritrovai a filtrare il pietrisco del fiume Mano, per gioco, con l’iconico setaccio da cercatore. Senza l’ombra di traffici loschi, specie se non si hanno velleità di improvvisarsi compratori di diamanti.
È molto più a Nord, invece, che trovai un luogo dall’apparente calma, le cui vicissitudini ho compreso bene solo in seguito. Il Sahara Occidentale è il primo “posto strano” che ho attraversato. Bandiere del Marocco appese ovunque per le strade delle principali città e palazzi delle istituzioni marocchine ben in vista.
Non capivo perché quest’area fosse ancora indicata sulle mappe come un territorio a parte. Certamente sapevo che era conteso con il popolo Saharawi che ne reclama l’indipendenza, ma non c’era traccia che lo ricordasse per i circa mille chilometri di strada che lo percorrono. Non mi spiegavo anche il senso di decine di controlli ripetuti di polizia e gendarmeria a cento metri l’uno dall’altro. Conversando con un gendarme mi lasciai sfuggire le parole «Sahara Occidentale», e in tutta risposta: «Si dice Sahara marocchino».
Solo alcuni mesi fa, durante un lungo soggiorno a Tunisi, ho apprezzato meglio la complessità della questione, incontrando per caso e conversando con un noto attivista Saharawi qui rifugiatosi, che ha trascorso sei anni nelle prigioni marocchine. Chi meglio di lui può spiegare che quelle bandiere sparse ovunque non erano un semplice eccesso di patriottismo?
Ancora a Tunisi, esplorando la “Piccola Sicilia”, l’antico quartiere dove una volta gli emigrati siculi erano di casa, ho capito che da questa parte del Mediterraneo c’è una migliore percezione dell’Italia che viceversa.
È stato scritto di tutto sulle migrazioni italiane in Nordafrica, ma nella memoria collettiva della nazione ne manca il ricordo, mentre i tunisini più anziani tengono ancora in mente i nomi, bottega per bottega, dei siciliani che furono loro vicini di casa fino all’indipendenza della Tunisia.
Non avrei potuto trovare tutte queste banali informazioni con una semplice ricerca in rete? Sicuramente. Ma non è con l’approccio del giornalista che ci si prepara a mesi di avventura e nomadismo. Basta un po’ di introspezione per capire che il disincanto del viaggio è un buon punto di partenza per cominciare a conoscere.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
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