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L’ethos civile. De Martino e i movimenti per riabitare le aree marginali
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2023 @ 02:11 In Cultura,Società | No Comments
CIP
di Pietro Clemente
Di recente ho presentato il libro intitolato De Martino e la letteratura [1] e in quell’occasione mi è venuto alla mente il periodo in cui, nella prima metà degli anni 60, Ernesto De Martino insegnava a Cagliari, dove ero studente di filosofia. Mi sono ricordato dei dialoghi e delle discussioni sui riti che intrattenevamo tra noi giovani studenti e militanti politici che immaginavamo (forse sognavamo) forme etiche di un nuovo futuro. De Martino proponeva allora di opporre ai tradizionali riti, religiosi o folklorici, nuovi ‘riti civili’. Pensava ad una ritualità emancipata dalle eredità del passato, costruita nel rispetto e nell’uguaglianza degli individui ma al tempo stesso capace di innestarsi sulle nuove forme istituzionali di quella società di uguali cui aspiravamo.
De Martino sosteneva che se anche ci fossimo liberati della ritualità coatta legata alla sfera del religioso e del magico e avessimo affermato nuove idee di società libera basata sull’uguaglianza, il rapporto morale e il vincolo di sincerità e di responsabilità non sarebbe comunque bastato per accogliere la nascita di un figlio o per unirsi in matrimonio: i riti civili avrebbero dovuto essere in qualche modo i demarcatori di una nuova società regolata. De Martino ne accennava in un articolo dedicato al Simbolismo sovietico [2] dove rifletteva su una religione civile che risentiva però ancora del pensiero di Benedetto Croce [3].
Questi temi erano appassionanti per noi ventenni che seguivamo la ricerca di De Martino e delle sue idee. Forse la lettura più importante con cui accoglievamo quei temi era quella dell’umanesimo del giovane Marx. Ci fu di ispirazione una lezione sulla sinistra hegeliana fatta da Cesare Vasoli, filosofo medievista (e non solo), in cui si era anche parlato del programma di Gotha e dell’idea del comunismo. Nemmeno per un attimo avevamo preso in considerazione la ‘dittatura del proletariato’, proposta da Lenin come fase dura e necessaria di passaggio, attraverso il socialismo, alla fase ultima della storia dell’umanità liberata. Se ne parlava all’Università e nella sezione del PSIUP di Cagliari della quale fui segretario tra il 1965 e il 1967. Tra noi prevaleva l’idea espressa da Giovanni Jervis, lo psichiatra che allora collaborava alla ricerca di De Martino sul tarantismo, che sosteneva che i riti civili non erano abbastanza ‘comunisti’ e che l’umanità emancipata dal profitto avrebbe fatto a meno totalmente dei riti, resti arcaici del passato, per accedere a modalità più semplici e immediate di rapporto umano.
Che c’entra tutto questo con zone interne, SNAI, spopolamento, PNRR? Perché connetto ad essi questi antichi pensieri?
Da tempo sento difficile trovare unità, armonia, confluenza in un progetto comune, all’interno delle diverse esperienze di ‘riabitare l’Italia’ che vengono raccontate nelle pagine del Centro in Periferia, e che stanno nella pratica del lavoro sociale e di ricerca di varie associazioni. È vero che abbiamo anni di dibattiti, dialoghi, incontri, il riferimento alla Società dei Territorialisti, con il modello proposto da Alberto Magnaghi ne Il principio territoriale [4], abbiamo il lavoro dell’editore Donzelli con l’Associazione e la collana sul Riabitare l’Italia, abbiamo la SNAI, le sue storie e le sue teorie di riferimento. Ma è anche vero che tra movimenti ecologisti, iniziative del ritorno, agricolture contadine radicali e non, diversi modelli di sviluppo di turismo, sembra mancare ai soggetti sociali attivi una idea comune di futuro e un quadro di riferimento possibile sui temi del Riabitare l’Italia.
Uno dei tratti più rilevanti che accomunano le ricerche degli antropologi sulle comunità marginali è la rilevanza delle feste religiose e di quelle del ciclo carnevale-quaresima. I gruppi organizzatori, spesso confraternite o comitati locali di festaioli, talora pro-loco, sono veri e propri agenti di radicamento e di ritorno. Già nello studio di Gianluigi Bravo sul Venerdì Santo a Belvedere Langhe [5], veniva evidenziata la costruzione di una festa identitaria di ritrovo e di investimento collettivo. Ma oltre alle feste tradizionali, ci sono le rievocazioni storiche, le sagre legate ai cibi, le forme di teatro collettivo.
Voglio segnalare che da trent’anni nell’area della Montagnola senese un gruppo di canto, di formazione antropologica, ha riproposto la ritualità del maggio che si sposta per le case la sera del 30 aprile per annunciare la nuova fase dell’anno [6]. I falò cerimoniali e il loro uso simbolico come forma rituale sono presenti qua e là nella scena, oltre che come rito di memoria dell’emancipazione religiosa delle Valli valdesi del Piemonte, essi sono perfino entrati in una riflessione di Zero Calcare su possibili simbolismi di condivisione entro una cultura critica e controcorrente [7]. Tutto questo fa pensare al bisogno di orizzonti simbolici comuni. Un bisogno che può essere il volano di nuovi innesti e di nuove alleanze. Alleanze che comprendano la dimensione dell’accoglienza ai migranti in forme che condividano anche i loro mondi simbolici di riferimento. Nei contesti delle zone interne, i migranti, che sono i nostri nuovi lavoratori, sono raramente al centro degli scenari SNAI e del riabitare mentre sono invece oggetto di accoglienza da parte di reti più legate al mondo religioso e alla Chiesa cattolica [8]. Forse nuovi ‘blocchi storici’ possono realizzarsi tra pensiero laico e socialità religiosa, tra tradizione e innovazione, tra memoria e accoglienza di nuove prospettive.
Prendo a riferimento le pagine di De Martino sul simbolismo sovietico [9] dove viene delineata una sorta di bisogno simbolico:
Per De Martino questa prospettiva può non essere religiosa e deve sollecitare la creazione di «un simbolismo nuovo, conciliabile con la raggiunta coscienza umanistica e con il sempre più intimamente vissuto ‘senso della storia’» (ivi: 249) [10] .
L’idea di uno storicismo integrale, legata all’opera di Antonio Gramsci ma anche alla tradizione crociana, diventa una forma di simbolismo, di patto tra uomini, basato su una piena coscienza storica.
Nella dimensione del ‘riabitare’, mi pare che spesso si privilegino gli aspetti economici e sociali e non quelli di comuni orizzonti ideologici, nel senso di concordate, contrattate, condivise prospettive simboliche.
Prendendo ad esempio il momento del ritorno al paese, la centralità delle manifestazioni religiose o comunque identitarie tende ad essere vista come poco importante, mentre è fondamentale, in quanto mantenimento di un rapporto, di un possibile innesco di ritorno stabile al paese, di forme di tessitura di nessi simbolici tra città e paesi.
Colpisce nel leggere e rileggere le pagine di Sud e magia di De Martino la ricchezza di forme simboliche rituali di cui erano pieni i paesi poveri e dolenti che attraversava. Sono momenti che mancano a noi oggi, e che per De Martino erano l’occasione per pensare a un ethos civile, una religione civile, un simbolismo civile, a riti di fondazione e di memoria che potessero caratterizzare l’orizzonte del dopo e del nuovo. Anni fa Bruce Lincoln scriveva che la forza che crea l’azione collettiva è legata alla dimensione mitica [11], convinzione questa assai vicina a quello che De Martino riferisce al simbolismo e ai riti.
Scenari
Il centro in periferia n.62 si apre nella memoria dei fatti dell’Emilia Romagna e dentro l’acqua delle sue tragiche alluvioni. Viene dall’EcoMuseo delle Erbe palustri di Villanova di Bagnacavallo (Ravenna) l’iniziativa di progettare in rete in funzione dei servizi al territorio e di un uso contemporaneo e attivo della memoria (testo di Maria Rosa Bagnari). Da questo ecomuseo nasce la capacità di attivare progetti in area fluviale lungo il Lamone che unisce la Romagna toscana (per un tratto in provincia di Firenze) al mare. L’ecomuseo non è stato coinvolto direttamente nell’alluvione che ha colpito la Romagna, ma è impegnato a partecipare alla lotta per ritrovare l’equilibrio territoriale. Una foto, tra le molte, mostra fin dove è arrivata l’acqua nelle case del paese.
Di recente il Mediterraneo è stato colpito da terremoti, alluvioni, stragi di migranti. Calamità quasi bibliche così frequenti e dolorose da avere prodotto in noi una sorte di assuefazione, di dimenticanza preventiva. Abbiamo già smesso di piangere i morti, di compatire chi è andato in rovina e di commuoverci per i giovani ‘angeli del fango’ che si sono raccolti nelle zone alluvionate per dare una mano ad asciugare quel mare di fango. In Emilia non è stato ancora nominato un Commissario per la ricostruzione: è argomento di contenzioso tra i politici. Quel mondo di agricoltura avanzata e irrigua, ora annegata nella melma, era e tornerà ad essere uno dei fattori del modello emiliano. Modello che, anche se presenta alcuni squilibri, è comunque elemento importante di connessione tra mare e montagna, tra pianure e colline piene di iniziative produttive.
In occasione di una visita a Ravenna, forse trent’anni fa, mi capitò quasi per caso di visitare l’ecomuseo delle Erbe palustri di Villanova di Bagnacavallo. Mi colpì molto la laboriosa attività del Museo: vi erano anziani che facevano sedie intrecciando le erbe, mentre altri ne insegnavano la tecnica ai giovani, si vendevano oggetti fatti sul posto e si coglieva una grande apertura alla riflessione ecologica. Fu una scoperta per me vedere rappresentata la memoria del Novecento cui il museo si riferiva. Venivano ricordate industrie locali di produzione di serrande, finestre, canestri, cesti di ogni tipo, suppellettili di uso domestico prodotti con le erbe palustri, oggetti che sarebbero poi stati sostituiti nel tempo dalla plastica. Nel museo era già inscritta la linea di ritrovare saperi pratici utili al presente.
Più tardi, un gruppo di ricercatori dell’Università di Firenze tornò per una ricerca europea sull’uso delle erbe. Sono passati almeno 20 anni e ora il museo è più compatto, forse un po’ più concluso sul piano museale, ma ancora molto vitale. La sua presenza in queste pagine è un bel ritorno, benvenuto nella nostra scena di antropologi, studiosi di musei ma anche progettatori di sviluppo delle aree interne.
Un altro mondo ecomuseale col quale da molti numeri condividiamo racconti di iniziative e di analisi dell’attività di buona pratica di rete è quello degli ecomusei piemontesi (di Elisa Arecco). Nei musei presenti in rete tra le province di Alessandria e Asti colpisce la varietà dei paesaggi e il modello di unità-diversità che viene praticato:
A questo proposito nelle pagine di un supplemento toscano de La Repubblica (Green &blu, 22 giugno 2023) Mauro Agnoletti [12] ricorda che «quando si parla di innovazione in agricoltura anche rispetto al cambiamento climatico bisogna spesso intendere il ritorno alla tradizione…al recupero del nostro stesso modello agricolo, di tante pratiche resilienti che già conosciamo».
Quindi gestione del suolo, muretti, prode, tutto quel che ha caratterizzato il paesaggio toscano è un’ancora di salvezza per il futuro. Sempre nel suddetto supplemento viene trattato il tema del PNRR constatando che è per ora difficile capire se queste risorse saranno importanti, se non decisive, per la rinascita delle zone interne.
A questo punto risulta evidente il nesso con lo scritto di Letizia Bindi su Castel del Giudice, un paese del Molise, che opera per la realizzazione di un progetto di ‘rigenerazione’ – termine interessante per il lessico del ‘riabitare’ – nel quadro del bando ‘Borghi’. Il testo parla di buone pratiche e di buoni progetti che, in questo caso, hanno al centro un Comune e il suo sindaco. Sarà interessante seguire la realizzazione di questo progetto in una nuova dimensione comune dello spazio appenninico nel quadro del PNRR
Questi tre punti sono importanti nell’equilibrio del progetto, e si ha la forte sensazione che, se mancasse qualcuno dei tre, sarebbe difficile affrontare squilibri e deformazioni nella rinascita territoriale.
Memorie come risorse
Queste parole di Nicola Grato fanno da ponte tra i diversi contributi a Il centro in periferia. Qui viene esplicitata l’idea di una innovazione che si lega alla tradizione di cui abbiamo appena accennato. Ritrovare le esperienze incorporate e poi obliate, trovarle nella memoria delle persone e negli oggetti, nei cicli agricoli presenti nella documentazione dei musei, è quel che si poterebbe definire l’interfaccia per una nuova cultura delle aree interne e neocontadine. Le ‘umane dimenticate istorie’ di una pagina di Ernesto De Martino [13] restano una guida metodologica per la ricerca e per operare dall’esterno nei luoghi del riabitare. Cito:
In queste parole vi è l’idea di essere attivamente insieme nella storia, idea quest’ultima che ci sembra di avere perduto.
Sono gli stessi temi che, in una diversa coniugazione, vengono proposti dallo scritto di A. Ciuffetti e T. Cerquiglini che riferiscono sul Convegno di Soveria Mannelli, legato al tema del lavoro, tra passato e presente e al tema dell’Appennino come colonna portante di unione e non di separazione tra Nord e Sud.
Memorie del lavoro, del paesaggio, delle vite passate che hanno attraversato i luoghi e li hanno connessi col mondo, sono anche al centro della museografia non solo etnografica (religiosa, militare, contadina). In un testo (di Nicolò Atzori) su alcune collezioni museali di Sanluri, paese della grande pianura irrigua del Campidano, la vita degli oggetti si fa protagonista. L’autore incontra le collezioni nella loro pluralità oggettuale ricordando la complessità dei tempi, dei luoghi, delle memorie che esse consentono di rammemorare. È il mondo delle cose materiali, visive, che suscita e si arricchisce di racconti. Una occasione per ridare credito ai musei come agenti del ritorno di un buon passato ricco di proposte per il futuro.
Il tema dei nuovi vissuti del mondo dei paesi si presenta anche nella forma del ‘ruralismo’, che spesso è legato a ideologie urbane semplificatrici, connesse a quell’idea di ‘borgo’ che di recente abbiamo criticato. Questa forma del vivere è al centro di una riflessione di Orietta Sorgi che commenta il libro di Pietro Meloni Nostalgia rurale [14]. Una riflessione che suggerisce uno sguardo lungo sulla stratificazione di progetti e di pratiche di ritorno alla terra avvenuti negli ultimi 40 anni. Aiuta a vedere la complessità del mondo delle aree interne, delle agricolture contadine, dello sviluppo locale che, col passare delle generazioni, si è manifestato: i ritorni ideologici degli anni 70 e 80 (le comuni, le agricolture radicali), i nuovi ritorni di giovani che arrivano dalle città o dall’estero sulle orme dei nonni, i nuovi insediamenti, per lo più costanti nel tempo, di case di campagna per la domenica o per la villeggiatura, o anche il pendolarismo con la vita urbana. La sensazione che ne emerge è che il movimento del riabitare sia ancora in una fase di processo e mescolanza di progetti, un ‘coacervo’ di esperienze diverse. Questo può forse anche essere un tratto positivo se è possibile accogliere la pluralità, trasformarla in reti, e orientarla in una grande direzione comune. Cito di nuovo il testo di Ciuffetti e Cerquiglini:
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Pietro Clemente
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