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Felicità e bucce di cipolle. Come (ci ) costruiamo la realtà
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2023 @ 02:07 In Cultura,Società | No Comments
.. .un po’ di possibile, altrimenti soffoco.. (Gilles Deleuze)
La felicità è come una cipolla, bisogna soltanto avere il coraggio di cominciare a sbucciarne strato dopo strato e non spaventarsi di tutti quei pesi che ci impediscono di liberare le nostre emozioni! Parlare di questi tempi di un tema come la felicità può sembrare una dissociazione – consapevole – da una realtà poco propensa alla diversificazione di un pensiero “sin troppo realistico”! Le nostre sensazioni sono infatti pesantemente influenzate da quello che viviamo quotidianamente tra guerre per procura e virus vaganti che rappresentano un attentato continuo alla nostra esistenza. Si vuole più semplicemente offrire un modo per creare “una pausa di pensiero” per nuove menti nel senso di aggregazioni di idee di Gregory Bateson [1] (1979).
Cipolla e realtà
Torniamo alla cipolla, presa in prestito dal famoso antropologo Edmund Leach [2] che ad un convegno sui “Livelli di realtà” così diceva:
Come non ricordare la commedia di Luigi Pirandello [3] Vestire gli ignudi? In essa il grande drammaturgo impiega la metafora della cipolla per rappresentare la nuda verità che una volta rivelata è privata di ogni sua caratteristica. Il dramma mette a fuoco la storia di chi, sentendosi nudo e giudicandosi di per sé insignificante, si riveste dei panni – fossero pure sporchi e laceri – che gli altri gli fanno indossare. Ersilia, la protagonista si “sente niente” e pur di contare qualcosa, “di esistere”, accetta di essere quella che gli altri hanno voluto che fosse, andando verso una tragica fine. La riflessione pirandelliana è come al solito densa di significati e di diversi livelli di lettura. Ognuno è un’anima nuda in cerca sempre di qualcosa per coprirsi – se pur apparentemente – obbedendo in realtà solo alla necessità di indossare abiti che sono apprezzati da altri. Infatti, può capitare che quando togliamo “l’ultimo strato alla cipolla “rimaniamo proprio con niente!
La metafora della cipolla è stata utilizzata anche da G. Bateson (1979, cit.) per esprimere i diversi modi di comunicare. Egli infatti sosteneva che le regole della comunicazione sono strutturate a buccia di cipolla, l’una all’interno dell’altra, interagendo fra di esse e dando luogo sempre a nuove regole e così via. I diversi strati della buccia di una cipolla costituiscono veri e propri labirinti transcontestuali in cui si possono attivare momenti comunicativi di diverso “livello logico”, come il rituale l‘humor, l’arte, il gioco etc. Secondo il filosofo della natura – come egli amava essere chiamato – questa metafora poteva raffigurare meglio l’avvicendarsi di possibili quadri di un processo comunicativo all’ interno dei quali si sviluppavano le interazioni.
La struttura a bucce di cipolla è stata scelta da Bateson per raffigurare l’affastellarsi delle cornici e dei tipi logici che costellano ogni relazione: la comunicazione per essere possibile ha bisogno di una serie di regole, di bucce, di bucce paradossali, perché se le rispettassimo fino in fondo, finiremmo per ottenere l’effetto opposto, cioè di chiudersi in una rigidità mentale e posizionale che non ammette altri “livelli” o “salti logici” necessari ad una comunicazione viva e allo stesso tempo complessa (capace cioè di procedere in maniera circolare e ricursiva e non lineare). La felicità quindi come modo di porsi, come acquisto di nuovi atteggiamenti mentali di costruzioni e ricostruzioni continue fra paradossi comunicativi ed impicci logici.
Il processo terapeutico
Se noi volessimo fare un esempio potremmo ricorrere a quanto avviene in un processo terapeutico considerato «come un percorso difficile verso uno stato di ben-essere e quindi verso altri modi di osservazione e di visione del mondo all’interno di continue inter-azioni terapeuta/paziente» [4]. La terapia può diventare uno dei modi di uscire fuori dalla sofferenza, una possibilità di arrivare a sbucciare un altro strato, scoprire una nuova regola, un nuovo modo di conoscere e di conoscersi ad un altro livello, in un continuo gioco esterno interno. Il processo terapeutico come un processo di costruzioni di realtà diverse da quelle fino allora solo “immaginate”, nella convinzione che la propria visione della realtà sia l’unica possibile. Il cambiamento è già di per sé un passaggio verso un momento felice che per essere raggiunto ha bisogno di momenti di infelicità – ossia di crisi – di perdita di posizioni rigide, di modifica di quella realtà fino allora costruita e conosciuta e ritenuta l’unica. Le realtà costruiscono realtà secondo un processo continuamente in fieri, fra assestamenti nuovi e rimodellamenti delle regole.
Come noi (ci) costruiamo la realtà
La realtà e le modalità del conoscere, fanno parte del modo più vasto di come noi (ci) costruiamo la realtà in generale e quello che può renderci felici in particolare. Come noi “pensiamo” di vedere e certi nostri atteggiamenti mentali, non sempre flessibili, ci portano necessariamente a vedere sempre le stesse cose un po’ grigie, tristi, nello stesso modo e dalla medesima posizione, senza muoverci e offrire altri sguardi! In queste condizioni ci sembra spesso l’unica visione possibile delle cose e del mondo. Lo spostamento dalla posizione da cui normalmente si è abituati, può produrre dei piccoli cambiamenti nel processo di osservazione, un punto di partenza, non del tutto prevedibile, una nuova direzione di marcia, un processo per tappe senza salti che richiede da parte dell’attore una modalità più mobile con cui porsi.
Se quanto detto finora lo volessimo contestualizzare avremmo bisogno di aggiungere almeno due distinzioni: una di carattere esistenziale, legata cioè al nostro modo di concepire il mondo, la vita etc. L’altra legata alla ricerca delle condizioni per cui tutto ciò diviene un elemento di sofferenza, di mancanza di benessere, di non felicità. È noto infatti come l’adattamento alla realtà di ogni essere umano debba essere considerato un importante indice dello stato di salute e benessere e di mancanza di malattia.
Cosa intendiamo per costruzione della realtà?
Un punto importante del percorso è tentare di uscire dalla strettoia di una felicità considerata come soggettiva o oggettiva e riportarla sul piano della conoscenza, sul nostro atteggiamento mentale su come ci costruiamo la realtà [5]. Come ci suggerisce Paul Watzlawick [6] la domanda è la seguente: in che modo si conosce ciò che si crede di conoscere? Si è abituati a pensare che la realtà può essere “scoperta”. Al contrario, la realtà è un’interpretazione personale, un modo particolare di osservare e spiegare il mondo che viene costruito attraverso la comunicazione e l’esperienza. La realtà non verrebbe quindi scoperta, ma “inventata”.
Una ulteriore suggestione ci viene da Carlos Castaneda [7] che cosi racconta:
Penso che la felicità non si possa spiegare, ma forse sentire, percepire attivando modi e mondi non comuni. Anzi per dirla con Theodor Adorno [8] la felicità è «come la verità: non la si ha, ci si è. Per questo nessuno che sia felice può sapere di esserlo. Per vedere la felicità, ne dovrebbe uscire. L’unico rapporto fra coscienza e felicità è la gratitudine».
Le considerazioni fin qui esposte rimandano all’antico problema del modo/modi in cui conosciamo ciò che crediamo di conoscere. Per tentare di risolverlo la mente dovrebbe uscire da se stessa, per così dire, ed osservarsi al lavoro. A questo punto non abbiamo più di fronte fatti che palesemente esistono indipendentemente da noi nel mondo esterno ma processi mentali la cui natura non è affatto esplicita. Per processo mentale intendiamo «una successione di interazioni fra parti. La spiegazione dei fenomeni mentali deve sempre trovarsi nell’organizzazione e nell’interazione di parti multiple» (Bateson 1979).
Quindi partiamo alla ricerca della felicità, ma per dove? Forse seguendo Christopher, il protagonista sfortunato del film Into the Wild che aveva tentato la sua marcia solitaria, ma vana, verso la felicità! [9] Ma poi esiste?
Tutti la cercano o meglio ci provano, c’è pure chi si accontenta di leggere l’involucro di uno cioccolatino (!). Altri ci rinunciano: non pensano sia di questo mondo! Altri ancora lo ritengono uno stato perfetto dell’anima. Ma che cosa è poi l’anima? In realtà una domanda tira l’altra come i cerchi concentrici di una spirale, dove non si sa dove inizia uno e finisce l’altro, seguendo una modalità circolare fra le parti che la compongono. C’è anche una visione “romantica”: Leopardi l’aveva definita il semplice «intervallo fra due dolori». Del resto su questo tema la stessa letteratura non ci offre una grossa mano: pochi libri sulla felicità, molti sul dolore e sulla sofferenza!
Ultimamente, l’OMS definisce la salute con un nuovo concetto, come stato di benessere e non come solo mancanza di malattia. In realtà, rappresenta una modalità con cui ci poniamo di fronte ad eventi, fenomeni, accadimenti; un atteggiamento mentale che influenza ed è influenzato. È altrettanto vero che cercare di conoscere cosa rende felici, diventa come cercare di conoscere i modi in cui noi inter-agiamo nel nostro mondo tanto interconnesso, ma anche tanto inter solidale? Attento o poco sensibile alla comunicazione “in carne ed ossa”! Interrogazioni che ci ripropongono il rapporto con gli altri, come ci costruiamo “l’altro” e se ne possiamo farne a meno. Allargando l’orizzonte e superando la dimensione autocentrata forse potremmo scoprire gli altri e chiederci se la felicità sia un fatto individuale o collettivo e se sia autentica solo se condivisa.
La felicità negata
Su questi interrogativi scorre l’ultimo libro di Domenico De Masi, La felicità negata (Einaudi, 2022) in cui il noto sociologo analizza questo termine inserendolo nel più vasto contesto economico-sociale del mondo attuale con una forte critica agli economisti che
De Masi propone con qualche suggestione un cambiamento di registro per privilegiare “l’ozio creativo” al lavoro, soprattutto esecutivo. “L’ozio creativo” garantisce più felicità di quanto ne conserva il lavoro nella stragrande maggioranza dei casi.
Felicità e Pil
È vero che più aumenta il Pil più c’è felicità? L’obiettivo di accrescere la ricchezza su cui è basato il sistema neo-liberista non sempre coincide con l’aumento della felicità. A questo proposito in un Convegno “La Felicità” nell’ambito del Festival delle scienza a Roma (2013) [10], teso ad indagare a più livelli l’idea radicata fin dall’antichità nella storia umana: la ricerca della felicità, da sempre l’ambizione di ogni essere umano! Hanno partecipato diversi scienziati accomunati dalla ricerca di come la felicità si possa misurare e incoraggiare! Non solo quella individuale, ma anche quella di una nazione, per renderla al centro delle nostre politiche future. Fra di essi l’economista indiano Amartya Sen, premio Nobel per l’Economia nel 1998, ha messo in risalto la felicità non come un concetto astratto ma come un importante indicatore economico. perché lo sviluppo non è solo legato al reddito, ma alla qualità della vita.
La felicità non è una marcia solitaria, come ci insegna Christopher – nel il film prima citato – nella sua ricerca della felicità “in solitaria”. Perché non risulti vana essa deve essere condivisa, deve tenere presente gli altri in un mondo sicuramente interattivo e allo stesso tempio diseguale. Non si può essere felici quando la ricchezza è distribuita in maniera diseguale, quando l’unico modello vincente “sembra” essere il liberismo basato sul profitto a tutti i costi, passando sulla testa delle persone e dell’ambiente che continua a mandare segnali inascoltati! Anzi, non riusciamo neanche più a indignarci per i danni procurati, ci giriamo dall’altra parte delegando il dolore a qualche voce lamentosa, come si faceva a suo tempo alle “prefiche” pagate per piangere! [11].
Egoismo, concorrenza e competitività esasperata sono una miscela esplosiva. Il progresso ha procurato dei risultati sicuramente importanti. Alla luce della situazione attuale è necessario trovare nuovi equilibri uomo-uomo e uomo-natura. Senza progresso certamente non c’è felicita e nessuno vuole tornare all’età della pietra, ma la questione è un’altra. Come dice Mauro Cerruti [12], è arrivato il momento di chiedere se «le liberal-democrazie stanno consumando più risorse umanitarie di quelle che stanno producendo». Possiamo/dobbiamo adoperare tutte le nostre forze – e sono tante – per cercare un modello di sviluppo più sostenibile non solo con “la consulenza del destino” [13], dove la natura non sia una parola astratta ma un modo – nuovo – di mettersi in contatto. Utopia? No necessità! E anche speranza, come sostiene Isabella Guanzini [14] nel suo Filosofia della gioia (2022) in cui ci invita a «tradurre nella realtà la possibilità di vivere come singoli e come comunità …senza ignorarne la deriva in termini di deprivazione umanistica ossia il suo investimento esclusivo nella produzione nell’efficienza e nella prestazione è il suo disinvestimento radicale sociale».
Prima del compimento [15]
Come ben diceva Ernesto De Martino nel suo Mondo magico (Boringhieri 1973: 22), «La realtà non è un concetto “tranquillamente” posseduto dalla mente al riparo di ogni aporia e che il ricercatore debba applicare o meno come predicato al soggetto del giudizio da formulare». Ci permettiamo di aggiungere che la costruzione della realtà è sempre in rapporto ai nostri processi mentali attraverso i quali possiamo formulare una visita policromatica, monocromatica o acromatica.
Lao Tzu [16] vicino ad un rivo d’acqua con i suoi discepoli dice: “Guardate la gioia dei pesci”. Come fai a saperlo? gli domanda uno dei discepoli – “Tu non sei un pesce, come fai a conoscere la loro gioia? Il maestro risponde: “La mia gioia è la gioia dei pesci”.
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