il centro in periferia
di Alessandro Triulzi
Venerdì 17 settembre ore 14,30. Ha inizio la lunga sezione DIMMI di Storie Migranti al Premio Pieve Saverio Tutino 2021. Il grande tendone bianco che lo ha ospitato durante i due anni della pandemia nella centrale Piazza Pellegrini di Pieve Santo Stefano, comincia ad affollarsi. Fuori, disciplinatamente, viene registrata la presenza di autori, invitati e pubblico partecipante. Firma e green pass. – L’ho già mostrato. Non importa. – Non si entra senza pass e mascherina.
È l’Italia di fine estate. Il tempo è bello, malgrado le minacce del web. Gli animi sospesi, le aspettative sovrastano le ansie da Covid e le incertezze del quotidiano. Siamo qui per ascoltare, per festeggiare, per ripartire: «Perché il Premio Pieve è un rito. Chi viene a consumarlo con noi lo sa bene». «Ripartiamo da qui»: con questo auspicio si conclude la 37° edizione del Premio Saverio Tutino a dieci anni dalla scomparsa del suo fondatore (newsletter 438 del 24 settembre 2021).
La giornata destinata alle scritture multimediali migranti è dedicata quasi interamente a loro, i ‘ragazzi di Dimmi’, i finalisti arrivati da poco in Italia e quelli ancora stranieri, malgrado siano nati in questo Paese, persone che scrivono, registrano e raccontano le molte storture e i diversi colori dell’Italia di oggi. E ne colmano i vuoti ricollegando, loro insieme a noi, le tante operose reti di ascolto e di condivisione sparse sul territorio. Il tutto è cominciato per iniziativa della Regione Toscana, onore al merito, una decina di anni fa: da lì sono nati progressivamente un concorso nazionale (DiMMi-Diari multimediali migranti), una rete di ascolto che include istituzioni locali, associazioni del terzo settore, organizzazioni civiche e culturali e gruppi di lettura che filtrano le storie inviate e sostengono le scritture migranti nei loro territori.
Sono apparsi così negli ultimi anni una serie di volumi editi da Terre di Mezzo che rappresentano la selezione dei racconti finalisti (Parole oltre le frontiere 2018, Se il mare finisce, 2019, Il confine tra noi 2020 e, appena uscito, Basta un vento lieve 2021), ma si è soprattutto articolata una comunità DiMMi attiva sul territorio, ricettiva e ospitale verso i nuovi arrivi, una voce pubblica e collettiva capace di esprimere chi in Italia vive da anni in un soffocante anonimato (chiamati dai somali, vecchie lire) e chi in Italia è arrivato da poco e vuole sparigliare le carte (denominati Titanic). La scelta di questi nomi già riflette i difficili posizionamenti e le sfide che si esprimono all’interno delle comunità straniere (quella somala è una delle più consolidate presenze sul territorio nazionale fin dagli anni Cinquanta).
Di qui l’aspettativa e l’aria di festa che si respira sotto il tendone bianco il 17 settembre 2021, venerdì, in attesa del rito collettivo che ogni anno va in scena a Pieve Santo Stefano, l’ascolto attento delle nuove voci di italiani e stranieri, gente comune che ci parla della propria soggettività in movimento, quella nostra e quella loro. – Noi come loro? – L’anno prossimo a Gerusalemme? Sì, l’anno prossimo a Gerusalemme: per ora ascoltiamo i loro racconti, voci che stentiamo a sentire straniere se non per i loro accenti dialettali, che provengono dalle stesse esperienze di disagio dei nostri figli e nipoti, ma raccontano in più le storie di sradicamento di chi lascia la propria casa per un futuro migliore per poi trovarsi in uno scenario così plumbeo e edulcorato esaltato dai media e dalla comunicazione ufficiale in tv – ‘l’Italia che partecipa, l’Italia solidale, l’Italia che si è ‘ripresa’ i giochi olimpici e quelli paraplegici’ – ma non concede ancora la cittadinanza, il diritto a un’accoglienza dignitosa, il riconoscimento di un’umanità condivisa.
La presentazione si svolge in un clima raccolto scandito da brevi applausi man mano che gli autori e autrici finalisti salgono sul palcoscenico e vengono letti ad alta voce brani tratti dai loro testi. Si procede per abbinamenti: i finalisti (11 autori, 6 donne, 5 uomini, 10 Paesi differenti) sono tutti presenti: ha inizio la consueta maratona che si chiuderà quest’anno con l’accoglienza dei nuovi vincitori DIMMI, un atto di ospitalità che intende testimoniare il ruolo dei diaristi migranti come soggetti protagonisti di una narrazione circolare che lega autori, lettori, comunità di accoglienza e gruppi di ascolto in un progetto di azione comune.
Gli autori/trici finalisti salgono sul palco a due a due abbinati da assonanze biografiche o narrative. Così Mabel, laureata in Scienze della comunicazione e Presidente della Commissione stranieri del Comune di Padova, ricorda l’infanzia nelle Filippine dove viveva con la madre da piccola, una vita ‘ingabbiata’ da rigorosi codici di comportamento familiare e religioso prima di arrivare a Venezia dove la gabbia mentale si rompe e «qui ho trovato la mia pace, la libertà, la serenità che nessuno mi può togliere». Ma quando un brano della sua storia viene letto a alta voce, lei confessa di sentirsi ‘destabilizzata’ dalla lettura e si copre il volto con le mani.
Il giovane egiziano Hosni, aiuto barbiere fin da quando aveva 13 anni nel suo Paese e ora parrucchiere affermato a Roma che siede accanto a lei, non si sente intimorito dalla lettura di sé ragazzo in fuga che ha lasciato casa senza dirlo ai genitori («Perché te ne sei andato, gli chiede il padre nella prima telefonata dopo l’arrivo in Italia». «Volevo solo realizzare me stesso», risponde) e con accento romanesco racconta spigliato della sua formazione alla Città dei ragazzi, e della determinazione fin da piccolo a lisciare i suoi capelli ricci originari con ennesimi trattamenti chimici, fino quasi a perderli del tutto.
Segue Vichy, venuta a dieci anni in Italia dal Congo, che rivendica con forza il suo essere ‘veneta doc’ ma rifiuta con veemenza il razzismo sessista che circonda una persona come lei che «viene considerata una prostituta perché nera e perché donna» e viene chiamata cioccolatino per strada: «Spesso sono arrivata alle mani dopo insulti razzisti, devo imparare a rispondere con ironia e menefreghismo». Alla richiesta di uno studente che le ha chiesto «perché non te ne torni nel tuo Paese?», Vichy dice di aver risposto sorridendo: «Andrò via quando voi toglierete le mani dall’Africa». Così, tra una battuta e il ricordo di un trauma, le storie si dispiegano leggere davanti al pubblico in ascolto sotto il tendone bianco che protegge dal sole ma non dalle questioni piccole e grandi sottoposte al vaglio della coscienza collettiva.
L’improvviso collegamento on line con Franck, altro autore finalista, detenuto presso la casa circondariale di Padova, interrompe la sessione. Frank, originario del Camerun, racconta di aver lasciato il Paese a causa del suo orientamento sessuale e di essere venuto a studiare in Italia ma si è perso nel tortuoso ‘vivere in strada’ di un giovane straniero ‘senza tetto né legge’ che lo ha portato in carcere a Padova dove compie oggi un percorso di recupero e studia Mediazione linguistica e culturale all’Università. La sua voce composta coinvolge subito il pubblico di Pieve a cui Franck narra in diretta le intricate vicende per ‘dare un senso alla sua vita’ prima in Camerun e poi in Italia. Ma dopo un po’ la calma e il flusso narrativo vengono interrotti da un secco: – Ora devo andare per la conta, seguito da un battibecco con le guardie che rifiutano di fargli proseguire il collegamento. La faccia di Frank scompare così dal grande schermo.
Nel silenzio imbarazzato che segue prende la parola Clarisa, kosovara, che racconta il doppio espatrio della sua famiglia prima in Germania dove vive all’inizio come ‘straniera felice’ ma poi arrivano le minacce di rimpatrio e la famiglia espatria nuovamente in Italia, prima a Verona e poi a Padova, dove presto realizza che essere visti e trattati come stranieri vuol dire mettersi continuamente in gioco e dover duellare ogni giorno. E allora studiare un’altra lingua straniera è come giocare al pallone, ma con più forza e rabbia, finché la sfida di appartenenza non viene accolta nella realtà quotidiana delle piccole cose: «Il mio prof è stato molto contento la prima volta che sono riuscita a dire – Posso andare al bagno tutto d’un fiato» dice sorridendo.
Seguono i racconti di due migrazioni circolari di autori di origine colombiana: David, appena uscito da una scuola per videomaker, e Alba Marina, che si autodefinisce ‘donna Maya’, entrambi prodotti di mescolanze e migrazioni precedenti, entrambi segnati dal presente anti-migratorio in Europa. Così, arrivato in Spagna con la madre a undici anni, la comunanza di lingua e cultura ispanica non esime David dall’essere considerato ‘straniero’ non perché non abbia documenti ma perché questi non vengono riconosciuti dalle autorità spagnole. Il secondo passaggio migratorio, dalla Spagna all’Italia, gli permetterà di acquisire la cittadinanza italiana pur nella consapevolezza che «non sarò mai italiano né m’identifico con la Colombia, sono una persona: al bambino che ero di ieri direi: non cambiare!». Poi guarda i capelli rasi di Hosni che lo ascolta in platea e sorride accennando alla minaccia per i suoi dreadlock lunghi e setosi!
L’esperienza di Alba Marina è diversa ma non meno spiazzante: frutto di più mescolanze e spostamenti familiari («sono il frutto di tre generazioni di donne emigrate»), Alba Marina proviene da una doppia estrazione, colombiana e spagnola, e rievoca con commozione il tempo dei suoi nonni, quando la Colombia era uno spazio di libertà e la Spagna il luogo dove suo nonno oppositore veniva imprigionato in un carcere franchista: «la storia si ribalta, i regimi cambiano, ho due passaporti, due oggetti di plastica, uno puzza di cocaina» mentre ieri la situazione era ben diversa. Rileggere la propria storia, e tornare indietro nel tempo narrativo, permette a Alba Marina di capire che «la migrazione è spesso circolare e intergenerazionale… è stata la migrazione dei miei nonni in Spagna a permettere la mia migrazione, non diamo la storia per scontata».
‘Essere contro’ è il denominatore comune dei due finalisti Mohamed e Veronica che si concentrano sul racconto delle reciproche esperienze di militanza contro le ingiustizie del potere, il regime (makhzen) della monarchia post-indipendenza in Marocco, e le pratiche ottuse della burocrazia anti-migratoria in Italia. La testimonianza di Mohammed, un anziano oppositore marocchino che parla veloce ammantato da una jellabia bianca e un fez rosso in testa, spiega all’uditorio che cosa è vivere nell’ingiustizia fin da bambino in un Paese dove «ogni opposizione veniva tagliata con l’accetta» e nella doppia migrazione prima in Francia e poi in Italia. La battaglia per la dignità, ci ricorda Mohamed, è una battaglia difficile oggi in tutta Europa, la si può fare solo insieme a altri movimenti e opposizioni presenti sul territorio. Conferma annuendo Veronica, cilena, che rievoca la lunga opposizione della sua famiglia al regime repressivo di Pinochet nel Cile degli anni settanta: i tre mesi passati insieme a altri rifugiati nella allora ospitale Ambasciata d’Italia a Santiago, e l’accompagnamento in Italia nell’ambito di corridoi umanitari messi in piedi dal governo italiano ma non seguiti, allora come oggi, da buone pratiche di accoglienza e inclusione. Trovare casa, lavoro e mettere su famiglia sia pure come stranieri onorari (era il tempo degli Inti Illimani e del canto ritmato El pueblo unido jamas sera vencido) non era meno difficile di oggi, «ma allora (siamo nei primi anni settanta) era differente, eravamo pochi, e trovavi sempre qualcuno con il cuore grande». Rientrata con il marito in Cile dopo le leggi per il rientro degli ex-oppositori, oggi Veronica fa la spola tra Cile e Italia come ponte tra la generazione vecchia e nuova della migrazione latinoamericana in Europa.
Seguono infine due autori africani ‘bianchi’ abbinati per la leggerezza della loro scrittura liberatoria: Romaine, nata in Costa d’Avorio da padre mediorientale, e Mahamadou, del Mali, ‘viaggiatore per caso’, che scrive un libro sulle rotte dei migranti per capire se stesso e il destino dell’Africa saheliana in fuga da se stessa. La prima a parlare è Romaine, arrivata in Italia a 18 anni, racconta di aver scelto di scrivere un diario all’interno di un percorso terapeutico «per liberarsi di sé, la mia libertà di essere donna, avevo bisogno di mescolare il latte con il caffè… quando scrivo, è come stare in viaggio, mi sento più leggera».
Gli fa eco Mahamadou, che dichiara di provenire da una famiglia di insegnanti con un passato di nomadismo «noi siamo pastori fulani, sono amante del viaggio e degli spostamenti». Invitato dal suo professore a studiare gli spostamenti migratori, Mahamadou decide di seguire i percorsi scelti dai suoi coetanei africani che intervista on the road per far raccontare ai protagonisti le difficoltà e i pericoli delle rotte attraversate. Arrivato in Italia, Mahamadou ripercorre le stesse rotte seguite dai migranti subsahariani e i costanti pericoli in cui lui stesso incorre nel suo incontro con confini, barriere linguistiche e culturali, processi di esproprio e di sfruttamento che racconta come farebbe, dice, «un reporter sul campo: Siamo noi il futuro dell’Africa, non dobbiamo andare a morire nel deserto».
Con questa esortazione ha fine la prima parte del rito annuale di presentazione degli autori e autrici finalisti di DiMMi cui farà seguito una seconda parte, non meno importante, di riconoscimento e di accoglienza reciproca di autori vecchi e nuovi con i membri presenti dei gruppi di lettura attivi nei territori. È anche questo il momento, voluto dagli organizzatori e dal comitato scientifico, in cui ‘i ragazzi di dimmi’ raccontano loro stessi, il loro agire collettivo, la volontà di incidere sulla società che li ha accolti e sulla velocità e direzione del cambiamento. E lo fanno senza mezzi termini. Comincia subito Fernanda, argentina, «figlia di una terra colonizzata, mescolata alla forza», finalista 2018: «tanti di noi chiamiamo DiMMi la nostra casa», il nostro gruppo è nato durante la pandemia per rompere la solitudine dell’isolamento e fare rete rispetto a quelli che sono stati più colpiti perché senza casa, senza lavoro, e senza alcuna sponda di protezione.
Parla poi Loredana, rumena, anche lei finalista 2018, volontaria storica al Premio Pieve, che rivendica il volontariato come forma di militanza di chi vuole agire sul cambiamento: «Le nostre storie sono dei semi, incontrano altre storie, altri semi, si fecondano a vicenda, bonificano la terra intorno a noi… Qui festeggiamo il nostro essere stranieri, DiMMi mi ha fatto sentire a casa, per la prima volta, dopo venti anni in Italia». E rivolta ai nuovi autori aggiunge: «Faccio la volontaria per questo, per far sentire voi come mi hanno fatta sentire a casa la prima volta che sono venuta qui».
La parola passa poi a Clementine, instancabile iniziatrice del gruppo WhatsApp e della rete iragazzididimmi@gmail.com, già dottoranda alla Normale di Pisa, ora insegnante di sostegno a scuola, che torna sul bisogno di molti diaristi migranti di abbracciarsi e riunirsi per far fronte all’isolamento della pandemia. Ripercorre così la storia immediata della sua famiglia all’accendersi dell’emergenza: «Sono sposata a un pisano, abbiamo una bambina piccola, mio marito lavora tutto il giorno in ospedale, ci siamo chiesti cosa fare se uno di noi si ammalava». Come finalisti DiMMi ci siamo chiesti cosa noi potevamo fare per chi stava peggio di noi. «Vedevamo tanti faticare intorno a noi, la loro energia, la loro forza e determinazione, la capacità di resistenza, per questo io li chiamo ‘ragazzi’ a prescindere dalle loro età individuali». Ora il gruppo è cresciuto, esclama Clementine, ha formato una rete di collegamento, si è costituito in comunità di aiuto, ha preso la parola pubblicamente per denunciare i decreti sicurezza, le norme carenti per la cittadinanza, il perdurante razzismo, il falso modello di accoglienza. Poi si ferma un attimo, e ricorda la brutale domanda fattale nel corso di un incontro: «Ma ti sei guardata allo specchio?». E la sua pronta risposta: – «Si, mi sono vista, ho visto Clementine, non una donna nera».
Così si conclude questa breve cronaca della sezione “DiMMi-Diari multimediali migranti” svolta all’interno del Premio Pieve Saverio Tutino 2021, il primo dell’era che si spera post-Covid. Come ha ricordato Pietro Clemente nel suo ricordo di Tutino a dieci anni dalla sua scomparsa, la soggettività autobiografica narrante che si esprime a Pieve raccoglie non solo l’individualità di ognuno ma è a suo modo anche il ‘tratto comune’ di una collettività che ogni anno si relaziona, si ascolta, si racconta. È questa comunità ideale che Saverio Tutino ha in mente quando dà vita trentasette anni fa alla ‘banca’ dei diari di Pieve S. Stefano. Ma, aggiunge Clemente, quando arriva un ciclone occorre che le persone per strada si aggrappino le une alle altre, come fanno i cicloneros a Cuba, per non essere spazzate via dal vento impietoso.
I diari e le testimonianze delle autrici e autori DiMMi offrono oggi una sponda di sostegno e base di avanzamento a quanti, ancora stranieri, vogliono tenersi uniti quando il vento fuori non è più tanto lieve, e occorre ‘aggrapparsi’ per consolidare la capacità di resistenza comune. Perché, si sa, i cicloni arrivano anche nell’Italia di oggi, e c’è bisogno di restare uniti e fare gruppo come ha mostrato DiMMi nei suoi quasi dieci anni di azione sul territorio. C’è il sospetto – o la speranza – che i racconti di DiMMi abbiano contribuito, anche se in piccolo, a (in)formare quel 52% di italiani che, secondo gli ultimi sondaggi di Demos, non sembrano oggi essere così ostili alla accoglienza di rifugiati e migranti come lo erano appena cinque anni fa.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
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Alessandro Triulzi, ha insegnato Storia dell’Africa Subsahariana e coordinato il Dottorato di ricerca in Africanistica presso l’Università di Napoli “L’Orientale” (1995-2011). Ha svolto ricerche di terreno in Ghana e Etiopia. Dal 2012 dirige a Roma l’Archivio delle memorie migranti (www.archiviomemoriemigranti.net). Per l’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano coordina insieme a Natalia Cangi il comitato scientifico di DiMMi-Diari multimediali migranti (https://www.dimmidistoriemigranti.it/). Ha curato Colonia e postcolonia come spazi diasporici (Carocci 2011), Long Journeys. African Migrants on the Road (Brill 2013), Bibbia e Corano a Lampedusa (La Scuola 2014) e, insieme a altri, i volumi del progetto DiMMi, Parole oltre le frontiere (Terre di Mezzo 2018), Se il mare finisce (Terre di Mezzo 2019), Il confine tra noi (Terre di Mezzo 2020), e Basta un vento lieve (Terre di Mezzo 2021).
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