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Filosofia e fede cristiana: una questione da archiviare?
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2021 @ 02:41 In Cultura,Società | No Comments
di Augusto Cavadi
Anche se investita talora da ventate di moda, la filosofia – come riflessione pacata e critica su ciò che l’esperienza ci squaderna davanti – non è l’esercizio più diffuso. Non lo è oggi e, con buona pace dei nostalgici di epoche che non hanno conosciuto, non lo è mai stata. La fede cristiana – intesa, approssimativamente, come ascolto e pratica del messaggio evangelico – non gode, o almeno non sembra godere, di migliore fortuna. Perciò interrogarsi sui rapporti reciproci fra filosofia e fede può risultare interessante quanto indagare sui rapporti fra il pianeta Nettuno e il suo satellite Tritone.
Eppure…eppure nutro il sospetto che su questa relazione fra filosofia e fede ogni persona – credente o meno che si ritenga – abbia le proprie convinzioni che incidono, in qualche misura almeno, sulla sua esistenza. Se così fosse, e nel mio caso lo è certamente, non farebbe male regalarsi dieci minuti per prenderne consapevolezza. Soprattutto in una fase storica, come l’attuale, in cui sia la filosofia sia la fede stanno conoscendo delle trasformazioni storico-effettuali, e dunque anche semantiche, di notevole intensità.
Lo scenario dell’incastro perfetto si incrina…
Alla maggior parte delle persone appartenenti alla mia generazione – intendo nate prima del Concilio Vaticano II (1962-1965) – è stata proposta, nella catechesi adolescenziale, la tesi dell’incastro perfetto fra le dottrine della filosofia (greco-romana) e le ‘verità’ rivelate da Dio contenute nella Bibbia. Certo le dottrine filosofiche elleniche ed ellenistiche dovevano essere ritoccate, talora rimodellate robustamente, ma grosso modo potevano servire da fondamenta (naturali) su cui costruire i piani dell’edificio (sovrannaturale): la ragione dimostra che c’è ‘un’ Dio, la fede dice il suo ‘nome’ proprio; la ragione dimostra che siamo anche anima spirituale ‘immortale’, la fede rassicura che alla fine del mondo, grazie alla ‘resurrezione’ finale, ci ricongiungeremo con il nostro corpo…e così via.
Questo affascinante e confortante edificio comincia a scricchiolare man mano che, da Erasmo da Rotterdam e Lutero in poi, si studia la Bibbia con gli stessi strumenti filologici, esegetici e storico-critici con cui si studiano l’Iliade, l’Odissea o l’Eneide. Infatti si scoprono, con approssimazione sempre più vicina alla certezza scientifica, almeno due crepe.
La prima, per così dire di merito (o di contenuti), è che non esiste questo felice incastro fra i risultati della filosofia antica e le affermazioni dei Libri ‘sacri’: se tale compatibilità riluce occasionalmente (soprattutto nei libri della Bibbia “deuterocanonici” ossia considerati rivelati in un “secondo” tempo dai cattolici, ma non dagli Ebrei né, successivamente, dai Riformati), la stragrande maggioranza dei libri della Bibbia propone una concezione di Dio, dell’uomo, del mondo naturale, della storia e così via… irriducibilmente altra rispetto alle concezioni platoniche o aristoteliche di Dio, dell’uomo, del mondo naturale, della storia e così via. Indubbiamente questa diversità difficilmente poteva saltare agli occhi di chi leggeva Antico (oggi, per rispetto degli Ebrei, si preferisce: Primo) e Nuovo (Secondo) Testamento solo in traduzione ‘ufficiale’ latina perché non conosceva l’ebraico, anzi neppure il greco (il caso più clamoroso è il “padre della Chiesa” Agostino).
Ma la crepa più profonda dell’edificio ‘cattolico’ della provvidenziale concordanza fra teorie filosofiche e annunzi biblici è di metodo (o di atteggiamento esistenziale): il filosofo (greco) pensa per conoscere e parla soprattutto per aiutare a conoscere; il profeta pensa per agire e parla soprattutto per spronare ad agire; il filosofo (greco) predilige l’occhio, la vista; il profeta (ebreo) predilige l’orecchio, l’ascolto. Insuperabile la formula di Galileo Galilei vanamente esposta ai giudici del tribunale ecclesiastico: in quanto filosofo-scienziato apro il libro della natura per capire come “è fatto” il “cielo”, in quanto cristiano-credente apro il libro della rivelazione per capire come “si vada” al “cielo”. Non leggo la Torah per capire le macchie solari né leggo Copernico per capire cosa può rendermi felice nei rapporti con gli amici. Nella stessa epoca, l’ebreo Baruch Spinoza sosterrà nei suoi volumi una analoga distinzione, andando incontro ad analoghe persecuzioni da parte delle autorità della sua religione.
…e si aprono le due vie del bivio divorzista
Destrutturato questo scenario dell’incastro perfetto fra ragione (filosofico-scientifica) e fede (religiosa), e attestatone il divorzio irreversibile, alla civiltà occidentale e – ciò che in queste pagine mi interessa più direttamente – all’interiorità di ciascun soggetto si profila un bivio.
Alcuni imboccheranno la strada della fede diffidente verso ogni mediazione razionale: una fede basata sulla “sola Scrittura” (opzione protestante, da Lutero a Barth) o sulla Scrittura interpretata infallibilmente dal Magistero ecclesiastico (opzione cattolica, dal Concilio di Trento del XVI secolo sino al Catechismo della Chiesa cattolica, preparato con la supervisione del cardinale Joseph Ratzinger, del 1992) [1]. Per la stragrande maggioranza di protestanti e cattolici, comunque, «la tradizionale alleanza tra metafisica e religione è rotta, la religione decolla, oggi, quasi ringiovanita e rinvigorita (?) senza il peso della zavorra metafisica»[2]. Questa prospettiva, a mio avviso, è del tutto valida in ciò che afferma (la Bibbia va letta come una Biblioteca ebraica, non come un Trattato di metafisica greca travestito da Testo profetico-religioso), ma pericolosa, anzi pericolosissima, in ciò che nega (la necessità irrinunciabile di usare la testa, l’approfondimento critico, il dialogo spassionato quando si tratta di capire).
In nome della irrinunciabilità della conoscenza, della razionalità, della sperimentazione, altri imboccheranno, davanti al bivio, la strada alternativa della intelligenza diffidente verso ogni dimensione di fede: in questa strada è del tutto secondario, trascurabile, dal punto di vista in cui ci siamo adesso collocati, distinguere i pellegrini della razionalità filosofico-metafisica dai pellegrini della razionalità scientifico-sperimentale. Anche questa opzione trovo del tutto valida in ciò che afferma (la vigilanza intellettuale va esercitata continuamente perché, come si espresse il pittore Francisco Goya, «il sonno della ragione genera mostri»), ma riduttiva, impoverente, potenzialmente suicida, in ciò che nega (che la Bibbia, come ogni altro Testo sacro dell’umanità, attraverso la poesia dei miti possa spalancare la prigione del nostro “io” e metterci in comunione con tutti i viventi, in particolare con i deboli e gli oppressi). Se mi si dimostra che la molecola dell’acqua è composta da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno, è un motivo sufficiente per negare che sorella acqua sia «multo utile et humile et pretiosa et casta»?
Oltre concordismo e divorzio: una terza via?
Se fossimo di fronte a un kierkegaardiano “aut aut” la nostra vicenda terrena sarebbe ancora più triste di come abitualmente si profila. Ma davvero non c’è una terza possibilità fra la prospettiva – medievale – dell’incastro fra fede e ragione e la prospettiva – moderna – della reciproca incompatibilità strutturale (quale che sia, dopo il divorzio, il coniuge da privilegiare rispetto all’altro)?
So benissimo che questa terza via è cercata da pochi ed effettivamente battuta da pochissimi. Tuttavia, al tramonto della propria vita, ognuno ha il dovere – più ancora che il diritto – di dare testimonianza di ciò che ha capito dopo decenni di errori, illusioni, smentite, verifiche, scoperte: una testimonianza che, come ogni altra, per quanto possa essere offerta con convinzione, va rubricata come ipotesi di lavoro che ciascuno, se vuole, potrà a sua volta sottoporre ad esame. Ebbene: ciò che mi sembra di aver intuito, e che comunque dà sapore alle mie giornate, è che siamo dei germogli in lenta, graduale, fioritura. Nella nostra evoluzione abbiamo bisogno di pane e di acqua e moriremmo qualora riuscissimo a trovare soltanto l’una o soltanto l’altro. Fuor di metafora: abbiamo bisogno di mettere a prova le nostre potenzialità razionali (osando le domande metafisiche, preventivando l’ipotesi di restare a bocca asciutta) e abbiamo bisogno di rapporto sentimentale, affettivo, operativo con il Tutto in cui siamo immersi (senza decidere pregiudizialmente se questo Tutto si esaurisce nell’ambito della nostra esperienza sensibile o la trascende). A questa duplice, ma inscindibile, esigenza si potrebbero adattare i versi di K. Gibran:
Trovo appassionante la ricerca intellettuale e considero preziosissime le ore che posso dedicare alla lettura, allo studio, alla fruizione estetica di ogni tipo di arte (cinema compreso), allo scambio orale ed epistolare, all’ascolto dei maestri – scienziati o filosofi o artisti – antichi e contemporanei. In particolare (nessuno di noi è attrezzato per apprendere l’intero scibile) trovo appassionante lo studio delle opere filosofiche e, più le studio, meglio mi rendo conto di quanto l’umanità abbia perduto da quando parole come “teoria”, “astrazione”, “concetto”, “metafisica”, “contemplazione”, “speculazione”, “senso”…siano intese nell’accezione caricaturale e adoperate per deridere gli avversari. Il cristianesimo va de-ellenizzato: ma ciò non significa che un seguace del vangelo non possa, in quanto essere pensante, interrogarsi ‘laicamente’ sulle grandi questioni metafisiche (ovviamente senza illudersi di trovare nella Bibbia verità filosofiche, metodi di ricerca, argomentazioni…). Lo farà come, e con, gli uomini e le donne del suo tempo di ogni altro orientamento, senza il complesso di superiorità di chi fa finta di cercare il tesoro insieme agli altri con-correnti mentre ‘crede’ (opina, ritiene, suppone) di avere in tasca la mappa con le indicazioni infallibili; né con il terrore di vedersi squalificato perché, incidentalmente, una sua tesi coincida in tutto o in parte con un’affermazione della Torah o del Corano o delle Upanishad. La validità oggettiva – e la persuasività intersoggettiva – dei suoi ragionamenti andrà misurata (da altri credenti o da agnostici o da atei) con lo stesso metro con cui in filosofia si misurano – o si dovrebbero misurare – solitamente i ragionamenti [4].
Tuttavia, per quanto vasta sia la “pianura della verità” (per evocare una metafora platonica), sono convinto che essa non esaurisca l’ambito del percorribile e dello sperimentabile. Sono un impasto psicosomatico e l’acqua del sapere, per quanto necessaria, mi lascia insoddisfatto: ho anche fame del pane della relazione amorosa. Ho fame di sensazioni, di carezze, di baci, di amplessi totali; ho fame di amicizie sincere che integrino i miei limiti costitutivi e rendano me ricco della ricchezza altrui e altri della ricchezza mia; ho anche il desiderio di scoprirmi capace di ‘com-passione’, parola anche questa stravolta a caricatura di se stessa, ma originariamente denotante il patire ciò che gli altri patiscono, non per crogiolarsi insieme ad essi nel dolore ma per impegnarsi a liberarsene insieme. Per coltivare questa dimensione affettiva e operativa – per vivere al meglio l’eros, la philia e l’agape – ho bisogno di aprirmi all’oltre del pensiero, della ragione [5]: ecco perché cerco di lasciarmi contaminare da racconti mitici e liturgie, testimonianze di vita e canti, visite ai carcerati e assistenza ai moribondi; da tutto ciò che può svegliarmi dalla pigrizia e motivarmi alla “fede” come apertura che accoglie gratuitamente e con gratitudine restituisce. Sono disposto, insomma, ad accettare perfino una certa dose di “religione” se ho la fondata aspettativa che possa aprirmi all’esperienza della fede-amore.
Gesuanesimo più che cristianesimo
So bene, per averlo continuamente constatato, che questa duplice – ma radicalmente unitaria – tensione verso la conoscenza (filosofia) e verso l’esperienzialità integrale (fede-amore) mi rende sospetto a interlocutori di segno opposto: troppo ‘razionalista’ per chi crede di credere, troppo ‘religioso’ per chi non ha altra dea che la Ragione. Da qui i molteplici tentativi (solo in minima parte riusciti) di chiarire meglio la mia attuale posizione in proposito, convinto che devi assumerti la tua porzione di responsabilità se altri non ti capiscono abbastanza.
Agli amici ‘cristiani’, convinti e praticanti ma diffidenti verso la “ragione”, cerco di spiegare che l’esercizio della filosofia non mi ha ostacolato nel cammino di adesione al vangelo, anzi me lo ha reso praticabile. Ho sperimentato che la conoscenza attrezzata può liberare da illusioni fuorvianti, da tentazioni fondamentalistiche: non c’è nella storia dell’umanità un Libro che contenga, in esclusiva, il segreto della fede-amore. Ce ne sono tanti, in tutte le epoche e latitudini, che attestano ed esprimono intuizioni illuminanti, esperienze significative, azioni esemplari di esseri umani; nessuno ha il monopolio della sapienza e della saggezza. La più immediata comparazione dei testi cristiani con i testi precedenti, coevi e successivi, mostra ad evidentiam che non c’è una sola parola in essi che non si ritrovi, nella sostanza, in altre tradizioni culturali e religiose; mentre, di parole salutari, vivificanti, nelle altre tradizioni culturali e religiose ce ne sono molte altre che non si trovano nel Secondo Testamento. Questo non è tradire l’autocoscienza di Gesù di Nazareth, ma rispettarla: egli per primo non ha mai preteso di essere un Evento, una Parola, una Persona senza precedenti e senza pari [6]. Ormai è accertato che il Gesù storico non ha mai sospettato di essere “la” incarnazione di Dio in terra. Simile pretesa ‘assolutistica’ è essenziale al cristianesimo (sin dal vangelo secondo Giovanni, a cavallo fra il I e il II secolo, in poi)? Lo lascio decidere ai teologi e ai pastori delle diverse Chiese cristiane. Sino a quando l’orientamento maggioritario inclinerà per la risposta affermativa, pazienza: eviterò di dirmi cristiano e mi accontenterò di dichiararmi gesuano.
L’orizzonte oltre-cristiano
Ma perché – mi obiettano gli amici atei o agnostici – questi equilibrismi linguistici (cristiano no – gesuano sì)? Perché non tagliare il cordone ombelicale con il cristianesimo della tua giovinezza, senza cercare compromessi improbabili e che ai più risultano sintomi di ambiguità? Perché, se mi dicessi tout court non-cristiano, nasconderei una dimensione importante che dà senso ancor oggi alla mia vita. È vero, l’ho appena ammesso: se essere cristiano significa professare che in Gesù (almeno nel Gesù che conosciamo attraverso le testimonianze ‘canoniche’ ed extra-canoniche) si trova un messaggio inedito, ineguagliato, insuperabile, non sono cristiano. Ma non posso negare che la sua storia, le sue parabole, l’eco delle sue gesta mi hanno aiutato – e mi aiutano – a rompere la corazza dell’ego-centrismo piccolo-borghese. Forse potrei presentarmi come post-cristiano, ma suggerirei l’idea che il modo di vivere evangelico sia alle mie spalle e non, come invece lo avverto, davanti a me quale traguardo utopico. Dal momento che, rompendo la corazza dell’autoreferenzialità, ho imparato la curiosità nei confronti di tutto ciò che l’umanità ha proposto di vero, di buono e di bello, preferisco definirmi un oltre-cristiano: uno che ha attraversato il cristianesimo, vi si è immerso con la massima serietà di cui era capace, ha cercato di assimilarne il succo, ne ha via via individuato i limiti, ne ha scavalcato i confini, scartandone le scorze infette ma senza rinnegarne l’eredità interiore, ed oggi procede a tentoni verso sintesi sempre meno anguste [7].
La spiritualità ‘laica’ come terreno di incontro
Come forse si intravede da questi brevi cenni, nella mia ottica le esigenze razionali (filosofiche) e le aspirazioni religiose (evangeliche), lungi dal contraddirsi si stimolano, e si controllano, a vicenda. E, ovviamente, possono agire in dialettica proprio perché non si identificano in un mix confuso.
A differenza di tanti cristiani nel senso tradizionale, o forse convenzionale, non cerco più nelle Scritture risposte argomentate alle domande teoretiche (come concepire Dio? Cosa ne è di noi dopo la morte? Come regolare le relazioni fra noi esseri umani in vita?) per le medesime ragioni per cui non cerco in esse risposte alle mie domande di geografia o di chimica. Sono troppo poco intellettuale? Pazienza!
Ma, a differenza di tanti cristiani ‘progressisti’, evoluti, non vedo perché dovrei smettere di cercare le risposte alle stesse domande teoretiche con i metodi della filosofia (da Platone e Aristotele sino a Jaspers e Severino): convincersi che il messaggio biblico privilegia l’ortoprassi rispetto a fantomatiche ortodossie e liberare l’essenziale del messaggio biblico dalla gabbia della metafisica non significa che la metafisica, esonerata da un compito improprio, non possa adempierne altri di suoi. Sono troppo intellettuale? Pazienza!
Mi pare che queste accuse di segno opposto si falsifichino a vicenda: non amo troppo poco la verità perché non la cerco nella Bibbia (scuola di amore) né la amo troppo perché la cerco nelle opere dei filosofi (maestri di verità). Non amo troppo poco il pane perché non lo cerco alla fontana né troppo perché, dopo aver bevuto acqua, vado in cerca di fornai.
Pur nella consapevolezza della propria identità specifica e irriducibile, filosofia e fede-amore, nella convivenza in uno stesso animo, imparano in qualche misura a contaminarsi. Come può avvenire, in concreto, simile contaminazione senza sfociare in un tertium indistinto – per la verità sempre più di moda nel panorama culturale occidentale – in cui i filosofi stentino a ritrovare il rigore dei ragionamenti e i seguaci del vangelo la radicalità dell’auto-donazione?
Proverei a esprimermi così: ricerca filosofica ed esperienza evangelica possono imparare a smussare i propri angoli più spigolosi, a declinarsi in maniera meno rigida e più elastica, a valorizzare delle dimensioni che – pur appartenendo al proprio patrimonio genetico – sono rimaste nella storia inesplorate o scarsamente fruite.
Vediamo la questione, prima di tutto, dal versante teologico. Se il cristianesimo va considerato solo una delle mille facce del poliedro in evoluzione che è l’umanità, perché continuare a chiamare ‘fede’ (o anche, come ho provato sopra, ‘fede-amore’) il processo di accoglimento e metabolizzazione esistenziale della figura e dell’opera di Gesù? Non è preferibile denominarlo ‘spiritualità’? Anche questo vocabolo non è privo di equivoci, ma – soprattutto nella società contemporanea – si va prestando ad una declinazione più ‘laica’, più ecumenica, più elastica: c’è una spiritualità cattolica, ma anche sufi o buddhista o atea [8]. E, soprattutto, c’è una spiritualità sic et simpliciter: una spiritualità umana-e-basta [9].
Verso lo stesso esito mi pare si arrivi dal versante filosofico. La filosofia è una disciplina ‘dura’, precisa, tagliente? Per certi versi, indubbiamente. Gustavo Bontadini (1903-1990), da “metafisico classico”, insisteva molto su questo aspetto. Ma aggiungeva, con saggezza, che la “metafisica” non esaurisce l’ambito della “filosofia”. La prima – intesa come indagine sull’Essere nella sua totalità (sulle sue caratteristiche strutturali, le sue leggi, le sue differenze interne), riservata ai cultori professionali che abbiano inclinazione verso questo genere di indagini – è distinta dalla seconda, intesa come l’atteggiamento con cui ognuno sceglie di porsi davanti all’Essere nella sua globalità, quale che sia l’ampiezza e lo spessore che egli attribuisca all’Essere (ed è dunque possibile, anzi inevitabile, a ogni genere di uomo e di donna):
La valenza “esistenziale” della filosofia è accentuata, secondo alcuni attenti osservatori, dalla “svolta pratica della filosofia” [11] in atto negli ultimi decenni. Così intesa, la filosofia non può generare – o piuttosto prender consapevolezza di aver generato sin dall’origine – un patrimonio ‘spirituale’? O, se si preferisce, non può dare un contributo specifico alla costruzione di una spiritualità ‘laica’, transculturale, potenzialmente universale? In questa prospettiva, ho provato anch’io a enucleare, dalla storia della filosofia occidentale, le linee essenziali di una spiritualità ‘filosofica’: dunque critica, aperta all’autocorrezione perenne, geneticamente estranea a ogni forma di esclusivismo intollerante [12].
Aggiungerei, nella speranza di apportare un contributo in più alla chiarezza senza complicare inutilmente il quadro, che è difficile praticare una “filosofia” senza per ciò stesso testimoniare una qualche forma di “spiritualità”, mentre si può essere ottimi “metafisici” (e di ciò la storia di questa disciplina ne sarà grata) senza vivere una “spiritualità” particolarmente apprezzabile. Da questa angolazione, il filosofo è più simile, se silente, al saggio e, se parlante, al profeta; il metafisico, in quanto metafisico, è invece più assimilabile al matematico o al fisico o al biologo. Nulla vieta, ovviamente, che un metafisico possa essere anche un filosofo/saggio/profeta: esattamente come lo può essere un matematico o un fisico o un biologo.
Il vangelo, ricondotto da costellazione di dogmi soprannaturali a messaggio spirituale universalmente valido, è dunque complanare a ogni altra spiritualità, compresa la spiritualità che si può ricavare dalla tradizione filosofica occidentale. Tuttavia, se è vero che una spiritualità ‘laica’, ‘democratica’, è un mosaico risultante da una miriade di tessere (ciascuna con il proprio colore e il proprio perimetro), anche in questo terreno di incontro la filosofia resta distinta dalla fede-amore (o, possiamo chiamarla adesso, dalla spiritualità evangelica, anzi da ogni spiritualità).
Infatti la spiritualità, sia essa evangelica o filosofica, islamica o buddhista, nella mia mente configura un ambito ‘altro’ rispetto alla filosofia come ricerca razionale o per lo meno ragionevole. Nonostante la prossimità – e la perfetta conciliabilità nella concretezza della sfera esistenziale di ognuno di noi – di filosofia e spiritualità ‘laica’, a-confessionale, la filosofia (anche la filosofia metamorfizzatasi grazie alla “svolta pratica”, anche la “filosofia-in-pratica”) [13] resta un’attività prevalentemente logico-argomentativa e la spiritualità un atteggiamento prevalentemente olistico, sociale e operativo. Per quanto sottile, questa distinzione analitica fra le due categorie antropologiche va, a mio avviso, mantenuta se non vogliamo approdare a oscuri grovigli piuttosto che a sintesi feconde. Fede cristiana e filosofia possono convivere a patto che la prima si declini come spiritualità e la seconda esprima la sua valenza spirituale senza limitarsi ad essa.
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