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I cupi labirinti del potere e la Rivoluzione di Bella Baxter
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2024 @ 01:55 In Cultura,Immagini | No Comments
Sguardi sul cinema
Con il numero 67 Dialoghi Mediterranei battezza un nuovo spazio: “Sguardi sul Cinema”, che del tutto nuovo non è. Da anni la Rivista tratta e dibatte di e sul cinema, esplorato in numerose declinazioni e generi, inteso quale “fonte non convenzionale” in grado di sollecitare riflessioni inclusive e transdisciplinari. Essere inclusivo e transdisciplinare è, peraltro, attributo precipuo della nostra Rivista, dove studiosi e studiose di numerosi ambiti si confrontano, cercando intersezioni e affinità, attivando dibattiti e feconde diatribe culturali.
Su sollecitazione del Direttore, mi è stata affidata la cura di questa neonata “arena” dove scriveranno, su un prodotto cinematografico specifico scelto per ogni numero, alcuni autori e autrici. Verrà, infatti, lanciata un’informale call tramite cui invitare alcuni studiosi/e che, sollecitati da un film, un documentario, un medio o un lungo metraggio reputato significativo, elaboreranno un contributo, specchio del proprio sguardo.
Questa occasione rimanda a un’esperienza da me condotta su ASUR, Archivio di Studi Urbani e Regionali (FrancoAngeli editore), dove ho curato una Rubrica simile intitolata “Città, Cinema e Letteratura”, varata nel 2005, nel n. 82 dell’importante Rivista scientifica. Elemento comune alle due esperienze è chiedersi come il cinema (e la letteratura) possa contribuire ad accrescere la conoscenza sui contesti umani, sui fenomeni sociali, sul mondo delle relazioni, sulla città, sui luoghi, tra concretezza, evocazione e simboli, rappresentandone la complessità, attraverso una specifica narrazione verbo-visiva.
“Sguardi sul Cinema” non intende, quindi, unicamente ragionare su un prodotto cinematografico in termini critici o storico-critici, ma vuole enfatizzare il ruolo del cinema come strumento che attivi il dibattito su temi nodali, come pure attraverso la comparazione tra i vari contributi che colgono, anche in base alla formazione e agli sguardi degli autori e delle autrici coinvolte, le suggestioni sollecitate dal film o dal documentario proposto.
Apre la “festa” un film che ha toccato profondamente e ha fatto discutere molti: Poor Thinghs di Y. Lanthimos, uscito nel 2023 e vincitore di quattro premi Oscar. Gli autori e le autrici che hanno scritto sull’articolato, visionario e perturbante ultimo lavoro del regista greco sono: Annamaria Clemente, Aldo Gerbino, Giulia Panfili, Valeria Salanitro, Flavia Schiavo, Giuseppe Sorce, Nuccio Zicari.
Multiforme sul piano estetico, simbolico, culturale, il film di Yorgos Lanthimos ha mosso articolate considerazioni che presentano elementi ricorrenti, dall’essere visionario o steampunk, retro-futurista, stratificato, all’uso del CGI, la computer-generated imagery, a questioni più specifiche. Fulcro di alcuni saggi, la questione del potere e della conflittualità tra i personaggi, in dialogo con l’individuazione non solo della protagonista; mentre al centro di tutti gli scritti il corpo, il conflitto tra corpo biologico e corpo vissuto, e la sperimentazione compiuta dal e sul corpo (e sul dualismo mente-corpo, inteso in chiave evolutiva), sul corpo-laboratorio e corpo sociale, dalla protagonista e da Godwin. Quest’ultimo interprete e rappresentazione di un “dio” incarnato, scienziato che sfida i limiti dell’umano, ingegnere bio-tecnico, che produce esperimenti “teratologici”, corpi anomali, ibridi non convenzionali, sfidando la morte, affrontando implicitamente il rapporto tra scienza e natura, tra mezzi e fini, tra tecnologia, sperimentazione e obiettivi.
Autori e autrici si chiedono, difatti, quale sia il limite tra umano e divino e come la manipolazione stessa possa (debba, o non debba?) “creare” un individuo, rendere possibile una rinascita inizialmente senza consapevolezza del passato, partendo da un suicidio interpretato come una potente metafora che narra la decostruzione del genere femminile, sino a configurare una rinnovata e originale identità da un lato e, dall’altro, un essere “mostruoso”, chiedendosi cosa tale termine significhi se, per esempio, sia applicato al femminile. Scandagliando il mostruoso sociale o comportamentale (non fisico in questo caso, data l’avvenenza della protagonista) in alcune delle sue declinazioni. Un elemento comune nei testi, infatti, sta nell’avere aperto una riflessione sulle regole trasgredite o imposte, sul presunto o concreto portato femminista del film e sul rapporto di dominio tra soggetti e tra il maschile patriarcale e quel femminile che, da soccombente, ribalta la propria condizione (controllata, osservata, diretta) cessa di sottomettersi perseguendo una propria auto-determinazione. In forte e autentico rapporto con la biopolitica dei corpi, con l’erotismo come azione piena di gioia e con la pulsione libidica, con la società, le sue regole e le sue gabbie precettistiche da scardinare, con le pratiche sociali fortemente limitanti, sia per Bella, sia per le altre donne, che per gli uomini, anch’essi prigionieri di stereotipi e cliché. Alcuni tra questi, entrando in relazione con la distruzione creativa di Bella, rinnovano se stessi, altri ne escono schiacciati e annichiliti.
È presente nei saggi, inoltre, una forte risposta alla sessualità come campo di conoscenza, come espressione di libertà, al tono fantastico o fiabesco, e alla complessa, esplicita, ridondante e strutturata estetica del film, dei suoi personaggi, dai volti, ai costumi, alla scenografia, all’uso del fish-eye, alla rappresentazione urbana, messa in rapporto con le emozioni e le atmosfere vissute, con la fase storica raccontata, relativa alla II Rivoluzione industriale e con la logica meccanicista di quel periodo, richiamando oltre alla storia aspetti contemporanei.
La ricchezza del film di Yorgos Lanthimos, criticato solo da uno dei contributi che confuta il valore rivoluzionario della parabola esistenziale di Bella, ha sollecitato una vasta rete di connessione e di rimandi a opere o correnti artistiche (come quella preraffaellita che ritrae una bellezza femminile ideale), novelle, film, saggi, tra gli autori e autrici citati M. Shelley, J. Offenbach, D. Le Breton, G. Devereux, R. Barthes, F. Lang, F. Nietzsche, una famiglia di opere che aiutano a comprendere il farsi dell’individualità di Bella, la sua incorporazione culturale, il valore fortissimo dell’esperienza empirica come campo di crescita e sperimentazione del proprio sé, anche attraverso il registro linguistico e lessicale. Se pur la protagonista esplora la realtà, costruendola attraverso il corpo, tutti e tutte hanno notato quanto la pratica corporea venga coniugata sia con la ricerca compiuta nel viaggio di formazione, un viaggio dell’eroe quale occasione per costruire strumenti per decodificare il mondo, sia con la spinta ontologica. Come se a partire dal proprio sé interrogante si attraversino emozioni individuali e collettive, pathos, dolore per le povere cose del mondo, in un percorso progressivo di decentramento oltre se stessi, scandagliando questioni universali che non appartengono solo alla protagonista e al suo tempo, ma a tutti noi, qui e ora.
Tra l’individuazione del sé, di una donna che integra il fanciullo divino e l’eroe junghiano, e come rilevano i contributi, il film racconta città, luoghi, fasi storiche come il Capitalismo e le sue dinamiche di produzione e i processi, che uccidono l’idea di Dio precedente e ridimensionano la visione di Natura, prefigurando nuovi paradigmi e pratiche che, dall’ipotetico, scandagliano il possibile, attraverso la tecnologia e la scienza.
Gli autori e le autrici con la loro interpretazione pongono grandi questioni: quali sono i limiti dello sviluppo? Sino a che punto ci si può spingere nella manipolazione dei corpi? È possibile, attraverso la genesi del sé, identificando il proprio telos, vincere il buio, coincidente con l’incoscienza, e alimentare la luce coincidente con la libertà e con la consapevolezza? In un processo unico che da individuale possa configurarsi come collettivo, attraverso un viaggio empirico e insieme filosofico?
In definitiva, se i processi disumanizzanti del capitalismo hanno trasformato la società in prodotto in serie, la città in luogo di profitto dove prevalgano le logiche di mercato, dove il valore di occupazione dello spazio si impone sul valore d’uso della cittadinanza, il film discute su come si possa combattere la segregazione, riflettendo su quali siano i diritti del mondo e dei soggetti che lo abitino, in scambio e rispetto reciproco.
Dio è morto?
Poor Thinghs [1], di Yorgos Lanthimos, da molti definito film “femminista” (di questo si dirà più avanti), ci conduce dentro due macro-temi che innervano numerosi altri film del regista greco: l’individuazione del sé e il potere. Più in dettaglio la stretta correlazione tra la costruzione della propria identità e il potere e, nello specifico, l’esercizio coercitivo del potere manipolativo, oscuro e abusante, la frenesia per conquistarlo, gli esiti di tale potere, le modalità per sfuggirvi, i conflitti tra i soggetti coinvolti, l’eventuale ribaltamento dei ruoli attraverso la sperimentazione e l’esercizio di libertà precluse o negate mirando verso la propria personale e progressiva individuazione.
Tra i lungometraggi, The Lobster, premio della Giuria del Festival di Cannes, primo film del regista greco girato in inglese nel 2015, ambientato in un’indefinita epoca in cui il potere stesso agisce ambendo a essere l’unica forma di controllo totale e mirando a una società rigidamente organizzata in coppie che abbiano una o più affinità reciproche tra i rispettivi membri. In questa pellicola la sorveglianza coattiva agisce su ogni personale consapevolezza, esperienza ed esplorazione libera del reale, sia nella sfera pubblica che in quella interiore e privata, vietando ai reclusi persino la masturbazione, costringendo le persone – “segregate” in spazi specifici divisi da confini fisicamente e simbolicamente invalicabili (l’albergo, la città, il bosco dove vivono i ribelli) – ad accoppiarsi, saranno ospitate per massimo quarantacinque giorni in un albergo fuori città, pena essere trasformate in un animale scelto da loro.
Doghtooth, 2011
O come in Kynodontas, (Dogthooth) del 2011, dove tre giovani sono tenuti in cattività dai genitori in una lussuosa villa o, ancora, come ne The Favourite, del 2018, in cui viene messa in scena, in una ricca dimora regale [2], una brutale triangolazione fra donne realmente vissute che lottano per autoaffermarsi senza remissione di colpi. Protagoniste – ignave, sofferenti, crudeli e soccombenti, della recente opera del cineasta greco, ambientata agli inizi del XVIII secolo, che ha ricevuto dieci candidature agli Oscar 2019 e cinque ai Golden Globe – sono la Regina Anna (Olivia Coleman, Oscar alla miglior attrice protagonista; Coppa Volpi al Festival di Venezia) che imperava all’inizio del XVIII secolo mentre la Gran Bretagna era in guerra con la Francia, Sarah Churchill (Rachel Weisz), duchessa di Marlborough, responsabile delle finanze della Casa reale, e Abigail Hill (Emma Stone), una nobildonna cugina di Sarah che, ritornata a corte come sguattera dopo esser caduta in disgrazia, comincia a esercitare infimi lavori per poi affermarsi ambiguamente sino a diventare sia la concreta detentrice del potere, sia l’assoluta favorita della Regina, a discapito di chiunque intendesse fermarla.
The Favourite, 2018
Fil rouge (fil noir, potrebbe dirsi, più propriamente) delle opere citate è l’avere portato alle estreme conseguenze – spesso con una potente traslitterazione simbolica e allegorica, con un’innegabile energia visionaria fortemente estetizzata, entrando impietosamente nelle ferite e nei traumi dei personaggi e delle società rappresentate – oltre il piano del reale, dell’immaginabile e del possibile il ruolo e gli effetti di un potere spietato e assoluto, non narrato unicamente in relazione alla percezione del o della soccombente, bensì raffigurato senza alcuna empatia, e in base alla rabbia o all’interazione conflittuale tra i dominanti e i dominati che lottano per rivendicare e scoprire la propria autenticità.
Anche Povere Creature, Poor Thinghs il titolo originale, presentato alla 80a Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove si è aggiudicato il Leone d’Oro, centra tale questione. Vincitore di quattro premi Oscar [3], il film è tratto dal libro omonimo, pubblicato nel 1992, dell’autore e artista scozzese Alasdair Gray (1934-2019) – noto per il suo influente capolavoro letterario, Lanark del 1981, e per altre opere spesso riccamente illustrate – vincitore sia del Whitbread Award che del Guardian Fiction Prize nel 1992.
Copertina del libro di A. Gray
Il romanzo, di cui si discute in sintesi e che meriterebbe un’autonoma trattazione [4], e il film, pur nell’originalità della trama, rimandano a una specifica famiglia di opere cinematografiche recenti [5], ma principalmente a narrazioni tardo ottocentesche, come quelle di Arthur Conan Doyle, o gotiche, tra cui Frankenstein di Mary Shelley.
Il romanzo Poor Thinghs, attribuito nel volume stesso a uno scrittore differente dallo stesso Gray [6] – nella cui introduzione[7] si racconta la “scoperta” della vicenda raccontata da parte di Michael Donnelly ed Elspeth King – riferisce e si avvale di una rete di fatti, anche reali, strettamente collegati al grande romanzo di Mary Shelley (1797-1851), il già citato Frankenstein; or, The Modern Prometheus, pubblicato nel 1818.
È utile infatti rammentare che anche le vite dei genitori dell’autrice di Frankenstein, William Godwin (1756-1836) e Mary Wollstonecraft (1759-1797), rispettivamente un importante filosofo politico ispiratore del Romanticismo inglese, tra i primi teorizzatori anarchici moderni, e una filosofa, saggista e scrittrice britannica, figura fondamentale fondatrice del femminismo moderno, influenzarono profondamente le atmosfere del romanzo di Gray, rispecchiate nel film. Basti ricordare che il “faber” che genera, con la propria “impresa” blasfema, la protagonista del romanzo e del film, Bella Baxter, si chiama Godwin Baxter. Una sorta di nomen omen (God-win, Dio vinca) che, esprimendo il profondo dissidio della fase industrializzata, tra natura e cultura, celebra il delirio di onnipotenza umano nell’Antropocene, mentre mette in discussione l’esistenza e il potere assoluto di Dio evidenziando e anticipando, come aveva affermato Friedrich Nietzsche ne La Gaia scienza (1882) e in Così parlò Zarathustra (1885), il crollo del mondo occidentale nell’ultima fase del Novecento e la caduta dell’ordine morale e teologico.
Frankenstein or the Modern Prometeus di M. Shelley, 1818
Con la Rivoluzione industriale, come si legge nel romanzo di Gray, «la Gran Bretagna è diventata l’officina industriale del mondo», in tale stadio, infatti, lo sviluppo della tecnologia inizia a infirmare persino il paradigma darwiniano e, con la pretesa di governare i processi evolutivi e i cicli naturali, soprattutto, tende a eclissare l’ordine divino, sostituito dall’ordinamento umano, profondamente ego-riferito. Ecco l’uomo, sganciato dal proprio passato, che crea – non più empio nel suo paragonarsi a un Dio perduto o ridimensionato, di cui non si abbia più bisogno e al quale non ci si affidi – un altro essere umano, salvandolo sia dal vincolo con il Padre celeste cui si debba rispetto, sia dalla morte, sostituendosi al sommo creatore dell’Universo, «Primo Artefice di Tutte le Cose» (come afferma Gray), negandone il ruolo prima pienamente riconosciuto.
Tale questione, che pone al centro la revisione dei concetti di “volontà” e di potere, il dissidio con l’ordine naturale, la rivolta dell’uomo che si oppone alla morte, che nega i valori religiosi o trascendenti, sfidante, contro il suo Creatore, viene trattata da numerosi film e serie, tra cui Homunculus, del 1916. Tale serie, muta, diretta da Otto Rippert (Fritz Lang fu assistente di regia), distribuita a Berlino in sei parti tra il 1916 e il 1917, fu ispirata al poema omonimo, scritto da Robert Hamerling nel 1888, narra di un essere creato artificialmente che si rivolta contro il suo ideatore, come accade anche nei film sul Golem [8]. La ribellione dell’“omuncolo”, che cerca l’amore, nasce quando questi si rende conto di non provare emozioni e, con furia, produce scompiglio in un villaggio, mentre il suo creatore cerca di distruggerlo.
Godwin Baxter
Lo stesso Godwin Baxter del film Poor Thinghs, il “God” vivente che potremmo definire un ingegnere bioetico ante litteram, è a propria volta vittima del padre (nel libro, il dottor Colin Baxter), un chirurgo che, pur affermando “Always carve [9] with compassion”, ha compiuto su di lui ogni sorta di sperimentazioni inducendo cambiamenti mostruosi, morfologici e funzionali, nel corpo e nel volto del figlio. Godwin Baxter, insieme vittima e artefice, rimanda al dottor Victor Frankenstein (del romanzo di Mary Shelley) che, in dialogo conflittuale con il dualismo vita-morte, generando la vita dalla materia inanimata, intende esorcizzare la morte, perseguendo l’illusione del superamento del trauma collettivo (l’essere mortali) e della propria ferita personale causata dalla perdita della madre. Godwin, però, a differenza del dottor Victor Frankenstein e di suo padre, il dottor Colin Baxter, persegue la bellezza e una sorta di armonia naturale ripensata attraverso il suo intervento, pone in parziale discussione il proprio operato, limita il proprio intervento al trapianto iniziale, favorendo, in fondo, il libero arbitrio di Bella. Godwin, quindi, appare prossimo a un dio più umano e clemente, meno incline al ricatto e alla punizione, confutando così il senso del peccato e di colpa di matrice cattolica.
La pellicola Poor Thinghs, aprendo tali confronti dialettici, contiene alcune fondamentali domande ontologiche sul senso dell’essere umano e, ponendo in evidenza un ulteriore nodo contemporaneo, esplora quale sia lo scopo della scienza, della tecnica e le capacità incrementali di realizzare, tramite la tecnica stessa, strumenti utili, entrando nelle pieghe del Capitalismo e del variabile rapporto tra mezzi e fini, tra tecnica e obiettivi.
Homunculus, 1916
L’azione sperimentale di Godwin Baxter, inoltre, non unicamente mirata alla creazione del nuovo individuo, scalfisce il concetto di verità concepita come ordine immutabile. Uscendo dalla routine, e osando, lo scienziato desidera, esplora, soprattutto realizza, “scrive” nuovi paradigmi, prefigurando rivoluzioni scientifiche e tracciando nuovi confini rispetto alla libertà individuale, alle traiettorie previste o eterodirette. Codificando, però, principalmente, uno sviluppo senza limiti, inedite modalità, insite nel Capitalismo e nel dominio della scienza, di relazione con la Natura, non più intesa come Madre insindacabile. È in quella fase, infatti, che si rompe il patto implicito tra umanità e Natura
La stessa sperimentazione scientifica in epoca post illuminista confuta sia l’idea di un sapere stabile, sia l’iter naturale e morale. Tale sapere, percepito dalla fine del XVIII secolo, come gabbia o valico da superare, viene continuamente stravolto e smentito dall’innovazione e dalla prova dell’efficacia teorica, in itinere. La critica stessa coincide con la rivolta verso Dio e la sua legge: come osserviamo durante il dispiegarsi della narrazione cinematografica, la verità della sperimentazione e dell’azione si sostituisce alla verità assoluta, dimostrando quanto non solo le macchine, ma i corpi possano essere manipolati, capaci di sconfiggere persino la morte.
In tale racconto il nodo della soggettività umana attiva, intesa in termini non unicamente speculativi, viene quindi esasperato, come se lo stesso Godwin, intollerante al diktat divino profondamente legato ai ritmi naturali del binomio vita-morte, agisse sulla trasformazione e sui cicli catabolici (anche essi parte fondamentale e ineluttabile delle fasi di natura), grazie alla trasmutazione rivoluzionaria di un corpo esanime. Una mutazione etica ed estetica: come gli artisti delle Avanguardie che, con l’arte astratta, abbandonarono la forma e il modello figurativo prima vigente.
Se Godwin assume il ruolo di un faber quasi sovra-umano, Bella, come Eva nella narrazione della Genesi (3: 6), vera protagonista della rivoluzione, esplora le regole contravvenendole, e rompe la dialettica servo-padrone, annientando il potere e chi lo intenda esercitare su di lei. La giovane donna, dotata di una fede laica in se stessa costruita progressivamente, non chiede salvezza al Padre celeste o al proprio creatore, che uccide freudianamente, per poi riappacificarsi, rifiuta l’idealizzazione maschile [10] e lo stereotipo femminile, non si affida a chi l’abbia generata o a un uomo che, secondo una concezione vigente, la guidi o la possegga, ma rileva la contraddizione interna al dominio maschile (la terribile coniugazione tra un amore enunciato e la violenza costrittiva [11]), costruisce la propria indipendenza salvifica, fondandola sul piacere, sull’esperienza soggettiva e autodeterminata, sulla conoscenza, come afferma Madame Swiney, la tenutaria del bordello parigino dove Bella lavorerà, «And when we know the world, the world is ours». Bella, che ribatte, «I want that», e più avanti aggiunge: «If I know the world I can improve it», scopre la propria volontà, attraverso la sessualità, il pensiero, l’azione volontaria, il socialismo, il dolore, l’empatia, in definitiva tramite la libertà sperimentata, inizialmente non dotata di un esplicito telos.
La rinascita di Bella
Dalla morte alla vita, per una nuova consapevolezza
Come si legge nel libro di Gray, in una Glasgow tardo vittoriana, il «18 FEBBRAIO 1881: Il corpo di una donna incinta viene ripescato dal fiume Clyde. Il medico della polizia, Godwin Baxter (residente al numero 18 di Park Circus), certifica la morte per annegamento e descrive il cadavere come quello di una “donna di circa venticinque anni, alta un metro e ottanta centimetri, capelli ricci e scuri, occhi azzurri, carnagione chiara e mani non abituate a lavori pesanti; ben vestita”. Viene pubblicata la descrizione del corpo, ma nessuno lo reclama».
Dopo l’opening cinematografico che mostra, in una Londra vittoriana, tra luci bluastre, il suicidio e il corpo di Victoria Candless cadere nel Tamigi da un alto ponte (Bella chiederà, alla fine del film: «What was the root of the unhappiness? What drove her off a bridge?»), inizia la vicenda che nel giro di pochissimo tempo sovvertirà l’esistenza dei protagonisti, legati alla storia di formazione di Bella, figlia, come si apprende nel romanzo di Gray, di «un chirurgo geniale» che «utilizzò resti umani per creare una donna venticinquenne».
Il suicidio di Victoria Blessington
Tale creazione viene compiuta trapiantando alla donna rianimata, Vittoria Candless appunto, il cervello del figlio ancora vivo che ella portava in grembo, dando così vita a un essere che ha un corpo di donna e una mente che si affaccia al mondo con la leggerezza del “vuoto”. Pur riconoscendo il peso dell’ambiente e della genetica, Bella esperisce, infatti, il contesto senza nessun gravoso apriori, nessuna conoscenza pregressa, con un nuovo nome [12], nessun ricordo, nessuna esperienza. In forte rapporto con il suo habitat, lo scardina, integrando la pulsione infantile verso la vita con la pulsione matura mirata a raggiungere la propria identità.
La città in cui si svolge inizialmente la vicenda nel libro è Glasgow che, oltre a essere la patria di Gray, assume una centralità peraltro presente in altre opere dell’autore (es. in Lanark). Le città oltre alla propria concretezza possiedono infatti una vita grazie alla percezione e alla immaginazione letteraria o cinematografica e, in una certa misura, è proprio dall’intersezione tra immaginazione e realtà, e dal ritrovamento di un libro, che prende vita la storia di Bella.
Bella sperimenta il mondo
Tale ricerca consente a Michael di trovare un cumulo di antichi schedari, lettere e documenti risalenti ai primi anni del XX secolo. In questi «rifiuti di uno studio legale ormai chiuso» tra i passaggi di proprietà che avevano contribuito a dar forma alla città fin dalla sua origine, si trova il nome della prima donna laureata in medicina all’Università di Glasgow. Tale nome, noto solo agli storici del movimento delle suffragette, pur essendo stata autrice di un pamphlet sulla salute pubblica, suscita curiosità in Michael che decide di esaminare accuratamente i documenti, chiedendo il permesso allo studio legale che li aveva eliminati. Lo studio, negando il consenso per mantenere il segreto sulle attività di un cliente, accusa Michael di furto. Questi porta con sé solo una busta sigillata, casualmente rimasta in tasca, che contiene un libro e una lettera. Il primo, che contiene la storia di Bella (Victoria), è rilegato in tela nera, sul frontespizio recava la dicitura: “Episodi della gioventù di un funzionario scozzese di salute pubblica / Archibald Mccandless M.D. / Incisioni di William Strang / Glasgow: Pubblicato per conto dell’autore da Robert Maclehose & Company, Stampatori per l’Università, 1909”.
Con queste premesse già contenute nel volume di Gray e assistendo alla narrazione cinematografica, che mischia un iniziale bianco nero con colori e riprese stranianti, è facile, ma riduttivo, definire Poor Thinghs un film femminista. Se nel contesto geografico e temporale narrato, le donne erano, ancor più che oggi, vessate da regole comportamentali di matrice patriarcale va, però, sottolineato quanto la scelta di Lanthimos sia, probabilmente, guidata dalla natura precipua del femminile e dai suoi cicli fisiologici ed esistenziali: solo una donna vive la propria individuazione in costante rapporto con il processo generativo di un altro individuo, anche se non esperisca concretamente la maternità, solo una donna porta nel contempo in sé, due (o più) individui viventi.
Ulteriore elemento chiave del film è l’aver indagato ciò che Jung [13] definisce «l’esperienza primordiale del fanciullo». Bella contiene entrambi gli archetipi junghiani del fanciullo divino e dell’eroe. L’eroe, che ha un carattere profondamente umano e raffigura, secondo lo psicanalista svizzero, l’azione positiva favorevole all’inconscio, è capace di trarre la vita dall’oscurità del grembo materno, seguendo il proprio daimon. Il percorso che Bella compie, infatti, può essere assimilato a un viaggio concreto e insieme profondo per il risveglio della propria coscienza. Strumentalmente, questa diventa la coscienza di tutte le donne e, agendo un potente livello di identificazione soprattutto nelle spettatrici, muove la convinzione che Poor Thinghs sia un film femminista.
Bella e Duncan
Conclusioni
Minacciata da figure potenti che intendono ingabbiarla e possederla, Bella combatte l’annientamento grazie al suo essere, come appunto direbbe Jung, un eroe e un fanciullo divino. Alla fine della vicenda la protagonista sostituisce il padre, God-win, ne prende il posto. Creata da lui, incarna le forze vitali alla radice della sua stessa nascita, ha uno scopo: realizzare se stessa, seguendo ciò che per lei è quella legge di natura manifestata nelle sue azioni.
Fin dai primi giorni la protagonista attraverso le percezioni e l’esperienza del corpo, sfuggendo alla coazione sociale [14], sviluppando l’abilità argomentativa e il linguaggio (perdendo poi, come dirà Duncan, l’adorabile modo di parlare post rinascita), con la scoperta del piacere, animata da una forte libido, anticipa l’individuazione che si compirà alla fine del film. Pesta con forza e disordinatamente sui tasti di un pianoforte, fa pipì per terra, accoltella quasi per gioco un cadavere nella sala operatoria di God, ma, esplorando questioni ontologiche, chiede a Godwin da dove lei stessa venga.
Tutto ciò che accade – circondati da un mondo fantastico dove si aggirano animali ibridi frutto delle sperimentazioni di God, di cui gli spettatori e le spettatrici sono testimoni, ripreso con un fisheye[15] che aumenta il disorientamento e l’atmosfera onirica – è finalizzato alla genesi del sé. La sua azione, il telos, è vincere il buio, coincidente con l’incoscienza, e alimentare la luce coincidente con la libertà e con la consapevolezza, un processo unico che Bella compie nell’approssimarsi al Sé, in una progressiva integrazione e unificazione di ciò che forma la sua personalità. Vengono colti i simboli non solo al proprio interno, ma anche nel mondo che la circonda, attivando un percorso che designa un viaggio empirico e insieme filosofico.
Il processo di individuazione di Bella non va confuso con il divenire cosciente del suo io. Se questo fosse identificato col Sé, l’individuazione sarebbe diventata semplice egocentrismo. La sua identificazione invece include il mondo, mentre la sua infinita fame di esperienze e di conoscenza riguarda il nutrire se stessa e gli altri.
Scrutata fin dall’inizio dall’assistente di God, Max McCandles, e trattata come un esperimento scientifico, inizia a osservare autonomamente, cambiando il punto di vista, sottraendosi all’indagine entomologica, salendo sulla terrazza, esplorando una mappa geografica e poi viaggiando, negoziando la propria libertà con il padre e con l’assistente innamorato di lei, con cui God l’ha fidanzata.
Il viaggio di Bella
Il viaggio fatto con Duncan, che si invaghisce di lei per poi esserne disgustato e annichilito, è il primo passo verso l’autonomia. Inizierà infatti a uscire da sola a Lisbona, prima tappa del viaggio, dove sperimenterà il rapporto tra l’eccesso dell’esperienza e il suo limite. E ancora tra le altre città, tra cui Atene, Alessandria e Parigi, rappresentate come luoghi onirici della dismisura estetica e culturale, propria delle città del tardo Ottocento e del primo Novecento [16], proseguirà nel suo percorso rapido e profondo verso la sua identificazione, anche grazie ad incontri che arricchiranno il suo paesaggio umano e le sue riflessioni.
Innerva la prassi evolutiva di Bella, animata da una vis riformista («It is the goal of all to improve, advance, progress, grow», afferma) una sorta di costante distruzione creativa [17] sui tabù comportamentali e verbali, sulle azioni coercitive altrui. Essa intende distruggere e riconfigurare l’ordine precedente, mirando sia alla scomparsa degli assetti pregressi, sia alla creazione di un universo nuovo, un’utopia realizzata dove vige un’armonia, funzionale al pensiero e alla visione della stessa protagonista: chi si evolve resta nel suo mondo, chi è fisso o abusante viene espulso o reso inoffensivo.
La danza di Bella
Se la società vittoriana modella i corpi e “introietta” i corsetti, strumenti deformanti di costrizione, Bella ribalta la condizione femminile, si spoglia, porta in superficie la trasgressione, rovescia la condizione umana, agisce sul rimosso scegliendo financo l’esperienza della prostituzione vissuta come sperimentale. Nel suo pensiero prevalgono concetti che sottolineano come i processi disumanizzanti del capitalismo trasformino la società in prodotto in serie, la città come luogo di profitto dove prevalgano le logiche di mercato, dove il valore di scambio dello spazio si impone sul valore d’uso della cittadinanza, e dei deboli. In quel contesto lei combatte la segregazione e persegue il diritto alla felicità che diventa, per Bella, diritto al mondo e diritto del mondo, in reciproco scambio.
La sua individuazione riguarda la propria coscienza e quella di ciò che è altro da sé, attraverso un percorso progressivo di decentramento che le consente di vedere il dolore, oltre se stessa, e di agire per cambiare le condizioni delle persone che soffrono, anche se con un gesto ingenuo e lesivo nei confronti di Duncan.
Dai suoi primi e incerti passi, dalla magnifica scena iconica del ballo sfrenato, quando in un salone inizia a muovere il corpo senza le ristrettezze del canone della danza sociale riconosciuta, sino all’ultima fase, quando scappa dalla sua “evirazione”, Bella costruisce il proprio mondo dove nulla somiglia a una prigione.
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