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Chi di rubbar non sa, non vada a mare …
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2022 @ 01:25 In Cultura,Società | No Comments
di Ninni Ravazza [*]
In questa storia non ci sono epigoni di Ermes, il dio dei ladri. Non di cinquanta vacche sottratte ad Apollo scriverò, né di audaci furti perpetrati nottetempo quando uomini e dèi hanno affidato la mente al sonno [1]. Abbandonata l’epica per una molto più prosaica cronaca di fatti minimi, modesti, condannati al ruolo di miserando corollario di grandi imprese, faremo un viaggio nel mondo ignoto ai più delle piccole furberie messe in atto da marinai e pescatori per approfittarsi di un granello di quella ricchezza che vedevano sfilare davanti ai loro occhi, sui vascelli delle tonnare o sulle tolde delle feluche armate a corallo, potendone solo percepire l’odore acre e desiderato.
Storie marginali ma che hanno fatto da corollario alla storia della marineria, tanto da fare dire al palermitano Marchese di Villabianca, acuto cronista del XVIII secolo, «chi di rubbar non sa non vada a tonni», a significare la valenza sociale ed economica per le classi subalterne dei piccoli furti commessi nelle tonnare: «… la turba tutta marinaresca […] oltre alla paga meritata dai lor sudori, credono spettargli per diritto d’antiquato abuso, e di nulla parte di cortesia che non conoscono i marinari, tutta quella robba che furtivamente e di soppiatto ai sguardi de’ custodi possono cattarsi» scrive in uno dei suoi Diari Villabianca, secondo il quale il trito motto prima riportato «quieta e serena in tutto e per tutto la giustamente commossasi loro coscienza» [2].
Coevo di Villabianca e anch’egli profondo osservatore del rapporto fra uomini e natura, ma nell’altra grande isola mediterranea sede di importanti tonnare, la Sardegna, anche l’abate Francesco Cetti nel 1778 scrivendo della pesca del tonno riserva intere pagine alla prassi del furto nelle tonnare: «… si può dire, che ognuno è ladrone alla tonnara […] Il furto non vi è una ignominia, né un delitto soggetto a pene: il rubatore colto col corpo del delitto soggiace solo a perderlo, né questo perde, se già il tiene dentro della baracca». C’era un patto tacito tra proprietari delle tonnare e tonnarotti, dice Cetti: «La mercede che il padrone accorda alla sua gente, per patto, non corrisponde alla fatica […] e perciò il padrone permette la ruba, sotto la condizione di non essere scoperta: e perciò come a cosa mezzo lecita non le si dà l’odioso nome di furto, ma si chiama semplicemente busca» [3].
Francesco Carlo D’Amico, duca d’Ossada, nobile siciliano che tra Sette e Ottocento fu proprietario di “ubertosi” impianti nel messinese e vero appassionato di questa pesca, conosce benissimo gli artifici messi in atto dagli operai per impossessarsi della parte più preziosa del tonno: «Alcuni Padroni di Tonnara per ovviare le frodi nel tagliare la sottile, e fare resultare un maggior prodotto delli scorcilli convengono, con li maestri di dar loro il 5 o il 6 per ogni cento barili di sottile, o in barili di scorcilli, o in denaro» [4].
Grosso Pescespada catturato nella tonnara del Secco, anni ’50 (ph. Valeria Plaja, dal libro “San Vito lo Capo e la sua Tonnara …”)
I furti di parti del tonno o di piccoli pesci “scamali” finiti tra le reti venivano chiamati “procacci” codificandoli e dunque quasi riconoscendone la liceità, o quantomeno assimilandoli a una prassi consueta e in quanto tale non censurabile perché rientrava nella “panatica” dei tonnaroti: «Li Musciari, che sono quelli, che assistono alli Rais, hanno per tutto l’intiero corso della pesca oncie 5 od oncie 5.15 e grani otto di pane il giorno franchi, e li furti chiamati da loro procacci», scriveva il duca D’Ossada nel suo “Osservazioni” [5].
Comportamenti siffatti presuppongono sempre un rapporto ravvicinato, “fisico” addirittura, tra modesto pescatore/marinaio addetto ai lavori più umili e produzione abbondante e ricca della pesca: in questo senso la prassi del “furto” assume un rilievo economico – ma anche letterario, come abbiamo visto – soprattutto in due pratiche alieutiche dove alla ricchezza del “padrone” fa da contraltare la miseria dei lavoratori, cioè la pesca del tonno e quella del corallo. Anche in altre circostanze nell’attività di pesca vengono registrati accadimenti simili, ma certamente senza la rilevanza economica (e pure sociale) che hanno avuto nelle due pesche “speciali” di cui parliamo (l’indebito appropriamento di piccoli pesci catturati con la rete o con la fiocina non intacca se non minimamente il valore del pescato).
Del corallo parleremo in una seconda parte dello scritto, qui restiamo nel mondo delle tonnare e dei tonnaroti attingendo le notizie da fonti documentali e narrazioni orali a riprova che a distanza di secoli, fors’anche millenni, a mare nulla si distrugge, tutto continua a scorrere pressoché identico a se stesso come se il tempo non passasse. Una cultura – in senso lato – che cresce stratificandosi, non cancellando ciò che c’è stato prima.
La “busca” nelle tonnare trapanesi
Il 1912 è un anno particolare per la tonnara del Secco a San Vito lo Capo, allora di proprietà della famiglia Foderà di Castellammare del Golfo, che possedeva anche l’impianto di Magazzinazzi e deteneva quote di quello di Scopello (tre delle quattro grandi tonnare del golfo, l’altra era Castellammare; i proprietari erano tutti imparentati fra loro).
Quell’anno spariscono non interiora o tagli di tonno, ma decine di chili di pesce “scamale”, quei pescetti senza squame (da qui l’appellativo) di valore minimo che pure finivano tra le reti ed erano destinati a premio per la ciurma dei tonnaroti (“aghiotta”), a regalìe o al mercato quando la quantità lo suggeriva. Un avvenimento davvero minimo che non avrebbe trovato spazio nella storia se don Nenè Bergamini, amministratore di casa Foderà, non lo avesse registrato con dovizia di particolari nel “Giornale” quotidiano della tonnara, che è arrivato fino a noi ed è diventato il cuore dell’unico libro dedicato a quell’impianto [6].
È il 5 maggio e fra le reti salpate all’alba finiscono 1.182 chili di “Sarelli” (Sugarelli), 20 chili di “Uope” (Boghe), 50 “Bisi” (Tombarelli); questi ultimi vengono regalati alla ciurma (30) e inviati come regalo a persone di San Vito (20). I Sugarelli e le Boghe vengono mandati a Castellammare del Golfo con una “mociara” della flotta, comandata da tale Leonardo Galante, per la vendita. Al tirar le somme, però, l’amministratore registra un notevole ammanco, e di questo chiede conto al comandante della mociara:
Non è semplice quantificare il danno finanziario per l’ammanco dei pesci perché nel Giornale di quell’anno non vengono registrati gli introiti dalla vendita del pesce minuto, tuttavia lo stesso amministratore due anni dopo, stagione di pesca 1914, indica il prezzo dei pesci scamali più o meno assimilabili ai Sugarelli e alle Boghe: in quest’anno le sarde vengono vendute a 0,55 lire al chilo, le acciughe a 0,75 lire (il tonno a 1,25 lire al chilo): al massimo, dunque, i 200 chili tra Sarelli e Uope avrebbero fruttato circa 110 lire.
I dispiaceri per l’amministratore Bergamini però quell’anno non si esaurirono nei pesciolini spariti. In tonnara è da sempre consuetudine eviscerare i Pescispada (delicati e preziosi) in barca, riservando al proprietario la “surra” (ventresca) che i tonnaroti del Golfo chiamavano “gola”: la carne della pancia che va dall’apertura anale alle branchie e che va tagliata sapientemente per non rovinare il pesce molto richiesto sul mercato (altrove, a Trapani e Bonagia per esempio, questa parte viene chiamata “ancidda”).
Il 15 giugno 1912 viene pescato un pescespada di 140 chili, le cui uova pesano oltre 15 chili; la “gola” viene mandata con una barca a Castellammare dove è consegnata al Padrone Leonardo Foderà, cui però perviene solo una piccola striscia di ventresca, e il giorno seguente addirittura si perdono le tracce delle “gole” di altri due Pescispada più piccoli del primo catturati in mattinata e inviate come di regola a Foderà, che per questo chiede conto al suo amministratore Bergamini che annota diligentemente tutto quanto avviene.
In questo caso non di guadagno sembrerebbe potersi parlare per la sparizione delle “gole”, ma piuttosto di una sorta di rivalsa di chi quel prodotto mai e poi mai se lo sarebbe potuto permettere, una sorta di smacco al “Padrone”.
I “procacci” di Allah
Tutto il mondo è paese. Fino agli anni ’70 del secolo scorso le tonnare di Libia (e Tunisia) erano di proprietà italiana, e italiani erano i rais e i capibarca mentre buona parte della ciurma era araba. Tonnare estremamente pescose, ciascuna con caratteristiche proprie, alcune pescavano non molti tonni ma enormi, altre tanti ma più piccolini. Il comune denominatore era la grande quantità di pesci “scamali” catturata, soprattutto Palamiti e Alletterati ma anche Alalunghe, tunnìdi dal peso di 5, 10 e più chilogrammi. Migliaia di esemplari che venivano in piccola parte venduti in fresco ma primariamente inscatolati ed esportati in Italia. Una ricchezza complementare per gli imprenditori che nella voce “catture” inserivano a pieno titolo questi pesci.
Dal 1962 al ’65 Pio Solina, capobarca del rais di Bonagia Mommo Solina col quale costituiva una delle coppie di tonnaroti più famose dell’intero Mediterraneo, andò a lavorare nelle tonnare libiche del Principe di Paternò, a Zanzur e Marsa Thela; lui stava sempre sulla barca dei rais che ne apprezzavano la competenza e anche la grande capacità di mantenere i rapporti umani con la ciurma, fossero i tonnaroti italiani o arabi. Questi ultimi in occasione di ricche pescate di pesci scamali solevano portarsene il più possibile a casa, e per farlo li nascondevano nei larghi pantaloni legati alla caviglia; alla conta finale veniva a mancare così qualche decina di chili di Tombarelli, Alalunghe e Palamiti. Poca cosa di fronte alle migliaia che se ne pescavano, ma non tutti i rais tolleravano questa usanza, un po’ per fedeltà al padrone e un po’ per affermare la propria autorità.
Uno degli anni in cui Pio Solina lavorò in Libia, nella tonnara di Zanzur fra le reti finirono migliaia di Palamiti, pesci da 10 chili in media, tanti da fare delle mattanze solo per loro; rais era il favignanese Giuseppe Rallo, estremamente rigido quanto a regalìe alla ciurma. Già una prima volta aveva risposto picche alla richiesta di mangerìa da parte dei tonnaroti arabi e questi gliel’avevano giurata. La volta successiva nella camera della morte finirono più di 500 Palamiti enormi, tutti di peso superiore ai 10 chili, e anche in quella occasione la ciurma chiese di approfittare di questa ricchezza invitando il rais a «girare la faccia a tramontana» (guardare dall’altra parte mentre loro si dedicavano al piccolo furto), ma il rais Rallo fu ancora irremovibile: «con me non si tocca niente!». Al ritorno a terra però, stranamente, sembrava che le barche stessero per affondare per quanto erano basse di bordo e lo stesso rais Giuseppe Rallo si interrogò sul possibile motivo pensando che gli scafi fossero pieni d’acqua. Cosa avvenne in realtà lo racconta Pio Solina che un paio di Palamiti li avrebbe voluti per mangiarli con gli altri capibarca siciliani:
Il semplice furto delle “tracchie” di un paio di tonni, l’ammasso di grasso e spine alla base delle pinne pettorali del pesce, scarto senza mercato solitamente riservato agli uomini di fatica addetti allo sventramento, a volte è costato il licenziamento ai “malfattori”.
Negli anni ’70 del secolo trascorso don Nino Castiglione, proprietario della omonima ditta trapanese di trasformazione del pescato e della tonnara di Bonagia, negò le tracchie dei tonni che aveva acquistato a Favignana ad alcuni operai che le avevano chieste dopo avere trasportato i pesci allo stabilimento: «si regalano le cose avute gratis, queste le ho comprate e pagate» disse per motivare il diniego. Da lontano però si accorse che due operai avventizi avevano nascosto quattro “tracchie” nella loro auto e l’indomani quando questi si presentarono al lavoro li mandò a casa, licenziati in tronco. Castiglione era solito fare generosi regali ai suoi lavoratori, ma in ditta non tollerava alcun tipo di furto, procaccio o busca che fosse [10].
Perseo il ladrone
Fin qui le piccole ruberie operate in tonnara, che hanno avuto risalto letterario essendo inserite in un contesto socio-economico molto rilevante, investigato da antropologi, biologi, economisti, storici e quant’altro. C’è però un’altra attività alieutica ove il furto è stato ampiamente praticato soprattutto negli ultimi cinquanta, sessant’anni: la pesca del corallo effettuata dai sommozzatori in grado di raccogliere rami del valore anche di milioni di lire (oggi migliaia di euro) ciascuno. Riuscire a trafugare uno solo di quei rami, o frammenti dei rami più grossi, ha significato incrementare notevolmente il guadagno dell’approfittatore che solitamente è stato un marinaio o l’armatore della barca corallina, senza escludere neppure gli stessi sommozzatori corallari che in qualche caso rubavano al compagno di pesca il frutto delle immersioni.
In questo caso non ci sono documenti atti ad ufficializzare quella che non era una prassi ma un furto bello e buono, ma tante testimonianze orali raccolte qui e là nei porti e sulle barche, alcune delle quali potrebbero acquisire entro breve tempo dignità letteraria con la pubblicazione delle memorie di chi ha vissuto in prima persona alcuni degli avvenimenti che di seguito si narrano, e che fino ad oggi sono del tutto inediti.
Per meglio comprendere le dinamiche in cui si sono registrati i casi oggetto di queste narrazioni, va ricordato che all’inizio (metà anni ’50) i sommozzatori corallari venivano portati sul luogo di pesca con le loro barche da marinai che in precedenza avevano trovato fra le reti i rami di corallo di cui sconoscevano il valore; successivamente molti corallari si sono dotati di comodi motoscafi sui quali imbarcavano uno o più marinai per l’assistenza e i lavori di fatica (ricarica delle bombole, cucina etc.); in alcuni casi, come nella pesca nei mari del Maghreb (Tunisia, Algeria, Marocco), i sommozzatori erano obbligati a fare società con armatori locali, unici abilitati a rivendere il corallo. In tutte queste circostanze si registrava una notevole differenza nei guadagni: marinai e pescatori erano pagati “alla parte” (10-15 per cento del ricavato) con in più a volte un minimo di stipendio fisso, agli armatori andava una percentuale del ricavato o del prodotto. Chi guadagnava più di tutti era il sommozzatore corallaro, che però si assumeva tutti i rischi di un’attività altamente pericolosa, con immersioni che spesso andavano oltre i 100 metri di profondità (e infatti i morti nella categoria si contano a decine). Resta il fatto che la ricchezza prodotta anche da un solo ramo di corallo era un miraggio per chi se la vedeva passare tra le mani lasciandogli solo le briciole [11].
La barca delle donnine nude
Paolo Bencini e Giovanni Maianti hanno formato per decenni una delle coppie più famose di corallari italiani; livornesi entrambi, hanno pescato in tutto il Mediterraneo raccogliendo migliaia di preziosi rami di corallo. Negli anni ’70 lavoravano nei mari di Carloforte dove la mattina spesso incrociavano la barca di Carlo D. con a bordo bellissime ragazze che preferivano prendere il sole della Sardegna senza alcun tipo di costume. Al di là della piacevolezza dell’incontro, i due corallari si chiedevano perché il collega si portasse sempre dietro alcune ragazze, che magari gli facevano ritardare l’uscita dal porto rifiutando di svegliarsi all’alba, e una sera a cena lo chiesero al diretto interessato; la risposta fu semplicissima: «con loro a bordo il marinaio non può rubarsi il corallo mentre io sono in decompressione, sott’acqua appeso alla cima della barca».
La tentazione era certamente forte: la mancanza di uno o due rami di corallo per ogni immersione difficilmente sarebbe stata scoperta dal sommozzatore, ma avrebbe regalato un notevole guadagno al marinaio che da solo poteva nasconderli tra le sue cose e poi portarseli a terra. Ovviamente i marinai infedeli erano pochi, e spesso i sodalizi col corallaro sono durati decenni creando sincere amicizie resistenti agli anni e all’usura di un lavoro difficile e pericoloso.
Sul “Rob”, un grande yacht che andava sul banco Scherchi [12] per la pesca del corallo, una volta si ritrovarono alcuni dei migliori sommozzatori italiani che avevano fatto società portando con loro anche i marinai precedentemente imbarcati sulle rispettive barche, nell’occasione lasciate in porto. Un giorno mentre erano in navigazione verso Trapani, dopo una lunga bordata di pesca, Sandro il proprietario della barca chiamò Salvatore, il marinaio che Paolo Bencini si era portato dietro, e lo invitò ad andare a prendere quel “pacchetto” che teneva nascosto sotto il materasso; il ragazzo barcollò, divenne tutto rosso ma alla fine fu costretto a obbedire e tornò in plancia con un sacchetto pieno di preziosi rami rossi. Li aveva sottratti dai coppi dei corallari messi ad asciugare … a denunciarlo era stato Manlio, l’altro marinaio da tempo imbarcato sul “Rob”, che lo aveva visto traccheggiare nottetempo. Salvatore giurò e spergiurò che lui non aveva fatto nulla e che qualcuno gli aveva giocato un pessimo scherzo ma nessuno gli credette e al ritorno a terra venne mandato via. Bencini si ricordò allora delle tante volte che il marinaio appena tornato a terra si eclissava dicendo che andava in lavanderia con la roba sporca … ora scopriva che tra i panni portava via anche la sua “busca” di corallo! «Chissà quanto corallo ha rubato a me e Giovanni Maianti mentre noi eravamo sott’acqua e lui da solo in barca», mi dirà raccontandomi quei fatti.
Quei rami venduti due volte
Raimondo passeggiava per le strade di Biserta senza un impegno preciso. Il mare era agitato e non si poteva uscire per la pesca del corallo che all’inizio degli anni ’80 era ancora abbondante nei mari di Tunisia. Con Sergio sommozzava sulle alte falesie sommerse dell’isola Galite dove a cento e passa metri i rami preziosi erano lunghi ed eleganti come le dita di un pianista, e di colore rosso sangue come la linfa vitale che ci attraversa il corpo. Alcuni rami particolarmente belli li portava a mente, ricordava perfettamente quando con la piccozza li aveva staccati dalla roccia e aveva sentito il loro suono cristallino mentre cadevano nel coppo. Quelli, i più grandi e belli, non li avevano consegnati alla guardia della dogana addetta alla pesatura del corallo, lui e Sergio se li erano nascosti a casa chiusi in uno scatolone occultato tra l’attrezzatura, se li sarebbero portati dietro al ritorno in Italia e li avrebbero venduti come fossero d’oro.
A quei rami meravigliosi pensava quando passò davanti alla migliore gioielleria di Biserta che ne esponeva in vetrina di altrettanto belli, quasi uguali, anzi identici … entrò come una furia e chiese al gioielliere chi glieli avesse venduti. «Come, non lo sai? il tuo compagno di pesca, Sergio» rispose l’uomo, che era pure proprietario di barche armate a corallo. Raimondo corse a casa, aprì il pacco e ci trovò solo pochi rami di dimensioni minori. Raggiunse Sergio nell’albergo dove assieme ad altri corallari italiani stava guardando in tivù la partita dell’Italia contro il Brasile – era il 1982 – e lo afferrò per il collo giurando che glielo avrebbe staccato se non avesse recuperato tutti i “loro” rami di corallo. Il compagno di pesca, che da allora diventò “ex”, si fece prestare un po’ di soldi dagli altri corallari (i suoi li aveva spesi tra cene e safari) ma non riuscì a ricomprare tutti i rami che aveva venduto e Raimondo si dovette accontentare del poco recuperato. Qui non c’entravano i marinai né i pescatori, il furto lo aveva perpetrato un sommozzatore ai danni di un altro sommozzatore col quale condivideva i pericoli dell’immersione profonda.
Il corallo evaporato
Paolo Bencini ha pescato anche in Algeria, terra difficile per mille motivi. Lì i sommozzatori stranieri dovevano fare società con un armatore locale se volevano lavorare. Ne valeva la pena perché il corallo era tanto e di ottima qualità, ma ogni cosa a mare ha il suo prezzo …Con l’armatore Hassim il corallo pescato a El Kalle veniva pesato attentamente dopo averlo asciugato, poi conservato in cartoni che venivano sigillati e portati a casa dell’algerino; dopo la pesa i due si dividevano i biglietti col numero delle scatole e il peso del corallo in ciascuna di esse. Capitava ogni volta, però, che arrivati ad Algeri per la vendita da ogni scatola mancassero quattro o cinque chili di corallo, per un totale di venti, venticinque chili a partita. «Il corallo non ha le ali per volare» si lamentava Paolo, ma ogni volta era la stessa storia, Hassim faceva spallucce e l’italiano doveva fare buon viso a cattivo gioco. Era il prezzo da pagare.
Infine, una storia piccola piccola vissuta personalmente. L’anno 1979 ho pescato il corallo sul banco Scherchi con un bellissimo motoscafo messoci a disposizione da Cesare Cozzolino, un importante commerciante di Torre del Greco; con noi (al comando Rudy, poi io Giovanni e Mimmo) c’era un marinaio di nome Gianni, bravissimo e bellissimo tanto da fare strage dei cuori delle ragazze che passeggiavano per la marina di Trapani. Il suo stipendio era di 500 mila lire al mese, più un regalino in caso di pesca buona. A ciascuno di noi Gianni raccontò della madre malata, del suo bisogno di soldi per curarla, del suo desiderio di regalarle un ramo di corallo prima che morisse … ci chiamava in disparte ben attento che altri non sentissero e si raccomandava di non dire nulla perché si vergognava a chiedere.
Noi tutti gli regalammo dei soldi extra, e anche qualche bel ramo di corallo, finché il capitano Rudy, che era pure suo parente, non ci chiamò e ci chiese se avessimo per caso fatto dei regali al marinaio. Presi di sorpresa rispondemmo di sì “perché poverino …”. Poverino un corno imprecò Rudy, che ci rassicurò sulla salute della mamma di Gianni e ci domandò se avessimo capito perché ogni volta che tornavamo in porto il ragazzo se ne corresse a terra portando con sé una borsa di “roba da lavare”. Il giorno dopo Gianni si ritrovò sbarcato, con le valigie gettate sul molo. Una ragazza che passava da lì, chiaramente impietosita, lo invitò a salire sull’automobile, e da allora non ho mai più avuto sue notizie.
Miseria e nobiltà
Le “storie” riportate, a cui si potrebbe aggiungere la perquisizione sulle donne che negli anni ’50 lavoravano in una grande industria ittica trapanese e che spesso si portavano a casa nascosti tra le vesti o nelle calze sgombri e scatolette di tonno, narrano dell’eterno scontro fra capitale e lavoratori, in questo caso traslato in una realtà dove comunque la “industria” è ben diversa dalla “fabbrica”, qui il “padrone” ha i vestiti macchiati dal sangue dei tonni squartati o è il capitano di una barca acquistata passando le notti a tirare le reti cariche di sarde e acciughe che impregneranno per sempre la sua pelle, nel migliore dei casi è un uomo che rischia la vita sommozzando a profondità abissali. Sempre, comunque, c’è da una parte la ricchezza (tonni o corallo) e dall’altra l’indigenza dei semplici lavoratori cui non resta che il ruolo di spettatori. In realtà questi ultimi rischiano ben poco non essendo cointeressati negli investimenti (industria o barca o reti) e non affrontando le impegnative immersioni alla ricerca dell’oro rosso.
Sono storie che non fanno la storia, perché diversamente da tante altre legate al mondo del mare nulla hanno di epico, di romantico, di affascinante. Se nei rais che si affidano in silenzio al loro Dio per una buona pesca si può riflettere l’omerico Achille che da solo vede e parla con la Dea Atena [13], e nei sommozzatori corallari che scendono negli abissi si può riconoscere l’eroe sumerico Gilgamesh che si immergeva nell’Apsu per raccogliere la pianta dell’eterna giovinezza [14], nei tonnaroti che rubano le tracchie e nei marinai che trafugano frammenti di corallo scorgiamo solo l’incapacità dell’uomo di elevarsi al di sopra del ruolo che la società gli ha assegnato al momento della nascita.
O, chissà, è invece proprio questa dicotomia a spiegare la storia. Nino Castiglione era figlio di un modesto rigattiere ed è diventato un grande capitano d’industria; Paolo Bencini da ragazzo faceva il fornaio ed è diventato uno dei più famosi corallari. Persone dalla mente “colorata” [15]. Il Mare ancora una volta si rivela uno straordinario contenitore in cui gli uomini intrecciano le loro vite che poi prenderanno ciascuna la propria sliding door, un ineguagliabile creatore di storie in cui dunque possono rientrare anche quegli avvenimenti marginali che abbiamo narrato e che ad una prima valutazione appaiono “non storia”.
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