di Orietta Sorgi
Racconti orali, storie di vita, testi scritti, videointerviste e fotografie: quale di questi registri espressivi della pratica etnografica si rivela il più adeguato a restituire il senso e la memoria di comunità locali in cambiamento? O è forse l’uso complementare di questi strumenti che consente al ricercatore di rappresentare l’attualità di un borgo rurale senza cadere nella trappola di una visione statica e idilliaca della campagna rimasta fuori dai ritmi veloci della globalizzazione?
Come si inseriscono oggi i borghi rurali nel quadro di un’economia post-capitalista, quando da più parti del mondo si assiste al loro recupero come antidoto al disagio della città? In realtà gli effetti della modernità sono penetrati anche nel paesaggio rurale, rendendolo qualcosa di stratificato e complesso in cui è difficile individuare le antiche relazioni comunitarie oggi impoverite e sottoposte di continuo a nuove pressioni esterne.
L’etnografo è spesso chiamato in causa per sfatare il mito di una campagna che dall’Arcadia e dalle pastorali del romanticismo ottocentesco è stato visto e rappresentato come il rifugio sicuro dove ritrovare il senso autentico della vita e la purezza dei sentimenti. Un mito che ha resistito con tenacia anche nel secondo Novecento quando i movimenti contadini, la lotta per le terre e la mancata riforma agraria hanno messo a nudo le condizioni di miseria e di sfruttamento nei confronti dei braccianti agricoli, soprattutto nel Meridione d’Italia.
Fino a quando le grandi rivoluzioni industriali e l’urbanizzazione hanno determinato, com’è noto, l’esodo in massa dalle campagne e la desertificazione progressiva dei piccoli borghi rurali, a tutto vantaggio/svantaggio delle aree metropolitane e delle periferie cresciute in modo smisurato e poco funzionale ai bisogni dei neo residenti.
Negli ultimi tempi si assiste a un’inversione di tendenza che promuove il ritorno degli emigrati nei luoghi d’origine per sopperire all’abbandono e alla disgregazione. Si profilano nuovi stili di vita da parte di numerosi individui che ora, complice la pandemia e il lockdown con la possibilità del lavoro a distanza, abbandonano le grandi città e i loro ritmi frenetici, abbracciando tempi più lenti e tranquilli. A questi motivi si aggiunge ancora la presenza, seppure spesso nascosta, di immigrati che, in fuga dai loro paesi, costituiscono una linfa vitale nell’agricoltura o nei boschi circostanti, una risorsa lavorativa abbandonata dai locali.
In queste forme di neo-ruralismo contemporaneo, il modello di vita contadina, le tradizioni alimentari e festive dei piccoli centri sono divenute un polo di attrazione non soltanto per i turisti ma per tutti coloro che cercano una risposta al disagio urbano. Le saghe di paese, le rievocazioni storiche di origine medievale sono oggi un patrimonio da ostentare e offrire al pubblico, un modo per affermare e celebrare la propria identità. Sta di fatto che le nuove dinamiche presenti nei centri minori di antica vocazione agropastorale, hanno aperto scenari insoliti e situazioni complesse di ibridazione e contaminazione fra vecchi e nuovi residenti di varia provenienza, a volte di creativa innovazione in un’opposizione costante fra globale e locale, tradizione e modernità, urbano e rurale.
Su questi presupposti e nell’intento di decostruire l’idea di un passato fuori dal tempo è ora Pietro Meloni, erede della scuola antropologica senese che fa capo a Pietro Clemente impegnato da decenni nella ricognizione e nello studio dei piccoli centri medievali dell’area toscana. Reduce da una ricerca quasi decennale nella Val di Merse, Meloni ha di recente pubblicato i risultati del suo lavoro etnografico in un volume edito da Meltemi dal titolo Nostalgia rurale. Antropologia visiva di un immaginario contemporaneo.
A differenza del Chianti e della Val dell’Orcia, poli di attrazione turistica, la Val di Merse, con le sue riserve naturali e i piccoli agglomerati urbani, ha mantenuto un carattere di isolamento per la presenza di boschi e di fiumi. Si tratta, come in molti casi, di un’area fortemente spopolata dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando la gran parte dei contadini ha abbandonato le campagne per trasferirsi nelle città più vicine. A Iesa, in particolare, frazione del comune di Monticiano, dove si è svolta la ricerca di Meloni, convivono, oltre ai nativi, tanti nuovi residenti di diverse nazionalità, che per varie ragioni hanno deciso di trascorrere un periodo o il resto della loro vita in quel piccolo borgo isolato. Ucraini e albanesi, inglesi, tedeschi, svizzeri e brasiliani, moldavi e marocchini si sono stabilizzati a Iesa, determinando una realtà stratificata in cui si intrecciano diverse visioni e interpretazioni del borgo rurale.
Nel condividere l’idea di una campagna globale (Woods 2007), Meloni intende mostrare i diversi modi di costruzione dell’immaginario rurale che, come abbiamo visto, non è mai univoco e “oggettivo”, ma è diverso a secondo dei vari punti di vista: dai migranti in cerca di occupazione in aree dove la vita costa poco, agli stranieri che eleggono a Iesa la propria dimora alla ricerca di un’oasi di pace, agli antichi residenti, trasferiti nelle città vicine e ora ritornati in via definitiva dopo la pensione o stagionalmente per trascorrere la villeggiatura nella seconda casa. Ben diversa è dunque la condizione degli autoctoni rimasti nei luoghi d’origine da quella degli alloctoni che per motivi di lavoro, o turistici o semplicemente per svago, percepiscono lo spazio rurale in modi alternativi ma strettamente interrelati e complementari.
L’immaginario rurale diviene pertanto agli occhi dell’etnografo il frutto di molteplici rappresentazioni e di modi differenti di pensare la vita di paese e la campagna nella contemporaneità, inserito in un processo dinamico che non può sfuggire alle frizioni e ai conflitti della globalizzazione. Il bosco ad esempio, con le sue attività lavorative e di svago, ha esercitato a Iesa un ruolo considerevole e oggi costituisce per gli anziani uno spazio nostalgico per eccellenza. Come dimostrano i trofei di caccia appesi sulle mura domestiche per ricordare un passato da celebrare, qualcosa che, perduta la funzione originaria di un tempo, è diventato un patrimonio da condividere. Che non può mai coincidere con la percezione degli albanesi immigrati che trovano nel bosco un modo per sopperire alla sussistenza, praticando attività lavorative come il taglio della legna abbandonate da tempo dai locali, ostili ai nuovi residenti. Quindi anche il bosco che per definizione è l’ambito della selvatichezza, dell’irrompere della natura in opposizione agli spazi domestici e coltivati, è al contrario, il frutto di produzioni culturali che mutano a secondo del punto di vista di chi lo frequenta e lo rappresenta.
Erede dell’antropologia condivisa di Geertz (1998), l’autore porta avanti un tipo di etnografia domestica, giocando in casa in luoghi a lui familiari ed entrando in sintonia con i suoi informatori, senza trascurare mai il fatto che la restituzione del campo d’indagine è sempre una responsabilità scientifica dell’autore. Al confronto dialogico con i soggetti intervistati si aggiunge il peso della formazione accademica che inevitabilmente confluisce nei risultati finali, accrescendo la distanza con la percezione locale dei suoi informatori. Secondo un’ottica struttural-costruttiva, Meloni sviluppa un’analisi incentrata sui diversi livelli di vissuto e immaginario di uno stesso luogo. Livelli di rappresentazione e interpretazione che spesso finiscono per essere considerati dati oggettivi ma che in realtà sono sempre esiti di nostre costruzioni, prodotti storici e transitori.
In tale divergenza di visioni, forse solo la fotografia e il suo potere in qualche modo “oggettivante”, può svolgere un utile ruolo di mediazione. Pur se l’uso dell’obiettivo esprime sempre lo sguardo parziale dell’antropologo (Faeta, 2003), la fotografia assolve a uno scopo evocativo e documentario. Le immagini funzionano come un taccuino di appunti visivi da ripercorrere fuori dal campo visivo della ricerca. La loro utilità consiste nel far emergere particolari spesso sfuggiti nel farsi della ricerca, facendo leva su quel punctum barthesiano (2000) che orienta e stimola a nuove riflessioni.
Nell’agosto del 2013 fu organizzata a Iesa una mostra fotografica di un artista del luogo morto prematuramente. L’iniziativa costituì un’occasione fondamentale per ripercorrere da parte degli autoctoni il loro passato in tutta la sua dimensione nostalgica e, al contrario, un’occasione per gli alloctoni per rafforzare l’idea di luogo dove le feste di paese, l’intimità e la vicinanza di relazioni, la natura incontaminata e il cibo genuino costituivano la risposta al bisogno di fuggire dall’alienazione urbana.
L’esposizione di quelle immagini storiche ha visto partecipi tutti gli abitanti della comunità, vecchi e nuovi residenti, facendo leva su diversi tipi di nostalgia: quella interna, endo-nostalgia, dei nativi come rimpianto verso un passato vissuto direttamente e quella esterna, exo-nostalgia, dei forestieri verso qualcosa non esperita ma verso cui aspirano come un paradiso da recuperare. Quella mostra fotografica ha avuto un effetto rivitalizzante sugli abitanti di Iesa, grazie anche alla presenza di tanti forestieri che hanno offerto lo spunto per riflettere sulla propria identità. Lo sguardo esterno di chi è approdato in quel borgo è l’unico in grado di notare nelle immagini alcune particolarità del posto e della sua gente, di garantire un distacco e un’oggettività che non è possibile quando si è parte interna di quel mondo.
L’indagine sul campo condotta da Meloni si è conclusa, a fasi alterne, nel 2018. Quando, la scorsa estate l’autore è ritornato a Iesa, il paese era visibilmente cambiato. Molti dei suoi vecchi informatori non c’erano più e una serie di b&b e affittacamere riempivano le vie del centro storico. Numerosi agriturismi sorgevano nei dintorni. Nuovi pannelli fotografici e mappe del territorio richiamavano i turisti. Qua e là vecchie e nuove fotografie costituivano un ulteriore incentivo alla valorizzazione.
Il rischio è allora quello di un presentismo etnografico? – si chiede in conclusione l’antropologo. La fotografia documenta un mondo che nel frattempo non appartiene più ai vecchi informatori? Ma forse – potremmo aggiungere – è proprio quella sorta di compromesso etnografico, come Meloni stesso definisce il rapporto fra il ricercatore e l’immagine rappresentata, a fare emergere la continuità fra passato e presente, fra permanenze e mutamento, a restituire tutto lo spessore temporale delle esperienze vissute. Come dimostra il suo libro.
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
Riferimenti bibliografici
Barthes, R.
2000 La camera chiara, Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi
Clemente, Pietro
2023 Paesi, paesi, paesi, in “Dialoghi Mediterranei”, n.61, maggio 2023
Faeta, F.
2003 Strategie dell’occhio. Saggi di etnografia visiva, Milano, Franco Angeli
Geertz, C.
1998 Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino
Woods, M.
2007 Engaging the global country side: globalization, hybridity and the reconstitution of rural place, in Human Geography, 31, 4: 485 – 507
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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).
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