A cosa serve una rivista culturale se non a promuovere riflessioni, dibattiti, confronti su temi e questioni dell’attualità, ad avanzare proposte e sollecitare soluzioni, a privilegiare il dialogo tra idee, visioni e posizioni diverse? E a che serve il dialogo – inteso come metodo e come fine, stile etico e habitus civico, metafora cognitiva e paradigma antropologico – se non a mettere insieme voci e sensibilità dissonanti, mondi lontani e opposte ragioni, a praticare l’esercizio del dubbio, dell’interrogazione, della ricerca? A questo serve il nostro piccolo progetto editoriale, a mettere in comune quanto è in apparenza incompatibile, a mettere al centro quanto è periferico, a connettere senza fondere e confondere categorie, generi, discipline e saperi. A collocare il noi in mezzo agli altri in un tempo che celebra il trionfo dell’io. A riappropriarci in fondo della lezione di Giovanbattista Vico che invitava ad «osservare tra lontanissime cose i nodi che in qualche ragione comune le stringessero insieme». Una lezione di strutturalismo ante litteram.
I nodi sono i luoghi di coagulo della frammentata costellazione dei segni, i punti di incrocio e di rammendo nella faticosa tela del conoscere, i nessi che rendono spesso visibile l’invisibile, intelligibile l’imprevedibile. I nodi sono quelli su cui questa rivista si è impegnata a promuovere e favorire sconfinamenti e ragionamenti, contaminazioni e dialoghi tra autori e studiosi di scienze e posture intellettuali diverse. Un nodo cruciale, critico e nevralgico – quasi un nodo scorsoio – che fin dal primo numero ha attraversato e intrecciato pluralità di approcci e di orizzonti è in tutta evidenza il grumo di questioni riconducibili al fenomeno delle migrazioni, crocevia di discorsi, prisma di sguardi e di letture trasversali.
Intorno al caso Saman Abbas, la giovane italo-pakistana vittima nella scorsa primavera di un efferato crimine maturato in famiglia per aver rifiutato un matrimonio combinato, si è sviluppato, dopo l’intervento fortemente critico di Antonello Ciccozzi (vd. n. 51), un intenso dibattito che vede in questo numero i contributi di tre giovani antropologi (Accardi, Cordova, Sorce), di due eminenti sociologi delle religioni (Cipriani, Pace), di un filosofo (Biuso), di un arabista (Nicosia) e di uno storico delle dinamiche migratorie (Aledda). Un’ampia antologia di punti di vista diversi che offrono il quadro delle possibili opzioni interpretative, aiutandoci a capire le ambiguità di denominazioni e concetti utilizzati, la complessità delle implicazioni culturali connesse, la necessità di superare le semplificazioni e gli schematismi delle corrive logiche manichee e dicotomiche che tendono a assolutizzare e reificare ragioni, posizioni, pregiudizi, presunzioni, fino ad alimentare polarizzazioni e fallaci valutazioni che da una parte colpevolizzano tout court l’islam e dall’altra lo scagionano pregiudizialmente. Tanto più che l’oggetto di cui si discute investe piani di realtà umane e antropologiche così mobili e densi di relazioni e reciproche compenetrazioni che non è possibile assumere alcun atteggiamento assertivo o aprioristico senza precipitare nelle trappole delle sperimentate e funeste teorie dei presunti scontri di civiltà: «retorica aiutando e spirito critico mancando», direbbe Leonardo Sciascia.
Gli autori – chi in piena empatia con Ciccozzi, chi in aperto o parziale dissenso – ragionano sul ruolo delle istituzioni pubbliche e delle norme giuridiche, sulla forza di influenza della shari’a nei modelli mentali e comportamentali dei migranti musulmani, sui fallimenti e sulle insufficienze del rozzo multiculturalismo, sulle molteplici variabili che intervengono nei percorsi e nei destini delle seconde generazioni. Criticano le inadeguatezze delle politiche di gestione dell’immigrazione ma anche le doppiezze o le reticenze del politically correct. Sottolineano l’importanza di ampliare lo sguardo sui Paesi di provenienza, sui contesti da cui muovono le diaspore, su storie, sistemi locali e regimi di vita delle comunità arabe. Discutono infine se è prevalente il processo di islamizzazione dell’Europa o piuttosto quello di europizzazione dell’islam. Tra xenofobia e xenofilia le giovani figlie di migranti come Saman sembrerebbero essere vittime di quanti finiscono con l’oscurare o negare ogni principio di realtà a favore di preclusioni etnocentriche o astrazioni ideologiche.
A guardar bene, il dibattito promosso sul “Dopo Saman” è oggettivamente connesso con quello già avviato da più settimane sulla cittadinanza e sulla legge di riforma e rilanciato anche in questo numero. Non comprendiamo probabilmente le storie di questi “nuovi italiani” con tutte le criticità dei casi specifici se continuiamo ad ignorare quanto di noi e dei nostri modi di vivere e di pensare è già parte sostanziale della loro vita, e quanto della loro presenza, dei loro diritti e delle loro speranze è diventato indissolubile patrimonio delle nostre responsabilità. Nella convinzione da tutti ribadita che la cittadinanza non è soltanto un dato giuridico o politico ma è una questione eminentemente culturale, Franco Pittau chiarisce che non può essere considerata come «l’ultimo fortino da difendere per salvaguardare il carattere distintivo del nostro Paese (…) o per tutelare la sua purezza etnica» né, d’altra parte, può essere richiesta solo per i benefici concreti che ne derivano: si rischierebbe di favorire «la nascita di ‘cittadini estranei’». C’è in gioco il sentimento dell’appartenenza ai luoghi abitati, l’impegno al loro riconoscimento, all’affezione e alla loro cura, la dimensione contrattuale che presuppone uno scambio tra lealtà e possibilità, tra diritti e doveri, nulla di più e nulla di meno di quanto si chiede in fondo a tutti i cittadini che non sono tali perché semplicemente nativi o men che meno consanguinei. Non c’è cittadinanza senza quella “coscienza del luogo” di cui scrive da tempo nelle pagine di questa rivista Pietro Clemente. E nel rimarcare i nessi tra identità e spazio, ha ragione Antonello Ciccozzi che, incline all’approvazione dello ius culturae, osserva che «l’accoglienza senza cittadinanza tende a degradare le persone migranti a non-persone come effetto dell’esclusione dall’ordine giuridico-politico nazionale, la cittadinanza senza volontà di appartenenza tende a degradare in non-luoghi quelli che per i residenti sono i luoghi d’origine o di vita».
Intorno al profilo culturale della cittadinanza, «che non è affatto sovrastrutturale rispetto ad altri ambiti», «una dimensione nella quale convergono identità, istituti e pratiche sociali», ragiona con ampio ricorso agli studi antropologici Linda Armano che sulla scia di Nussbaum affida al ruolo vitale delle arti e della letteratura la possibilità di immaginare nuovi cittadini che «costruiscono loro stessi e contemporaneamente il mondo in cui vivono». Forme nuove di cittadinanza sono infatti immaginabili e in progettazione. Ne scrive Nicola Martellozzo. a proposito dei “cantieri sociali” aperti nei piccoli paesi delle aree interne italiane in cui si sperimentano inediti e creativi laboratori di una integrazione basata sulla gestione responsabile dei beni comuni e su un forte radicamento nel territorio ovvero su una cultura dell’abitare, «presupposto di esperienze comunitarie che eccedono la cittadinanza come condizione giuridica». Al concetto di persona e della sua dignità, nel quadro dei valori elaborati attraverso una plasmazione plurisecolare, da cui in anni non lontani discendeva l’orgoglio di essere o di voler essere “cittadini del mondo”, si richiama infine Luigi Lombardi Satriani che auspica il trascendimento della cittadinanza in nome di «una comune umanità nella quale si esalta la supremazia dell’umano che erompe, nonostante tutto, per la vita».
Tutt’altro percorso suggerisce Valerio Cappozzo che partecipa al dibattito sulla questione dello ius soli e dell’appartenenza ad un luogo ricostruendo le vicende della pasta e dell’olio extravergine d’oliva. Prodotti sublimi, marchi mondiali della italianità, eppure frutti nati, germogliati e trapiantati ad opera di migrazioni e di contaminazioni. La verità è che non c’è nulla di più convincente del ricorso all’alimentazione per capire se, quanto e come siamo italiani. «Gli innesti hanno definito nella storia le identità patrie come le conosciamo oggi, e ogni forma di patriottismo campanilistico è in realtà un controsenso storico». Da qui l’idea ormai obsoleta di una cittadinanza vincolata alla nazionalità in un mondo globalizzato, laddove – come ha esemplarmente affermato il premio Nobel egiziano Nagib Mahfuz – «la tua casa non è dove sei nato. Casa è dove cessano tutti i tuoi tentativi di fuga».
«Mentre discutiamo di ius soli e ius sanguinis, è stato introdotto nell’UE lo ius pecuniae: la facoltà di acquistare la cittadinanza grazie al denaro». Così scrive nel suo intervento in questo numero Maurizio Ambrosini che fa notare come i governi europei autorizzino insieme all’insediamento degli investitori stranieri la loro rapida e simultanea promozione a cittadini. Nella sua lucida analisi sulle pervasive e ossessive correlazioni tra immigrazione e sicurezza a vent’anni dall’11 settembre, il sociologo fa chiarezza su una possibile e pragmatica politica nel governo del fenomeno di portata transnazionale, una gestione «meno irta di preconcetti se viene articolata in questioni puntuali, circoscritte, e come tali più agevoli da maneggiare».
A questa nuova visione politica non può non contribuire la memoria collettiva delle nostre esperienze di emigranti, una lezione etica e civica che invita ad una riscrittura della stessa storiografia nazionale e ad una rilettura delle narrazioni contemporanee sul fenomeno. Dialoghi Mediterranei è da sempre attenta ad ospitare studi, ricerche e testimonianze su queste pagine di storia largamente rimosse. Ampiamente documentate sono in questo numero le lunghe e tormentate tappe dell’immigrazione degli italiani in Svizzera in un saggio a firma di più autori (Bea, Montuori, Pittau, Schiavone). Nella Confederazione elvetica – si sa – «volevano braccia e sono arrivati uomini», e questa famosa frase pronunciata dallo scrittore Max Frisch in occasione di una conferenza tenuta nel 1966 davanti ai capi della polizia degli stranieri ha il valore oggi di uno straordinario monito perché non sia mai dimenticata la dimensione umana dei processi migratori. Tra le numerose diaspore degli italiani va ricordata anche quella, poco nota e a lungo sottovalutata, della comunità trapiantata in Marocco, di cui Nabil Zaher ripercorre le vicende tra ‘800 e ‘900: una presenza certificata nei cimiteri di Casablanca e di altre città dove riposano migliaia di connazionali.
Una riflessione sui rovinosi effetti combinati della pandemia e del climate change e un dolente appello a riappropriarci della nostra umanità perduta sono contenuti nel testo di Alessandra Morelli e Fabio Sebastiani, una studiosa impegnata sul campo in operazioni umanitarie per la protezione e l’assistenza dei rifugiati, e un poeta giornalista. A fronte della crisi irreversibile dell’Antropocene che prepara l’eclissi dell’umano gli autori scrivono che «non c’è più alcuna funzionalità dei confini, anzi. La nazionalità diventa disfunzionale e nociva. (…) Il mondo si è improvvisamente curvato. (…) Mettere in comune la propria fragilità può essere un inizio, utile a superar la paura. Pensare che la risposta alla fragilità possa arrivare dalla sola scienza è l’inizio della fine della storia per come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi». Educare all’umano ovvero rieducare all’arte della sostenibilità e della convivenza non è obiettivo diverso o lontano da quello che si propone la Carta sull’educazione al patrimonio culturale locale, redatta a Tokio nel luglio scorso e presentata a Bruxelles a settembre e qui pubblicata a cura di Olimpia Niglio e D. Paul Schafer: un importante documento transnazionale preparato in collaborazione con l’Unesco e un grande progetto pedagogico volto ad attivare politiche e pratiche per un mondo più sostenibile e più giusto. A questa ambiziosa impresa contribuiscono quanti lavorano, spesso senza fare rumore, per l’accoglienza dei profughi e per il dialogo degli uomini e delle culture. Della Scuola di Lingua italiana per Stranieri-ItaStra dell’Università di Palermo è il laboratorio di cui Clelia Farina racconta e riassume le esperienze didattiche, che hanno coinvolto giovani e adulti, studenti e lavoratori migranti. Con l’ausilio della musica e delle canzoni dell’harga maghrebina nella narrazione dialogica si è inteso promuovere un apprendimento che ha privilegiato un approccio didattico orientato a fare «emergere le storie di vita individuali dei singoli partecipanti, mirate alla coproduzione di percorsi e significati condivisi».
Di un’altra scuola si dà conto in questo numero, la Scuola di Soria, un comune spagnolo dove si riuniscono studiosi e dottorandi di diverse discipline che si occupano dello stesso tema: il ripopolamento delle aree rurali europee. Il testo di Maria Molinari sta nel “Il centro in periferia” di Pietro Clemente, dove trova spazio anche il ricordo di un’altra scuola, di un’altra lezione di arte e di vita, quella praticata e insegnata da Giovanna Serri, contadina e tessitrice di Armungia, scomparsa qualche settimana fa. La sua morte – scrive Clemente – è come la fine di una grande biblioteca. Zia Giovanna era «conoscenza del paese, delle memorie di famiglia, coscienza del luogo e della sua storia». Nel suo insegnamento delle tecniche del tessere era la trasmissione di un prezioso “saper fare”, di una filosofia popolare, di un immenso patrimonio immateriale. Con altri fili e non minore sapienza l’antropologo continua a tessere su queste pagine il dibattito sui modi, le strategie, le molteplici esperienze del riabitare l’Italia delle aree interne, del rivitalizzare quei mondi remoti e appartati che costituiscono la tenace orditura della trama urbana del nostro Paese. Alla ricerca di quei «grumi di futuro che sembrano apparire localmente in molte parti d’Italia», progetti inventati e maturati dal basso, «segni di qualcosa di più che non la sola resistenza».
“Del problematico restare: appunti su un’idea di paese” è il titolo di un contributo di Salvina Chetta (fotografa) e Nicola Grato (poeta) che si chiedono se «forse abitare in un piccolo paese oggi ha molto a che fare con la possibilità di cercare un nuovo orientamento nel mondo contemporaneo». Il loro intervento si può leggere nella sezione “Immagini”, che ospita i lavori di giovani e meno giovani fotografi che trasferiscono e connettono nella scrittura i fotogrammi delle loro ricognizioni. Apre la rassegna una nota introduttiva di Silvia Mazzucchelli, storica e critica delle arti figurative, che da questo numero comincia la sua collaborazione con la rivista curando il coordinamento dello spazio destinato a documentare e valorizzare le ricerche e le sperimentazioni non effimere dei linguaggi visuali della postmodernità.
Nel paradigma della dialogicità (di cui, tra l’altro, scrive Roberto Cipriani nel suo contributo) il lettore avrà modo di scoprire i nessi e le sotterranee concatenazioni tra i differenti temi che si discutono in queste pagine: dalle tonnare siciliane al teatro della rivoluzione russa, dalla dismissione delle aree industriali di Castellamare di Stabia al Vesuvio vissuto e raccontato, dal Sinodo dei popoli alle Stanze del Silenzio e dei Culti, dalla festa dei morti al Crocifisso coronato del Museo di Trapani, dalle donne nelle rappresentazioni mediatiche alle donne che prendono la parola, dai rinnegati dell’Inquisizione alle disavventure giudiziarie di Mimmo Lucano. Un fil rouge che lega anche, in un comune orizzonte di senso, Leonardo Sciascia ‘arabo’ e Vincenzo Consolo ‘cartografo’, Pier Paolo Pasolini e Achille Perilli, l’artista scomparso pochi giorni fa.
In questo numero ricordiamo ancora una volta la figura di Salvatore Costanza nella testimonianza della storica Cristina Vernizzi e diamo infine l’ultimo affettuoso saluto all’amico Roberto Sottile, che ci ha lasciati improvvisamente nello scorso agosto. Ne scrive Francesco Scaglione a nome dei colleghi del gruppo di ricerca dell’Atlante Linguistico della Sicilia, «la sua seconda famiglia». Ne traccia il profilo di intellettuale, di studioso, di ricercatore, «il suo incontenibile entusiasmo verso ogni aspetto che riguardasse la lingua (sia essa in forma parlata, scritta, esposta, e perfino cantata)». Roberto da raffinato conoscitore di tutte le risorse linguistiche sapeva parlare ai giovani, ne studiava le forme della comunicazione, curando di coniugare sempre ricerca scientifica e didattica pratica come momenti inscindibili e fondamentali esperienze non solo della sua attività accademica ma anche della sua stessa vita. Amava le Madonie decidendo di restare a vivere e ad abitare a Caltavuturo, contribuendo a recuperare antichi ovili in pietra e percorsi della pastorizia tradizionale, animando e organizzando la resistenza al drammatico spopolamento con iniziative culturali, con incontri pubblici come quello ideato e realizzato a gennaio del 2020 su “La resilienza delle aree interne, dalle criticità ai progetti per il ritorno” alla presenza dell’ex ministro Fabrizio Barca. Questi ed altri episodi sono ricordati da Massimo Genchi che ha condiviso con lui luoghi, infanzia, studi e un rapporto di lunga amicizia.
Che riuscisse a legare mondi diversi, a trovare spazio e tempo per tutti, a esplorare le ricchezze della lingua negli ambiti più popolari ma anche più eccentrici ed eterogenei, è dimostrato da quanto testimoniano gli autori dei vari interventi. Salvatore Claudio Sgroi, collega linguista di Catania di una generazione più anziana, racconta la sua corrispondenza per email con Roberto «all’insegna del “voi” reciproco». Il sindaco Giannopolo che lo ha avuto come assessore nella sua giunta ne riconosce «l’intelligenza fuori dal Comune», l’impegno civico, la straordinaria versatilità. «Noi – scrive – ci siamo abbeverati lungamente alla sua fonte di genialità e di sensibilità, nel portare avanti gli obiettivi sociali, culturali e politici che ci siamo prefissi nel tempo». Gli amici Lorenzo Castellana e Nieta Gennuso ne raccontano le avventure e le passioni giovanili, le escursioni naturalistiche, le perfomance musicali. L’allievo Riccardo Rizzitello ne rimpiange infine i consigli, l’umana disponibilità oltre l’accademia che si spingeva fino alla partecipazione a cantare con lui nella sua band “Cantu e cuntu” di Rosa Balestrieri.
Personalmente ho conosciuto Roberto all’università di Palermo, in quel luogo magico che era il corpo basso della Facoltà di lettere dove era la sede del servizio museografico e lo studio del prof. Antonino Buttitta: lì si consultavano i libri della biblioteca, si facevano esami avvolti nel fumo delle sigarette di Pino Aiello, vero sovrano di quel piccolo regno in penombra, crocevia di docenti e studenti. Ci univa l’interesse per la cultura materiale, per l’etnografia del lavoro contadino, per «le parole del tempo perduto». Roberto amava i disegni degli strumenti e degli oggetti del mondo popolare che Pino conosceva a memoria ed eseguiva per noi con ineguagliabile maestria. Quando, più avanti negli anni, l’ho invitato a far parte del Comitato scientifico di questa rivista ha accolto la proposta con affettuoso entusiasmo, scrivendo e contribuendo ad allargare la rete dei collaboratori. Ha voluto che scrivessi la prefazione all’Atlante dei beni culturali di Caltavuturo da lui curato quale presidente pro tempore della Pro Loco e ricordo di averlo poi, su suo invito, discusso nella sala comunale a Caltavuturo in un freddo e nebbioso pomeriggio di dicembre del 2009. Quando abbiamo presentato a Mazara i suoi libri ha trasformato quelle conversazioni in piacevolissime perfomance. Ha sempre amabilmente unito l’ironico sguardo dell’uomo con l’acume non comune dello studioso, la simpatia delle relazioni con l’intelligenza delle intuizioni. Da lui ho imparato non solo i segreti e le suggestioni della lingua ma anche le virtù dell’amicizia vissuta come un privilegio.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021