di Augusto Ciuffetti e Tania Cerquiglini
Tra il 25 e il 27 maggio 2023, nelle alture calabresi di Soveria Mannelli, si è tornati nei luoghi del lavoro. Tra caratteri mobili e prime Linotype della fabbrica Rubbettino si è svolta la prima edizione del Festival del Lavoro nelle Aree Interne, organizzato dall’associazione RESpro-Rete di storici per i paesaggi della produzione, dalla casa editrice Rubbettino e dalla Fondazione Appennino. Nella rielaborazione dei fatti riemergono, accanto alla narrazione, le parole di Carlo Maria Cipolla: «Gli italiani sono abituati, fin dal Medioevo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo». Cosa c’era allora e cosa c’è oggi all’ombra dei campanili? Pietre divenute ormai soltanto monolitiche individualità oppure è possibile scorgere delle tradizioni trasformate?
Il lavoro è proprio il tema posto al centro del Festival. Un Festival che ha cercato di proporsi come luogo delle opportunità. Opportunità che si traducono in capacità di fare rete, di mettersi in relazione, di tornare a guardare e riconoscere le competenze. Non si è trattato di fare una mera cronaca del passato, ma di proporre il canovaccio di progettazioni future, oltre facili retoriche e stereotipi difficili da superare. Tutte le relazioni svolte nei tre giorni di lavoro, infatti, sono state all’insegna della concretezza e del dialogo tra ambiti disciplinari diversi.
Il Festival ha proposto un approccio storico al tema del lavoro, per verificare poi quali esperienze siano già attive nei tanti paesi più o meno piccoli dell’Appennino, come parte integrante di tutti i contesti montani europei. In questo gioco di corrispondenze, le geografie calabresi del Festival hanno svolto un ruolo determinante: la fabbrica Rubbettino, come luogo imprenditoriale capace di vedere il territorio e di concorrere alla sua trasformazione; l’associazione RESpro come strumento di lettura di una storia, la cui evoluzione modifica paesi e paesaggi; la Fondazione Appennino, infine, come veicolo politico e culturale della trasformazione stessa.
Sia le relazioni incentrate sui mestieri del passato, sia quelle rivolte al presente e all’individuazione di forme lavorative inedite, ma sempre in sintonia con ambienti e tradizioni, hanno messo tutte in risalto la necessità di recuperare la coscienza dei luoghi, come unico modo per difendere questi ultimi da devastanti processi di omologazione. Da un lato, dunque, la storia come una sorta di sentiero che, attraversando il tempo, è in grado di consegnarci le unicità e le caratteristiche di ogni spazio; dall’altro, le comunità colte in un presente complesso e difficile, ma già denso di prospettive per il futuro. Numerose relazioni hanno presentato valide esperienze di comunità energetiche o di cooperative di comunità, come diretta espressione di originarie pratiche di gestione dei beni comuni attive fin dal medioevo.
C’è un filo rosso che lega tutto questo e che passa attraverso immagini di donne e uomini vissuti nel passato, destinate a rivivere in tutte quelle persone che decidono di continuare o di tornare a costruire le loro esistenze nei paesi delle aree interne, sperimentando prassi nuove accanto ad antichi mestieri, processi innovativi insieme a forme lavorative tradizionali, pronte a rinnovarsi nelle complesse articolazioni dell’economia globale. In altre parole, si tratta di unire il passato al presente, in una chiave originale ed alternativa rispetto ai modelli sociali ed economici utilizzati nel mondo occidentale fino ad oggi.
In questa direzione, il Festival ha dimostrato non solo le enormi potenzialità delle aree interne, ma anche la forza che ogni comunità è in grado di sprigionare nel momento in cui si riesce a collocare al centro di ogni processo trasformativo la persona, insieme a tutte le relazioni che si possono stabilire con gli spazi sociali, gli ambienti naturali, le attività produttive e le dimensioni culturali che la circondano. È nell’attivazione di una rete di questo tipo, all’interno della quale deve trovare spazio anche la consapevolezza che ogni individuo deve avere sulla sua storia e su quella della sua comunità, che si può giocare una prospettiva inedita per le aree interne, nella chiave imprescindibile della sostenibilità.
Se il Festival è riuscito a realizzare un primo percorso molto concreto sul tema del lavoro, grazie alla presentazione, accanto alle narrazioni storiche, di numerose esperienze ed attività, un’operazione simile è stata condotta anche in riferimento ai linguaggi e alle parole utilizzate. L’intera architettura del Festival, infatti, è stata pensata in riferimento a delle convinzioni, che gli ideatori stessi dell’evento hanno maturato negli ultimi anni, parallelamente alla crescita dell’intero dibattito sulle aree interne. La prima riguarda i limiti e le ambiguità della definizione stessa di area interna, soprattutto se quest’ultima viene declinata in una prospettiva storica, perché quei territori che oggi sono considerati tali e quindi anche marginali e periferici, non sempre lo sono stati, anche in un passato relativamente recente.
Diversi interventi hanno messo in risalto anche la necessità di stabilire nuove relazioni territoriali, ben oltre la già codificata dimensione metro-montana, per superare dualismi e nette opposizioni. Si tratta di ampliare la visuale sia in chiave storica, sia dal punto di vista geografico, per stabilire inedite interconnessioni spaziali tra entroterra e coste, montagne e pianure. Se osserviamo la dorsale appenninica all’interno della penisola italiana, ma nello stesso tempo anche in riferimento al suo posizionamento nel cuore del Mediterraneo, le distanze tra il mare e gli spazi montani diventano talmente irrilevanti da annullare ogni forma di marginalità, mostrando la storica centralità dell’Appennino.
La seconda convinzione, come già rilevato, riguarda il lavoro. Per molto tempo si è guardato alle aree interne ipotizzando dei percorsi di rilancio delle loro realtà economiche incentrati quasi esclusivamente sul turismo, oppure mediante dei progetti calati dall’alto e del tutto estranei ed esterni alle loro caratteristiche sociali, economiche e culturali. In altre parole, invece di pensare a chi vive quotidianamente nelle comunità delle aree interne, i relativi interventi sono andati in direzione opposta, salvaguardando ben altri interessi. In questa direzione è sufficiente pensare alla retorica del recupero dei borghi montani, elaborata in una prospettiva lontana dalle articolazioni locali e rispondente solo alle necessità di chi abita in grandi spazi urbani sovraffollati e congestionati.
Questa prospettiva di “uso” delle aree interne a beneficio dei “territori forti” della penisola italiana non riguarda soltanto la riproposizione di modelli di sfruttamento turistico o di presunto sviluppo economico ormai superati, ma anche l’accesso alle risorse idriche ed energetiche. Tali prassi, che ripropongono modelli di sviluppo espressi da schemi economici non più funzionali agli equilibri sociali e ambientali delle terre alte, sono ormai ampiamente superate dalle nuove forme del riabitare, che stanno maturando all’interno delle comunità appenniniche.
Il Festival di Soveria Mannelli ha dato in tal senso un contributo di fondamentale importanza per cambiare sia i linguaggi, sia i contenuti dell’attuale dibattito sulle aree interne, proponendo degli interventi sorretti da logiche alternative ai modelli economici dominanti e ribaltando completamente ogni prospettiva: invece di agire dall’esterno partire dall’interno, anziché calare i progetti dall’alto iniziare dal basso, dalle comunità stesse, cioè dalle persone, con processi partecipativi diretti. Allo stesso modo, si è sottolineata la necessità di ripartire dai luoghi della socialità, come spazi di un rinnovato modo di vivere, per elaborare culture e mentalità e per individuare inediti ruoli, anche in termini di servizi, che questi ultimi possono avere soprattutto nelle comunità più piccole ed isolate. In queste direzioni, il Festival è riuscito ad aprire dei nuovi percorsi, con sguardi più consapevoli, ancorati alla storia delle aree interne e non più a schemi generici. Quella proposta non è una storia rassicurante, pensata per alimentare false ed inutili nostalgie, quanto l’esito di una lettura capace di soffermarsi anche sui conflitti, le difficoltà, le sconfitte e le tante contraddizioni, in modo da comporre una narrazione vera e concreta, in grado di restituire profili e identità ancora capaci di trasformarsi in validi punti di riferimento per il futuro.
Dentro questa storia ci sono comunità i cui contorni sono disegnati dal lavoro di uomini e donne, le cui emozioni restano nel tempo come stratificazioni destinate a trasformarsi in ricordi e memorie a disposizione di un presente ancora in fase di elaborazione. In questa prospettiva, il lavoro, da semplice fattore produttivo può diventare l’espressione più profonda di una complessa realtà sociale, della cultura di un territorio unico e irripetibile. In termini di lavoro si può davvero attingere ad un altro passato, non quello idealizzato di chi osserva dall’esterno le aree interne, ma quello concreto e reale mediante il quale sono stati costruiti, nel corso dei secoli, i profili delle comunità appenniniche. Senza la storia è impossibile arrivare ad una corretta conoscenza dei territori e quindi all’individuazione di paesaggi produttivi validi per il futuro, in sintonia con gli equilibri ambientali e capaci di essere innovativi e moderni guardando alle tradizioni.
Per superare definitivamente tutte quelle soluzioni eccessivamente schiacciate sul presente e quindi incapaci di cogliere gli elementi originali e portanti di un determinato spazio è indispensabile collocare accanto alla storia la memoria, perché non può esistere nessuna comunità senza ricordi. Conservare e “mettere in sicurezza” la memoria è di fondamentale importanza per l’identità di un Paese e per costruire, in termini di lavoro, un futuro possibile. Il termine identità, spesso utilizzato a sproposito e in senso negativo a sottolineare chiusure e forme di intolleranza, andrebbe recuperato, in riferimento alle comunità delle aree interne, nel suo vero significato.
Permettere ad un paese di conservare la sua identità nel tempo – ma potremmo parlare nella medesima prospettiva anche di coscienza dei luoghi – significa rendere più forte e resistente questo Paese, dunque capace di aprirsi nei confronti di ogni forma di diversità, per essere sempre più accogliente e inclusivo. Come ci ricorda Italo Calvino, le identità si basano sempre sui ricordi e quindi sono sempre in continuità con il passato; si basano sui segni e sulle testimonianze che rimangono di quest’ultimo. In tal senso, anche le attività lavorative appartengono alle identità di un territorio, contribuendo alla sua caratterizzazione, anche di fronte a cambiamenti epocali, ai mutamenti di un presente inevitabilmente differente rispetto ad un passato fatto di secoli e secoli di storia.
La resistenza trasformativa di uno spazio territoriale, da intendere come capacità di opporsi ad ogni fenomeno di declino, compresi quelli più recenti legati alla demografia (spopolamenti e invecchiamento della popolazione), non può che derivare dalle caratteristiche dei paesi e dei loro paesaggi, dalle identità e da processi lavorativi sedimentati nei secoli, come diretta conseguenza di determinati equilibri ambientali e sociali. In tal senso, le attività produttive che ne derivano non possono che essere in netta contrapposizione ai progetti calati dall’alto, rispondenti a modelli, come quello della grande industria funzionale al consumismo, del tutto estranei alle realtà locali. Questa opposizione corrisponde a quella dicotomia proposta da Pier Paolo Pasolini, il quale insisteva sulle differenze tra sviluppo e progresso. Lo sviluppo rappresenta l’anonimo ed omologante processo economico imposto dall’esterno, mediante degli schemi che annullano le comunità locali (spesso queste ultime accettano e fanno propria una condizione di subalternità, rispetto alle logiche dominanti, vissuta come una sorta di colpa), mentre il progresso corrisponde a quella visione che parte dal basso, da comunità chiamate a formulare una propria idea di futuro, saldamente ancorata a dei percorsi storici ineludibili. Si tratta di una prospettiva che può assumere i contorni di un riscatto, definito da originali forme di organizzazione del territorio, come quelle riconducibili alle pratiche collettive di gestione delle risorse tipiche delle terre alte.
In definitiva, se il Festival di Soveria ha dato un contributo significativo al superamento della retorica dello sviluppo turistico fine a se stesso e dell’immagine artificiale del bel borgo, nello stesso tempo, i suoi contenuti hanno permesso di superare anche tutte le retoriche sul lavoro, sui giovani e sui processi di ripopolamento. I paesi, quelli veri, quelli reali degli spazi montani e rurali, non sono luoghi idilliaci. Nei paesi vuoti e quasi abbandonati dell’Appennino non c’è nessuna tranquillità e non sempre la possibilità di viverci si configura come una scelta. Questi paesi sono altro rispetto ai facili e banali profili spesso assegnati loro. Questi paesi non sono soltanto lo spazio di chi ritorna con maggiore o minore consapevolezza, sono anche i luoghi dove continuano a condurre le loro esistenze vecchi senza più speranze, individui che sono rimasti perché non hanno avuto la forza o il coraggio di partire, persone che si ostinano a lavorare al loro interno con forti lacerazioni o che vogliono provare a costruire nuovi progetti con il perenne timore di andare incontro a fallimenti devastanti.
È soltanto il lavoro che può permettere la realizzazione di un ponte tra i distinti livelli che compongono e definiscono i paesi delle aree interne. Un lavoro collocato dentro la crisi ambientale e le grandi transizioni della nostra epoca, da quella digitale a quella energetica. È da complesse interconnessioni e relazioni di spazi e tempi che attraversano le diverse generazioni (accanto ai giovani ci sono e ci devono sempre essere anche quelle persone anziane che sono la memoria delle comunità), che possono scaturire dei percorsi davvero nuovi per i tanti paesi del nostro entroterra, capaci di offrire delle valide alternative alla crisi della società contemporanea.
Nella terza e conclusiva giornata del Festival si è svolto un ampio dibattito tra diversi esponenti del mondo politico italiano, che ha messo bene in evidenza il forte scollamento che separa quest’ultimo dalle comunità locali: il primo ancora legato a delle letture incapaci di cogliere le novità in atto all’interno dell’Appennino e dei suoi paesi, ancorato a modelli economici e sociali ormai superati, e quindi inadatto, anche per i limiti di molti dirigenti e di gran parte degli amministratori locali, a fornire gli strumenti normativi e le competenze indispensabili per attivare progetti concreti e davvero utili; le seconde già ampiamente attive e dinamiche, attraversate da esperienze in grado di trasformarle in veri e propri luoghi di sperimentazione, laboratori di innovazione e modernità, quasi sempre a carattere spontaneo e gestiti da giovani consapevoli del loro ruolo.
In definitiva, questo Festival, che ha cercato di parlare di lavoro in ambienti e luoghi che rappresentano al meglio questo tema, come gli stabilimenti della Rubbettino e del Lanificio Leo, è riuscito a fare un primo bilancio sul difficile rapporto tra quest’ultimo e le aree interne. Molte questioni necessitano di ulteriori riflessioni, così come appare sempre più importante e indispensabile una sorta di “misurazione” di tutti i fenomeni economici, sociali e culturali che interessano le aree interne, mediante dei report periodici da mettere a disposizione di operatori e studiosi. Alcuni aspetti sono da valorizzare, come le capacità presenti all’interno delle comunità, da sostenere attraverso reti (da intendere come insiemi di persone, fattori, relazioni), percorsi progettuali adeguati e nuove soluzioni tecnologiche, in grado di sostenere e rendere concrete anche le azioni dei piccoli comuni.
Accanto ad una maggiore diffusione delle informazioni è indispensabile anche l’uso di un lessico che sappia cogliere le novità, le interconnessioni tra modernità e tradizione, così come è fondamentale il riconoscimento di luoghi specifici dove le persone si possano incontrare, dialogare e costruire il loro futuro. Si tratta, in definitiva, di individuare degli spazi dove realizzare il contatto tra queste ultime e la progettualità, spazi di convivialità creativa, di reale scambio tra soggetti diversi. In tal senso i luoghi di incontro tradizionali, tipici delle piccole comunità montane dell’Appennino, dai bar alle botteghe artigiane, insieme a quelli che possono derivare dalle nuove forme dell’abitare sperimentate dai più giovani, rappresentano un vero e proprio patrimonio. Le innovazioni derivano sempre da reti all’interno delle quali si muovono persone depositarie di specifiche competenze, pronte ad acquisire ulteriori capacità da spendere nei territori stessi.
Le tante esperienze raccontate nei tre giorni del Festival rappresentano già una rete destinata a crescere nel tempo, all’interno della quale attivare nuove relazioni e connessioni e ciò rappresenta, probabilmente, il risultato più importante raggiunto da questa manifestazione. Se quello che è iniziato non è solo un mero esercizio culturale, ma un concreto anelito alla collaborazione, allo scambio e alla capacità di elaborare politiche, allora è possibile che quell’ombra non celi più un campanilismo esacerbato, quanto un cambiamento trasformativo delle comunità. Con nuovi incontri e con la pubblicazione degli atti si cercherà di alimentare questa rete, di renderla sempre più visibile, in modo da consentire alla seconda edizione del Festival, che si svolgerà nella primavera del 2024, di aggiungere ulteriori tasselli alla rinascita delle comunità della dorsale appenninica italiana.
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
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Augusto Ciuffetti, Professore associato di Storia economica presso la Facoltà di Economia “Giorgio Fuà” dell’Università Politecnica delle Marche, e docente di Storia dell’Adriatico e del Mediterraneo nell’Università degli studi di Macerata. È presidente dell’associazione RESpro-Rete di storici per i paesaggi della produzione e tra i fondatori dei Cantieri Mobili di Storia, un gruppo di studiosi attivamente impegnato a sostenere i territori colpiti dal terremoto del 2016. Tra le sue monografie più recenti si segnalano le seguenti: Un banchiere innovatore. Ritratto di Luigi Bacci nella società marchigiana della seconda metà del Novecento, il Mulino, Bologna 2020 (con Marco Torcoletti); Appennino. Economie, culture e spazi sociali dal medioevo all’età contemporanea, Carocci, Roma 2019; Il fattore umano dell’impresa. L’Azienda Elettrica Municipale di Milano e il welfare aziendale nell’Italia del secondo dopoguerra, Marsilio, Venezia 2017.
Tania Cerquiglini, Research assistant nel Team Urban Research, Innovation and Development presso ICLEI – Local Governments for Sustainability, organizzazione non governativa che promuove lo sviluppo sostenibile con sede a Bonn, Germania. Laureata nel Master in Gestione e Programmazione delle Politiche Partecipative dell’Università degli Studi di Perugia, con una tesi sulle pratiche di progettazione partecipata in aree appenniniche, si laurea nel 2020 in Politiche del Territorio e Sviluppo Sostenibile all’Università degli Studi di Perugia. Nel 2019, all’interno del programma di mobilità Extra-Erasmus, trascorre un semestre di ricerca presso la Universidad de Mendoza in Argentina dove sviluppa uno studio sul patrimonio ferroviario abbandonato. È coautrice della pubblicazione Piombino e Prato: racconti di “altre” città industriali contenuta nella collana Storia e iconografia dell’architettura, delle città e dei siti europei, 3, Cirice, Napoli, 2018 e della pubblicazione Ecomusei urbani in Italia: percorsi partecipativi ai margini delle città inserita nel volume Periferie Europee. Istituzioni sociali, politiche, luoghi, Primo tomo, FrancoAngeli, Milano, 2021 e autrice di Le ferrovie in Argentina: viabilità complesse fra memoria e paesaggi materiali contenuto nel volume Oltre la partecipazione. Riappropriazioni e rigenerazioni, luoghi e transiti, a cura di Alessandra Valastro, Paola De Salvo, Marco Damiani, Morlacchi Editore, Perugia 2021.
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