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Il secolo lungo: 1923-2023. Mio padre, Italo Calvino e Lorenzo Milani, anacronia di un centenario

Italo Calvino

Italo Calvino

Don Lorenzo Milani

Don Lorenzo Milani

di Vincenzo Guarrasi 

“Hai portato il cervello all’ammasso!” così commentava mio padre la mia adesione al Partito Comunista. E per lui, uomo di sicura fede liberale, di destra però, la prova della mia scelta di campo consisteva nel fatto che, secondo lui, leggevo soltanto libri pubblicati dall’Einaudi. Forse aveva colto nel segno, ma io allora non lo sapevo. Magari non per quanto riguarda l’uso della mia dotazione cerebrale – su questo non mi sento di giudicare – né sulla lettura esclusiva di libri Einaudi che non era affatto così totalizzante.

Ma sulla scelta di campo sì, aveva visto giusto. Il “campo” delineato dalla Casa Editrice Einaudi con la scelta degli autori e dei titoli da pubblicare. Gran parte del pantheon delle mie scelte letterarie faceva capo a quella casa editrice: da Elio Vittorini a Cesare Pavese, cui avrei voluto dedicare la mia tesi di laurea [1], da Natalia Ginzburg a Italo Calvino e a Pier Paolo Pasolini.

Al fine di ricostruire sommariamente il circolo culturale che ruotava attorno alla casa editrice, proviamo a dare la parola agli stessi autori dell’Einaudi, in particolare a Italo Calvino e Natalia Ginzburg [2], che rappresentano testimoni di eccezione: 

«Nel 1945 avevo cominciato a gravitare attorno alla casa editrice Einaudi; – racconta Italo Calvino – allora abitando a Sanremo andavo spesso a Milano dove frequentavo Elio Vittorini e la redazione del Politecnico, e a Torino dove lo scorbutico Pavese mi accolse subito con un’amicizia che diventò per me sempre più preziosa, in quelli che dovevano essere gli ultimi anni della sua vita» (Album Calvino, 1995: 68 – 69). 

9788898823000_0_536_0_75Italo Calvino era nato a Santiago de las Vegas (L’Avana, Cuba) il 15 ottobre 1923 ma proveniva da un ambiente di vita, a sua detta provinciale, perché era cresciuto a Sanremo, dove suo padre, da botanico di fama internazionale, aveva tentato senza successo di orientarlo verso gli studi dell’ambiente vegetale. Anche la madre, biologa, aveva collaborato per una vita con il padre [3]. Italo scoprì presto di avere una vocazione, piuttosto, per gli studi umanistici. Noto, per inciso, che deludere le aspettative del genitore pare sia un destino abbastanza comune tra i figli, soprattutto, in presenza di padri dalla forte personalità. Capiterà qualcosa di analogo anche a Lorenzo Milani – il terzo termine di questa mia personale triangolazione – quando, per seguire la propria vocazione religiosa, si allontanò traumaticamente da una famiglia borghese dalle solide tradizioni culturali [4]. Anche Lorenzo Milani era nato nel 1923 e precisamente il 27 maggio. Mio padre era nato il 3 febbraio dello stesso anno.

Ma torniamo a Calvino. Come egli stesso afferma, il contatto e la frequentazione dell’ambiente einaudiano, segna una vera e profonda svolta nella sua vita:

«Decisiva fu per me l’amicizia di Giulio Einaudi che dura da quasi quarant’anni perché lo conobbi a Milano verso la fine del ’45 e subito mi propose cose da fare. A quel tempo Giulio s’era fatta di me l’idea che io fossi dotato anche per le attività pratiche, organizzative, economiche, cioè che appartenessi al nuovo tipo di intellettuale che egli cercava di suscitare; del resto Giulio ha sempre avuto il dono di riuscire a far fare alle persone delle cose che essi non sapevano di saper fare» (Album Calvino, 1995: 68 – 69).

Pn-ginzburg-lessico-famigliare-2006-copiaiuttosto che coltivare la sua vocazione letteraria, farà un’intensa vita di redazione curando tanti libri di altri autori. Alcuni sarà lui stesso a scoprirli e a segnalarli all’attenzione dell’Editore. Il che contribuisce a esaltare la funzione della Casa editrice come intellettuale collettivo, per usare un’espressione di ispirazione gramsciana. D’altronde, nulla si potrebbe capire di Giulio Einaudi e della sua casa editrice se si trascurasse il suo profondo radicamento nella Resistenza italiana.

Leone Ginzburg, uno dei fondatori della casa editrice Einaudi, era morto nel febbraio 1944 a causa delle persecuzioni nazi-fasciste. Gelosa dei suoi sentimenti più profondi Natalia Levi, che firmerà le sue opere con il cognome del marito, accenna a uno dei momenti più dolorosi della sua vita con accenti furtivi. Così, ad esempio, nel Lessico famigliare si sofferma a parlare della morte di suo marito soltanto attraverso la sofferenza degli altri: 

«L’editore aveva appeso alla parete, nella sua stanza, un ritratto di Leone, col capo un po’ chino, gli occhiali bassi sul naso, la folta capigliatura nera, la profonda fossetta sulla guancia, la mano femminea. Leone era morto in carcere, nel braccio tedesco delle carceri di Regina Coeli, a Roma durante l’occupazione tedesca, un gelido febbraio [del 1944]. Io non li avevo mai rivisti tutti insieme, Leone e l’editore e Pavese, dopo la primavera che i tedeschi prendevano la Francia, se non una volta sola, che eravamo venuti Leone e io dal confino, dove lo avevano mandato subito dopo ch’era entrata in guerra l’Italia […] Pavese non parlava quasi mai di Leone. Non amava parlare degli assenti, dei morti. Lo diceva: – Quando uno se ne va via o muore, io cerco di non pensarci, perché non mi piace soffrire. Tuttavia forse, qualche volta soffriva per averlo perduto. Era stato il suo migliore amico. Forse annoverava quella perdita fra le cose che lo straziavano. E certo era incapace di risparmiarsi alla sofferenza, cadendo nelle più acerbe e crudeli sofferenze, ogni volta che s’innamorava» (Ginzburg, 2010: 137-138). 

La sofferenza vissuta come esperienza di gruppo e come collante di quel cercle de l’amitié, che andiamo rapidamente tratteggiando si ripropone alla morte di Cesare Pavese, avvenuta nel 1950: «Quando Pavese si è ucciso, abbiamo diviso insieme quella sventura, Calvino, Balbo, Giulio Einaudi e io. Questa sventura ci ha tenuti uniti, nel corso degli anni, era nelle più profonde radici dei nostri rapporti. E così ci hanno tenuti uniti altre perdite…», scrive Natalia Ginzburg nell’ottobre 1985 sull’Indice un articolo intitolato “Il sole e la luna” (cit. in Album Calvino, 1995: 107).

Il suicidio accade proprio alla conclusione di un periodo di straordinaria produttività letteraria: 

«Negli anni dal 1945 al 1950, Pavese scrive Dialoghi con Leucò, Il compagno, Prima che il gallo canti, La bella estate, La luna e i Falò, i saggi sul Mito; contemporaneamente, vive giorno per giorno la vita di una casa editrice alla quale fanno capo personalità diverse ma tutte prese dalla smania di veder nascere dalle macerie della guerra un rinnovamento della cultura (e lui lì in ufficio fa la parte di quello che manda avanti la macchina, che chiacchera poco, che si sobbarca qualsiasi lavoro ma esige che gli altri siano puntuali); contemporaneamente, realizza la collana “Etnologica”, attraverso un mare di letture d’antropologia e di storia delle religioni antiche, un assiduo accanimento a procurarsi i testi, a discuterli con Ernesto De Martino, a farli tradurre e rivederli; […] in più milita – pur senza mai mettere il naso fuori dal suo studio – nella politica, e talvolta riesce a identificare la propria burbera tempra con la tensione della guerra fredda che c’è intorno, e s’accorge presto che le battaglie più accanite e continue sono quelle all’interno del proprio fronte, ma non per questo addolcisce la sua grinta verso i fronti avversari» (Album Calvino, 1995: 113 – 117). 

Tale impegno con tutta l’intensità dell’intento morale che esprime entra, per così dire, in rotta di collisione con una società come quella italiana, ansiosa di mettersi alle spalle la guerra con tutto il suo carico di angoscia e di dolore. Particolarmente incisiva appare in proposito la testimonianza di Calvino: 

«L’epistolario documenta quasi giorno per giorno il precipitare della crisi. Le lettere diventano una serie di preannunci di morte. Il breve 1950 di Cesare Pavese è come un’incursione che quest’abitante di tempi duri compie nel futuro, nel mondo “facile” che abitiamo noi oggi, per sapere cosa si prepara. Ci fa visita, si guarda intorno rapido. E non gli piace. E se ne va» (Album Calvino, 1995: 68 – 69). 

c-pavese-dialoghi-con-leucoSi potrebbe chiosare l’incursione di questo straniero in patria con il brano conclusivo di Streghe, uno dei capitoli più suggestivi dei Dialoghi con Leucò: 

«CIRCE L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo. Davanti al ricordo sorridono anche loro, rassegnati.

LEUCOTEA Circe, anche tu dici parole.

CIRCE So il mio destino, Leucò. Non temere» (Pavese, 1968: 116-7). 

Ma sarebbe un po’ come fargli torto, rigettando la sua dolorosa esperienza umana proprio in quella dimensione del mito che per anni gli aveva offerto un pur precario rifugio. Più appropriato è forse richiamare, come fa Natalia Ginzburg, la perigliosa oscillazione tra il fondo ironico dell’esistenza che manifestava nell’amicizia e il severo impianto della sua scrittura: 

 «[Cesare Pavese] aveva sempre, nei rapporti con noi suoi amici, un fondo ironico, e usava, noi suoi amici, commentarci e conoscerci con ironia; e questa ironia, che era forse tra le cose più belle che aveva, non sapeva mai portarla nelle cose che più gli stavano a cuore, non nei suoi rapporti con le donne di cui si innamorava, e non nei suoi libri: la portava soltanto nell’amicizia, perché l’amicizia era, in lui, un sentimento naturale e in qualche modo sbadato, era cioè qualcosa a cui non dava eccessiva importanza. Nell’amore, e anche nello scrivere, si buttava con tale stato d’animo di febbre e di calcolo, da non saperne mai ridere, e da non essere mai per intero se stesso: e a volte quando io penso a lui, la sua ironia è la cosa di lui che più ricordo e piango, perché non esiste più: non ce n’è ombra nei libri, e non è dato ritrovarla altrove che nel baleno del suo maligno sorriso» (Ginzburg, 2010: 175). 

Italo Calvino estende un giudizio, che appare appropriato se riferito alla sfera degli autori dell’Einaudi, su un’intera generazione, di cui si sente espressione: 

«La mia generazione è stata una bella generazione, anche se non ha fatto tutto quello che avrebbe potuto. Certo, per noi, la politica ha avuto per anni un’importanza magari esagerata, mentre la vita è fatta di tante cose. Ma questa passione civile ha dato un’ossatura alla nostra formazione culturale; se ci siamo interessati di tante cose è stato per quello. Anche se mi guardo attorno, in Europa, in America, coi nostri coetanei e con quelli più giovani, devo dire che noi eravamo più in gamba. Tra i giovani che sono venuti su dopo di noi negli ultimi anni in Italia, i migliori ne sanno più di noi, ma sono tutti più teorici, hanno una passione ideologica tutta fatta sui libri; noi avevamo per prima cosa una passione a operare; e questo non vuol dire essere più superficiali, anzi» (Il giudizio è del 1959 cit. in Album Calvino, 1995: 130 – 131). 

barbianaNon so se tale generalizzazione possa apparire in qualche modo forzata. Così, in effetti, appare a me, che per ragioni anagrafiche appartengo alla generazione del Sessantotto, ma sono stato sempre ben consapevole che il movimento studentesco, in cui ho militato, pur essendo ampio, partecipato e diffuso su tutto il territorio nazionale è stato ben lontano dal connotare un’intera generazione. Mi viene da ridere quando sento dire che la decadenza della scuola italiana affonda le sue radici nelle velleità antisistema del Sessantotto. È vero, infatti, che in quegli anni esprimevamo una forte pulsione antisistema, ma – ve l’assicuro – credevamo nella cultura e nell’istruzione pubblica che negli anni successivi abbiamo dovuto difendere con le unghie e con i denti dagli assalti dell’ideologia liberista.

Non è un caso che, a partire dalla pubblicazione nel 1967 di Lettera a una professoressa, Barbiana, un piccolo centro del Mugello, sia diventato per molti di noi una sorta di patria ideale. Rispetto all’immediato dopoguerra, il periodo in cui un’esperienza come quella di Einaudi riuscì a imporsi come modello dell’intero sistema editoriale nazionale, negli anni successivi l’opinione pubblica italiana appare come incantata dalle sirene del capitalismo e dal miraggio del benessere alla portata di tutti, e il testimone dell’impegno sociale e dell’utopia egualitaria passa nelle mani di singole personalità che ispirate da profonde aspirazioni politiche e religiose riescono a sottrarsi ai modelli culturali dominanti. Bisognerà andarle a cercare nelle sperdute lande della provincia italiana, da dove non mancarono di far sentire forte e perentoria la loro voce e di indicare una strada impervia sì ma di salvezza.

31ojxnsspnl-_ac_uf10001000_ql80_Don Lorenzo Milani con le sue Esperienze pastorali e le lettere indirizzate a quotidiani e riviste – in particolare quella ai cappellani militari e quella ai giudici sul tema dell’obiezione di coscienza – si alienò i favori dei benpensanti e delle autorità civili e religiose [5], ma intercettò un disagio profondo che circolava tra l’intellettualità più avvertita e le frange più politicamente impegnate del mondo giovanile. Non sorprende, ad esempio l’approvazione incondizionata di Pier Paolo Pasolini [6], che in un’intervista rilasciata a ridosso della pubblicazione della Lettera della Scuola di Barbiana – è ancora possibile ascoltarla su Rai Play – afferma che «non gli era mai capitato di essere così entusiasta di qualcosa» e conclude osservando che c’è però una domanda che i ragazzi di Don Milani non si sono posti: a quale mondo culturale appartiene la professoressa cui indirizzano la loro lettera? La risposta di Pasolini a tale interrogativo è coerente con le sue radici e la sua visione: anche la cultura piccolo borghese della professoressa, a cui si rivolgono, nasce dal medesimo mondo contadino di cui loro stessi fanno parte. La maggioranza degli italiani di allora aveva ancora un radicamento, prossimo o remoto, che stava per essere sopraffatto dalla transizione verso una società urbano-industriale.

Anche in me queste parole hanno una certa risonanza perché pur essendo vissuto sempre in città, attraverso mio padre che apparteneva a una famiglia della piccola borghesia agraria di Alcamo, un centro agricolo del Trapanese, ho subìto l’influenza di un universo di valori tipico della campagna siciliana. In fondo, come estrazione sociale somiglio di più alla professoressa che ai ragazzi della scuola di Barbiana. Se ho potuto operare una scelta di campo radicale, ispirandomi alla scuola di Barbiana e disponendomi all’ascolto delle tante generazioni di giovani che ho incontrato nel corso di una lunga carriera universitaria, lo devo a una serie fortunata di incontri che hanno allargato e approfondito i miei orizzonti di vita. Ho anche ascoltato con attenzione la lezione di quell’eccezionale gruppo di intellettuali che si è raccolto attorno alla casa editrice Einaudi, senza perdere di vista però quel modello di vita onesta, laboriosa e frugale che la mia famiglia di origine e mio padre, in particolare, comunque rappresentava.

9788835722281_0_536_0_75Il secolo che ci separa dalla nascita di Italo Calvino, Lorenzo Milani e Raffaele Guarrasi, mio padre, appare a tutti gli effetti oltremodo lungo se ci interroghiamo sull’attualità di certe lezioni di vita. La mia stessa mappa intellettuale e affettiva mi sembra estremamente datata e logora in più parti se rapportata ai movimenti tellurici del mondo contemporaneo. Se rileggo però l’articolo di Carlo Ossola, pubblicato su L’Avvenire del 28 maggio di quest’anno dal titolo “Don Milani e Italo Calvino. Quel desiderio di un’utopia efficace rivolta alla scuola”, riprende vigore dentro di me l’urgenza di rilanciare un discorso sull’istruzione pubblica come fattore di uguaglianza. Tra Calvino e Milani l’anelito è uno solo e consiste nell’affermare che «non si può conoscere il mondo se non lo si circoscrive in una parola precisa, se l’oggetto non è descritto con chiarezza, se la comprensione non è di tutti» (Ossola, 2023).

Viene alla mente quanto Italo Calvino dice a proposito della prosa di Natalia Ginzburg: 

«Il segreto della semplicità di Natalia è qui: questa voce che dice “io” ha sempre di fronte personaggi che stima superiori a lei, situazioni che sembrano troppo complesse per le sue forze, e i mezzi linguistici e concettuali che essa usa per rappresentarli sono sempre un po’ al di sotto delle esigenze. Ed è da questa sproporzione che nasce la tensione poetica. La poesia è sempre stata questo: far passare il mare in un imbuto; fissarsi uno strettissimo numero di mezzi espressivi e cercare di esprimere con quello qualcosa d’estremamente complesso. Adesso la letteratura tende a dimenticare l’imbuto: si crede che il mare possa essere espresso e comunicato in quanto mare, e non si comunica né il mare né niente, solo parole. Natalia non dice parole: nomina delle cose, sempre. Quando dice “veletta” è “veletta”, quando dice “scarpa” è “scarpa”» (Album Calvino, 1995: 107 – 108). 

Allora risulta chiaro che la parola appropriata è quella che sa aver luogo, che contribuisce a esaltare la dignità del singolo essere umano, che sa costruire attorno a questo tempio dell’essere quel giardino originario che credevamo di aver perduto per sempre. Il mondo, che ha elevato a potenza la comunicazione mediatica e ansioso attende l’avvento dell’intelligenza artificiale, ancora una volta non potrà fare a meno dell’agire profetico (Raineri, 2022) degli esseri umani e delle loro parole di verità. 

Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
 Note
[1] Optai poi per una tesi in Etnologia dal titolo Ideologia e mito. Un tentativo di analisi strutturale del Manifesto del Partito Comunista.
[2] Due sono i testi a cui farò principalmente riferimento: Album Calvino (1995), pubblicato nei Meridiani della Mondadori dedicati alle opere complete dell’Autore e il capolavoro della Ginzburg, Lessico famigliare, ripubblicato per i tipi della casa editrice Einaudi nel 2010 (l’edizione originale, con lo stesso editore, è del 1963).
[3] Avvincente è in proposito la testimonianza di Libereso Guglielmi in Libereso, il giardiniere di Calvino, prefazione di Nico Orengo, Muzzio Editore, Padova 1993, una persona dalla straordinaria cultura botanica, che di fatto fu il vero erede della passione scientifica di Mario Calvino.
[4] I nonni erano un archeologo e numismatico per linea paterna e Domenico Comparetti, filologo illustre, per linea materna.
[5] Lo stesso don Roncalli, il futuro Giovanni XXIII, stentò in un primo momento a riconoscere il valore profetico delle parole del priore di Barbiana, anche se poi fu proprio il Concilio Vaticano II, promosso da questo grande e semplice pontefice, a offrire una cassa di risonanza appropriata alle esperienze più innovative – più evangeliche, potremmo dire ,  espresse dal mondo cattolico di base. Un vero e proprio crogiolo destinato a portare a temperatura di fusione un popolo disperso e sino ad allora mortificato dalle gerarchie ecclesiastiche.
[6] Stupisce in qualche modo il giudizio che Italo Calvino esprime su Pasolini scrittore e regista: «Pasolini è un mio coetaneo che ho seguito da quando ha cominciato a muoversi sulla scena nazionale. Ho letto di recente la biografia di Siciliano da cui ho imparato moltissimi fatti sulla famiglia, sul padre, sul rapporto col fratello, ma ho cominciato a leggere Pasolini da quando ha pubblicato su Paragone un capitolo di quello che sarebbe stato poi Ragazzi di vita. Era il ’51 e quel capitolo fu praticamente il manifesto di questa sua scrittura dialettale. Ha fatto un lavoro importante come poeta negli anni ’50. Ho cominciato a leggere le sue poesie quando su Nuovi Argomenti furono pubblicate Le ceneri di Gramsci, ma prima ancora lo avevo notato nell’antologia di Spagnoletti, e poi per il suo lavoro nel canzoniere italiano. C’era stata una polemica nella stampa comunista, sul Contemporaneo perché non consideravano abbastanza la sua opera, era intorno al ’54, e sono stato sempre molto suo amico. Poi, quando ha cominciato a fare film, mi pare che il suo interesse sia diminuito, il suo cinema non mi ha interessato: mi sembra tutto il contrario di quello che è come scrittore. Come scrittore, ha un’esattezza, è un lavoratore molto preciso. Mi pare che nel cinema abbia immagini molto generiche» (Album Calvino, 1995: 175). E torna difficile immaginare una figura ombrosa e solitaria come Pasolini all’interno di un gruppo coeso e solidale come quello di Einaudi. Poi si ripensa a opere come Il vangelo secondo Matteo (1964), in cui la sua ispirazione poetica rifulge nitida, e si scoprono tra gli attori, oltre a Enrique Irazoqui nei panni di Gesù e la madre stessa del regista in quelli di Maria, Natalia Ginzburg nel ruolo di Maria di Betania e Gabriele Baldini, il suo secondo marito, che fa l’apostolo. E il cerchio si chiude.
Riferimenti bibliografici 
Album Calvino a cura di Luca Baranelli e Ernesto Ferrero, Mondadori, Milano, 1995.
Ginzburg, N., Lessico famigliare, Einaudi, Torino, 2010.
Guglielmi, L., Libereso, il giardiniere di Calvino, Muzzio, Padova, 1993.
Milani L. Esperienze pastorali, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1958.
Milani L., Lettere, San Paolo, Milano, 2007.
Ossola, C., “Don Milani e Italo Calvino. Quel desiderio di un’utopia efficace rivolta alla scuola” in L’Avvenire, 28 maggio 2023.
Pavese, C., Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino, 1968.
Raineri, A., Ancora. Cambiare il mondo nel tramonto della politica, Navarra editore, Palermo, 2022.
Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1967. 

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Vincenzo Guarrasi, professore emerito di Geografia presso l’Università di Palermo, è stato Preside della Facoltà di Lettere e vicepresidente dell’Associazione dei Geografi Italiana. I suoi principali campi di ricerca sono stati: la condizione marginale; le migrazioni internazionali; le città cosmopolite. Ha pubblicato numerosi saggi e monografie su vari temi connessi alle dimensioni della geografia urbana e culturale.

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