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Gaza: riflessioni sull’orrore e sulle pronunce delle Corti internazionali
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2024 @ 03:13 In Attualità,Politica | No Comments
di Lauso Zagato
Come studioso di diritto umanitario, e quindi dei crimini gravi a tale diritto connessi (crimini di guerra, contro l’umanità, genocidio [1]), incontro una iniziale difficoltà ad entrare nel merito dell’orrore in cui la situazione nel vicino Oriente è ormai precipitata. So bene che quanto perpetrato da Israele è al di là di qualsiasi giustificazione; rimane però sempre presente la consapevolezza del mio essere europeo, e della corresponsabilità storica dell’Europa, anche occidentale (Italia e Francia, purtroppo, in testa) nell’Olocausto (Porrajmos per quanto riguarda il parallelo genocidio del popolo rom). Da questo punto di vista assisto con “serena disperazione” al fatto che talora le giovani generazioni, nel loro sacrosanto solidarizzare con il popolo palestinese oggetto di una odiosa persecuzione, denotino difficoltà nel richiamare il ruolo di quel genocidio nella sequenza di avvenimenti che hanno condotto al presente: quasi gli europei di oggi non ne fossero in alcun modo toccati perché in fondo non ne erano corresponsabili neppure i loro Padri/nonni.
Sia chiaro, solidarizzo con i ragazzi; si tratta infatti dell’ennesimo guasto prodotto dal mito dell’italiano “brava gente”, sparso con eguale irresponsabilità, anche se con finalità politiche diverse, da democrazia cristiana e forze “di sinistra” nel lungo dopoguerra. A ben guardare sono gli effetti a lungo termine di tale mito ad aver consentito ai nipoti (settimini, lo concedo) dei mostri dominanti allora la scena di tornare in auge come se nulla fosse. Devo anche riconoscere che una inavvertita supposizione di estraneità, anche generazionale, nei confronti del genocidio europeo del XX secolo, era già presente, e forse più forte, nella generazione delle lotte degli anni ‘60/’70 cui appartengo. Anzi, quella favola dell’italiano brava gente siamo stati in ultima analisi noi a trasmetterla: purtroppo, anche se non è la sede per approfondire, le cose non stanno così. Di qua allora la difficoltà segnalata all’inizio; anche se poi, va da sé, la truce realtà di quanto sta avvenendo si impone comunque per forza propria.
Per una persona della mia generazione, da sempre schierata a favore del popolo palestinese e delle organizzazioni che (non sempre per il meglio, anzi, ma tant’è) lo rappresentavano, vi sarebbe un ulteriore motivo di inquietudine. La disintegrazione dell’OLP, che qui sarebbe inutile approfondire, ivi compresa l’autodissoluzione di Fatah come soggetto credibile, ha portato all’emergere in posizione dominante di un soggetto integralista religioso (a suo tempo favorito indirettamente da Israele, non andrebbe dimenticato). Non è possibile in tale situazione riproporre acriticamente uno schema interpretativo a suo tempo funzionante per le epopee dei popoli vietnamita e algerino (e non solo). Insomma: Hamas non è e non può venire visto neppure per un attimo come protagonista di un progetto di liberazione; si tratta di un’organizzazione politico-militare che persegue un progetto politico caratterizzato da un esplicito e spietato integralismo religioso (certe bieche manifestazioni sessiste ne costituiscono solo una spia). Né il 7 ottobre 2023 può essere additato a simbolo dell’inizio di una rivoluzione. Se alla generica accusa di terrorismo si potrebbe facilmente rispondere “da che pulpito!”, l’operazione avviata quel giorno – a parte l’aprire squarci di comprensione di cosa sarebbe una società civile sotto il governo di Hamas (e non si tratta certo di squarci gradevoli) – è interpretabile politicamente: nel senso però che chi pone in essere una cosa del genere appare disposto a sacrificare fin all’ultimo abitante di Gaza, ma anche della Palestina tutta, in vista della realizzazione di obiettivi altri e certo non coincidenti con la fine dell’oppressione del popolo palestinese [2].
Mi sembra peraltro che, a questo riguardo, i motivi di inquietudine abbiano oggi sostanzialmente perso la loro ragion d’essere, avendo gli eventi recenti contribuito a portare chiarezza politica, nell’ambito dei movimenti europei di solidarietà con il popolo palestinese, come all’interno dei movimenti palestinesi stessi operanti in Europa [3].
Vorrei riattraversare ora sommariamente il quadro giuridico della situazione, che è precisamente quanto viene tenuto nascosto dai media. Resterò al di qua del recente allargarsi del fronte di guerra. Ad illustrare la gravità delle condizioni in cui l’attacco del 7 ottobre si inserisce è comunque sufficiente il dato obiettivo che, tra il 1 gennaio e il 6 ottobre 2023, in Cisgiordania erano stati uccisi da militari e coloni israeliani, 199 palestinesi (di cui almeno 38 bambini), nessuno dei quali armato, se non della propria oltremodo oltraggiata dignità umana. Paura, odio, spesso vero e proprio sadismo, hanno portato all’uccisione di 199 persone che non avevano commesso alcun crimine né dato luogo a situazioni pericolose [4]. Nella sua spaventosa nudità, tale dato dovrebbe essere oggetto di riflessione da parte di ciascuno.
Allora, forniamo dati politici. Sono 145 gli Stati che riconoscono la Palestina: di questi 143 sono membri delle NU (da ultimo, proprio nel 2024, Barbados, Trinidad e Tobago, Giamaica) cui si aggiungono Città del Vaticano e Sahara occidentale, non membri delle NU. Proprio il 9 maggio del 2024, a crisi in corso, l’Assemblea generale (AG) ha riconosciuto ufficialmente la Palestina come Stato membro, con 143 voti a favore, 9 contrari e 25 astenuti. Gli Stati UE che riconoscono la Palestina sono ormai dodici, dopo che alla fine di maggio 2024 a Bulgaria, Cipro, Malta, Polonia, Repubblica ceca, Romania, Slovacchia, Svezia e Ungheria, si sono aggiunte Spagna, Norvegia, ed Irlanda [5]. Solo 9 Stati nel mondo si sono dunque opposti all’ingresso ufficiale della Palestina all’Assemblea generale. I dati sono di dominio pubblico, ma bellamente bypassati dai cosiddetti commentatori politici che ammorbano l’aria attorno a noi.
Proseguiamo: nel mese di dicembre 2023 il Sudafrica ha chiesto alla Corte internazionale di Giustizia (CIG) l’avvio di un procedimento contro Israele in relazione a possibili “violazioni nella striscia di Gaza di obblighi derivanti dalla Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio”. Lo scopo immediato del ricorso, dal momento che per le questioni di merito il procedimento impegnerà alcuni anni, era quello di ottenere dalla Corte l’emanazione di misure immediate provvisorie [6].
Il ricorso sudafricano è condotto con rigore, gli avvenimenti sono ricostruiti sulla base di inchieste condotte da organi e agenzie internazionali, sempre puntualmente richiamati. Il 7 ottobre e quanto vi fa seguito sono avvenuti in un contesto di “apartheid, espulsione, pulizia etnica, annessione, occupazione, discriminazione permanente” (par. 4), tutti elementi che possono risultare inerenti al crimine di genocidio, mentre successivamente si sarebbe aggiunta una serie impressionante di manifestazioni esplicite di intento genocidario da parte di organi dello Stato israeliano, anche di vertice. Il ricorso analizza nello specifico la presenza o meno, ex art. II della Convenzione del 1948 [7], degli elementi oggettivi del crimine di genocidio [8]; a questi si aggiunge, ed è profilo qualificante [9], l’espressione di intenti genocidari da parte di soggetti qualificati dello Stato in oggetto.
Con ordinanza 192 del 26 gennaio 2024 la Corte, pur rimandando di affrontare le questioni di merito, conviene sull’esistenza di un distinto gruppo nazionale, etnico e razziale palestinese e, affermando la plausibilità del rischio di genocidio di tale gruppo, si dichiara concorde con il Sudafrica circa la necessità di emanare immediate misure, per evitare il rischio che venga arrecato “pregiudizio irreparabile ai diritti reclamati prima che la Corte emetta la decisione finale” (punto 61). Nel corso dei mesi, nella causa principale si sono intanto aggiunti al Sudafrica altri Stati: Nicaragua, Palestina, Turchia, Spagna, Messico, Libia, Colombia [10]. Aggiungo, sempre in relazione alla causa principale, che il Sudafrica ha annunciato l’intenzione di presentare ulteriori prove del genocidio davanti ai giudici entro la fine del presente mese, o comunque del 2024 [11].
Proprio perché il reato di genocidio richiede, oltre all’esistenza di una prassi distruttiva, lo specifico intento di eliminazione del gruppo umano target, l’unica delle accuse in relazione alle quali c’è stata una (apparente) presa di responsabilità israeliana è costituita dalla cessazione delle prese di posizione semi-ufficiali di quadri, intermedi come di vertice, dell’esercito, come pure di ministri e dello stesso Presidente della repubblica circa quello che andava fatto a Gaza (uccidere tutti gli abitanti che non fossero già scappati all’arrivo degli israeliani). A tale riguardo quel governo, sostenendo trattarsi solo di dichiarazioni isolate di quadri “intermedi” (sic!), ha annunciato di aver ordinato il silenzio. In effetti, si è notata in seguito una maggior attenzione di Israele di ricondurre alla necessità di autodifesa dal terrorismo ogni genere di azione, anche le più sanguinose [12].
Le proteste dei familiari delle vittime di Sebrenica davanti al Tribunale di giustizia dell’Yugoslavia (novembre 2017)
La CIG, va ricordato, è estremamente cauta quando si tratta di genocidio: in tutti i casi affrontati non ha mai riconosciuto la responsabilità diretta genocidaria in capo ad uno Stato. Anche quando il genocidio è stato confermato, come in relazione ai fatti di Sebreniza [13], la Corte non ha trovato prove dirette atte ad attribuire la responsabilità allo Stato serbo. Di tale prudenza va preso atto. Resta che, mi permetto di constatare, il gruppo dirigente israeliano ha espresso la doppia intenzione di distruggere dalle fondamenta Gaza con quanti c’erano dentro se non fuggivano, e di togliere di mezzo il problema palestinese una volta per tutte, con toni ben più espliciti e diretti (nel senso di invito alle uccisioni di massa) di quanto avessero mai fatto i capi di Belgrado nei confronti della popolazione bosniaca [14].
L’altra giurisdizione internazionale intervenuta nella crisi è la Corte penale internazionale (CPI). Anche qui premetto alcuni dati: lo Statuto della Corte [15] è stato ratificato al momento da 123 Stati, tra i quali non figura Israele, mentre la Palestina è parte dello Statuto dal 2015. Di conseguenza la giurisdizione della Corte ricade sui territori occupati e sulle zone di confine, oltre che su Cisgiordania e Gaza; non sussiste invece per quanto avvenuto o avvenga all’interno di Israele [16]. L’ufficio del procuratore (Office of the Prosecutor, OTP), che già indagava sui crimini i guerra commessi da Israele in Cisgiordania e a Gaza a partire dal 2014, dopo ricerche volte in particolare a raccogliere testimonianze tra quanti lavoravano all’ospedale principale di Gaza (Al Shifa) e a quello di Khan Younis (Nasser), ha richiesto alla CPI di emanare mandato di cattura internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti del premier israeliano e del ministro della guerra Yoav Gallant, nonché di tre esponenti di vertice di Hamas [17]. Lo stesso Ufficio – tenendosi come si vede alla larga dalla questione della qualificazione o meno come genocidio del comportamento israeliano – ha reiterato la richiesta in data 10 settembre, chiedendo alla Camera incaricata di vagliare la richiesta di procedere con la massima velocità alla luce dell’intensificarsi degli episodi criminali in corso.
L’assenza di risposte – se non insultanti – alle prese di posizione delle due Corti da parte di Israele come dei Paesi occidentali quasi al completo è cosa ben nota, e l’ipocrisia arrogante che trapela è stata messa bene in luce dai (residui) organi d’informazione non dipendenti dagli assetti di potere transnazionali. Ci si può piuttosto interrogare sul significato e sugli effetti delle richieste di mandati ad personam, avendo a mente anche quanto successo nel caso Putin. Senza entrare nel merito delle situazioni concrete sottostanti, e preso atto che in entrambi i casi il mandato è stato richiesto nei confronti di esponenti di primo piano di Stati non parte allo Statuto, vi è una differenza decisiva: nel caso Putin la campagna nei confronti della Corte (per farle emettere il mandato) era stata condotta principalmente, avvalendosi di mezzi di pressione politico/propagandistica, da parte di Stati che dal canto loro si guardano bene dall’accettare la giurisdizione della CPI (Stati Uniti, la stessa Ucraina): si è creata così una situazione che definire bizzarra è poco. Al contrario, il procedimento nei confronti dei vertici israeliani è ben radicato nell’osservanza del testo statutario. Esiterei poi, in entrambi i casi, a dire che l’effetto pratico delle mosse dell’OTP e delle Camere CPI sia nullo: al di là del profilo simbolico, va messa in conto la difficoltà di movimento internazionale che si viene comunque a creare per i personaggi interessati, donde un senso (parziale) di soffocamento nei confronti del complesso dell’establishment del Paese i cui vertici siano stati colpiti dalla misura, per quanto non concretatasi.
Più che procedere ad alcune osservazioni conclusive, mi limito ora alla segnalazione di temi su cui si dovrà necessariamente (e in parte sta già avvenendo) concentrare l’attenzione politico-scientifica. In via preliminare è intanto evidente come la situazione si sia indirizzata al peggio: certo in primo luogo per gli abitanti di Gaza e palestinesi, ma più in generale per tutti gli abitanti del vicino Oriente, nel mentre sordi rimbombi (politici, militari, culturali) annunciano il dispiegarsi a livello globale della rete dei bio-poteri.
Spendo due parole sul secondo dei temi emergenti. Risulta invero decisamente non corretta ogni suggestione di equiparazione tendenziale con il genocidio europeo della prima parte del secolo scorso. Il discorso ed il confronto vanno spostati su di un piano diverso. Merita seguire alla lettera l’affermazione del Sudafrica all’inizio del ricorso: in presenza di un rigido e spietato sistema di apartheid, è corretto e naturale, si afferma, che sia proprio il nuovo Sudafrica, uscito dall’orrore del regime di apartheid di matrice boera, a portare la gravità della situazione all’attenzione del mondo. Del fatto che il confronto vada fatto con la (oscura) era coloniale dell’Europa, nella sua faccia più dura, non si deve dubitare. La similitudine è già nella forma mentis, oltre che nel vocabolario, dei nuovi (cosiddetti) colonizzatori. Esiste un peccato originale: la proposizione iniziale “un popolo senza terra per una terra senza popolo” contiene già in nuce i drammi successivi, come è stato ben osservato da molti, anche su Dialoghi Mediterranei. Per non parlare dell’uso del termine “coloni” per i gruppi di irregolari che espandono senza sosta, attimo per attimo, come formichine sanguinarie, il dominio dello Stato/popolo dei credenti a scapito dei nativi. Il linguaggio usato a sproposito, ai limiti del grottesco, è quello del Mayflower, ma il termine di confronto più adatto resta quello del colonialismo europeo in Africa ed Asia, con il suo spaventoso carico di orrori. È giusto anche correggere l’affermazione ricorrente degli intellettuali africani dell’età della de-colonizzazione secondo cui ciò che rende unico il nazismo è l’avere usato nei confronti di altre popolazioni europee i sistemi che fino a quel momento erano stati utilizzati dagli europei tutti, ma solo nei confronti delle popolazioni “di colore”. Non è proprio così: il nazismo ha messo in opera la più ampia operazione bio-politica fondata sul sangue che il mondo abbia (finora) conosciuto. In questo senso, davvero, Olocausto e Porrajmos non possono avere paragoni. Ma i progetti di pulizia etnica cominciati, e spesso portati a compimento dagli Stati europei negli altri continenti in età coloniale [18], si muovono sullo stretto confine che separa – o più spesso crea tenebrosa osmosi – tra i diversi tipi di crimine. Si tratta di un tema su cui bisognerà tornare appena possibile.
Quanto agli ultimi due temi emergenti, mi limito a farne segnalazione. Per un verso, la guerra contemporanea, alla luce delle nuove armi, offre ripercussioni immediate sul terreno giuridico, mettendo decisamente sotto stress (sia concessa l’espressione tutt’altro che tecnica) il quadro del diritto umanitario vigente. Strettamente avvinto è il nodo dell’utilizzo delle nuove tecnologie con finalità di distruzione del patrimonio e sterilizzazione delle identità culturali dei gruppi umani target. Su tali temi sono attualmente in corso lavori di approfondimento scientifico, vi sarà dunque modo di tornarci.
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