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I racconti di Alessandria

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Forte Qaitbey (ph. Sebastiani)

di Chiara Sebastiani

Tra mito nostalgico e urbanità post-moderna

Che cosa associa ad Alessandria d’Egitto l’europeo non specialista? Un po’ di antichità: in primo luogo la Biblioteca di Alessandria, «leggendaria culla dell’universalismo del sapere antico». Benché di essa «non abbiamo resti tangibili o conoscenze documentate al di fuori di tradizioni testuali» cionondimeno è stata fastosamente richiamata in vita agli albori del terzo millennio con l’inaugurazione nel 2002 della nuova Bibliotheca Alexandrina, a segnalare «il ritorno di Alessandria, un tempo ‘crogiuolo di civiltà e culture’ sulla scena mediterranea e mondiale» (Biancani: 2017:17-18).

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Midan Saad Zaghloul (ph. Sebastiani)

Un po’ di letteratura: in primo luogo il Quartetto di Alessandria di Lawrence Durrell ambientato nella metropoli degli anni Trenta e Quaranta. Chi li ha letti davvero per intero, quei quattro poderosi volumi, non è dato sapere ma l’intramontabile bestseller ha tramandato fino ai nostri giorni una mappatura mitica della città, dall’elegante rue Fouad al labirinto dei quartieri arabi, dal mitico Cecil Hotel ai hashish cafè dei bassifondi, dalle eleganti ville dei diplomatici alle magioni della borghesia cosmopolita, dai bordelli ai padiglioni in riva al mare.

Archeologia e letteratura, con le fantasie incorporate nella prima e la realtà a cui allude la seconda sono gli ingredienti di un mito, quello della “città cosmopolita” che «ha permesso il miscuglio e il raduno di diverse comunità in un clima modello di intesa cordiale e armoniosa: Egiziani, greci, romani, persiani, ebrei, siriani, marocchini, turchi, popoli dell’Asia minore così come francesi e inglesi tutti hanno vissuto in armonia ad Alessandria dall’antichità ai giorni nostri» (Hosni 2009) si legge nell’introduzione a Le Guide Historique et Archéologique d’Alexandrie, pubblicato sotto gli auspici del Consiglio Supremo delle Antichità egiziano.

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Appartamenti a Bahari (ph. Sebastiani)

Viene da chiedersi quali siano precisamente i “giorni nostri” ai quali l’entusiasta autrice si riferisce. Trattandosi di una guida “storico-archeologica” essa si ferma alla vigilia del bombardamento di Alessandria da parte della flotta britannica nel 1882 e dell’occupazione che per settant’anni fece dell’Egitto una colonia di fatto dell’impero britannico. In quegli anni peraltro il mito della città cosmopolita si consolidò al punto da sollevare scomodi interrogativi sulle affinità tra cosmopolitismo e regimi coloniali. Sono state colonie tutte le moderne “metropoli mediterranee” – Tunisi, Alessandria, Beirut, Damasco – a cui si ispira il mito nostalgico della coesistenza armoniosa tra etnie, religioni, lingue, creato in buona parte da quelle «elites della globalizzazione» (Bauman 1999) ante litteram che godevano, come quelle di oggi, di una sorta di “extraterritorialità” determinata da una totale libertà di movimento: gli Europei e i cosiddetti Levantini.

Chi arriva oggi ad Alessandria trova una città che poco ha a che vedere con l’Alessandria mitica dell’ellenismo antico e del cosmopolitismo moderno. Bisognerà pur dirlo, prima o poi, che le metropoli mediterranee della riva sud sono diventate mostruose conurbazioni frutto dell’urbanistica predatoria, della speculazione edilizia, delle megalomanie di regime non meno che della disperata resilienza dell’informale di massa. Il celebre lungomare di Alessandria (la Corniche) è costeggiato da una superstrada a sei corsie che divide spietatamente il mare dalla città. Ve ne sono altre: chi prova a camminare a zonzo, per cogliere lo spirito del luogo, si imbatte immancabilmente in uno di questi fiumi di cemento corredati di sottopassi automobilistici, guardrail o barriere jersey, ma mai di un semaforo o qualsivoglia altra forma di passaggio pedonale, e guarda rabbrividendo giovani madri con un neonato in braccio e due o tre bimbetti al seguito lanciarsi senza esitazione nel flusso d’acciaio.

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Dai bastioni di Forte Qaibey (ph. Sebastiani)

Alessandria è una città “primaziale” come vengono definite le città che concentrano in modo spropositato abitanti, risorse economiche, servizi rispetto al sistema urbano nazionale o regionale. Con i suoi cinque milioni (stimati) di abitanti Alessandria è la seconda città d’Egitto, ben dietro al Cairo a cui ne vengono attribuiti sedici milioni ma pur sempre dieci volte circa più grande della terza città, Port Said. Alla crescita urbana caotica contribuiscono, in relazione ai mezzi di cui dispongono, tutti gli strati sociali: quelli inseriti legalmente in un mercato immobiliare ipertrofico, quelli che puntano all’impresa speculativa e quelli che in mancanza di meglio cercano nell’abusivismo la soluzione alle proprie necessità abitative. L’espansione urbana è supportata principalmente dal trasporto su gomma, le vecchie linee tramviarie, una volta vanto della città, essendo purtroppo tristemente in declino. La prima conseguenza di questa urbanistica selvaggia è l’inquinamento ambientale – la muraglia compatta di alti palazzi che lungo la Corniche si erge subito a ridosso della grande via di scorrimento automobilistico contribuisce efficacemente a bloccare tanto le brezze marine quanto quelle delle alture retrostanti – e quello acustico. La seconda conseguenza è l’irrimediabile decadenza del patrimonio o di quel che ne resta.

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Pasticceria Delices (ph. Sebastiani)

Le due città

Poi c’è un’altra Alessandria, lontana dalle mitologie nostalgiche e dalle attrattive del turismo di massa. La si incomincia a scoprire nel viaggio in treno dal Cairo ad Alessandria che parte da Ramses Station, la storica stazione ferroviaria del Cairo, terminale della linea Alessandria-Cairo costruita a metà Ottocento e recentemente restaurata in un sontuoso neo-liberty inclusivo di colonne floreali, caffè con poltrone in pelle cremisi e bagni pulitissimi tutti marmi e specchi, e termina a Mahattat Misr, la stazione di Alessandria, a suo tempo opera importante ma oggi povera, fangosa quando piove.

Il treno rivela il cortile dietro alle facciate delle città. Uscendo dal Cairo la ferrovia si inoltra nell’estensione sterminata dei palazzoni delle periferie povere – tinta ocra, quintali di panni stesi, parabole satellitari su tetti e balconi – poi costeggia il canale Mahmoudiya, costruito nell’Ottocento da Muhammed Ali Pasha per portare ad Alessandria l’acqua dolce del Nilo. Si scorge qua e là una feluca, sulla riva lavandaie dalle vesti colorate lavano i panni come ai tempi in cui la figlia di Faraone trovò Mosè tra i canneti. Nel treno – un’oasi di pace – c’è un silenzio che già fa presagire l’Africa profonda, lontana dal vociare mediterraneo, l’Africa rurale antica nella quale l’Egitto affonda le sue radici. Ma ecco che lungo i finestrini ricominciano a scorrere i palazzoni, quella muraglia compatta di edifici che sovrasta e deturpa le mitiche spiagge bianche di Alessandria. Tra la stazione e il lungomare, il vecchio reticolato stradale racchiude in un miscuglio casuale la zona archeologica e le stradine commerciali del centro: ci si imbatte nell’odeon romano, in negozi di abbigliamento anni Cinquanta e di egizianerie d’importazione cinese, in qualche vecchia pasticceria elegante e in qualche nuova boutique di abbigliamento griffato.

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Vecchie case a Bahari (ph. Sebastiani)

Raccontare Alessandria significa anzitutto narrare «a tale of two cities», la storia di due città. La divisione tra la città degli indigeni e la città degli expats, tra quartieri “arabi” (“turchi”, “ottomani”) e quartieri “europei” è un «contrassegno della città coloniale» (Fouad 2017) comune a tutte le metropoli mediterranee della riva sud. Nel caso di Alessandria la partizione tra le due città si è istaurata prima che si potesse parlare di colonizzazione al punto che ci si deve chiedere anzitutto: which is which? Qual è la città europea, quale la città islamica? Virtuale spartiacque tra le due città, Midan Saad Zaghloul sul lungomare è ornata da palme sottili intorno alla statua del leader indipendentista egiziano che le dà il nome, percorsa da un traffico intenso di automobili, tram e carrozze a cavallo. Vi sorge lo storico Cecil Hotel, simbolo della Belle Epoque, l’altrettanto storica pasticceria e sala da tè Délices, in stile Art Nouveau, quadri ottocenteschi e, sotto Natale, decorazioni natalizie e Christmas carols in sottofondo, frequentato a tutte le ore da uomini e donne, giovani e famiglie, locali e stranieri, mentre il poco distante Cafè Trianon, dai bei decori liberty, frequentato da un pubblico misto nel pomeriggio, la sera diventa esclusivamente maschile. Vi è anche una libreria, grandi negozi e l’hotel Métropole dal lusso un poco délabré.

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Mercato a Bahari (ph. Sebastiani)

Da qui verso est – du côté della Biblioteca Alexandrina – ci si inoltra nella città europea, verso Ovest – du côté del Forte Qaitbey – si entra nella città turca. Tuttavia chi si dirige verso la parte occidentale della città s’imbatte dapprima nella zona monumentale ottocentesca che sorge attorno alla vecchia Place des Consuls (oggi Midan Tahrir), con al centro la statua equestre di Mohammed Ali, il pashà riformatore e fondatore della moderna Alessandria, colui che all’inizio del 19° secolo fece della cittadina secondaria e decadente una prospera metropoli rivaleggiante con Il Cairo e tutta volta all’Occidente, invitante per le comunità straniere (ed i loro capitali), ospitale verso i cristiani e gli ebrei, disegnata da architetti francesi ed italiani, la città delle piazze, dei negozi, del passeggio.  Si dice che la piazza – conosciuta anche come El Mansheyya o piazza Mohammed Ali anche se ufficialmente oggi è Midan Tahrir – sia stata la prima piazza moderna del Medio Oriente e la statua equestre di Mohammed Ali la prima del genere in un paese musulmano. (Mansel 2012). Ricostruita dopo i bombardamenti britannici del 1882, sopravvissuta all’epoca d’oro di Alessandria, oggi la piazza in questione, e la zona circostante, con i suoi uffici, monumenti ed edifici governativi – il tribunale, la tomba del milite ignoto – è pesante, pomposa, congestionata. Rivela involontariamente come dell’urbanistica europea Alessandria abbia mutuato lo spazio pubblico “di rappresentanza” più che quello “di cittadinanza”: uno spazio che esaltava la grandezza dei governanti e offriva un palco di auto-rappresentazione alle vecchie elites urbane. Con la partenza di quest’ultime delle due funzioni oggi sopravvive soltanto la prima, quella che magnifica lo stato burocratico e militare.

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Presso Moschea Abu Abbas al Mursi (ph. Sebastiani)

In questa città, nella quale l’europeo si sentiva in Europa e le elites locali si sentivano europee, il quartiere europeo nacque dunque non per opera di una potenza coloniale ma per le ambizioni di un locale despota illuminato. Tuttavia, non diversamente da come andarono le cose laddove la moderna pianificazione urbana fu attuata direttamente dai colonizzatori, la città dei settlers europei finì per drenare linfa alla città degli “arabi” come venivano chiamati – con una consapevole sfumatura spregiativa – gli egiziani. Il quartiere europeo ebbe strade pulite e case nuove, il quartiere turco rimase sporco con case vecchie e fatiscenti. Le opere di risanamento e abbellimento si concentrarono sul primo o – quando rivolte al secondo – lo furono in funzione delle necessità del primo: sventramenti e sgombri nel tessuto del quartiere turco servirono solo a garantire accessibilità al quartiere europeo (Fouad 2017).

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Giostre a Bahari (ph. Sebastiani)

La città di ponente

La “città turca” come la chiamano gli inglesi o il “quartiere ottomano” come lo chiamano gli Italiani si incontra abbandonando la zona monumentale e inoltrandosi nel dedalo delle viuzze dei quartieri di Anfushi e Bahari, porzioni del distretto di al-Gomrok, su quella lingua di terra che si estende tra due porti – il vecchio “porto occidentale” mercantile ed il moderno “porto orientale” da diporto – ed è  la parte più antica della città, risalente alla sua fondazione. Il traffico automobilistico non riesce a penetrare nelle strette stradine dove gli artigiani espongono i prodotti delle loro botteghe, armature di poltrone e armadi decorati e abiti femminili e dove si susseguono i suq di tessuti, merceria, gioielleria. Le vie più larghe sono riservate ai mercati alimentari che si estendono per chilometri, tra bancarelle di pani e di pesci abbondanti come quelli di evangelica memoria, carrette di cavoli giganti come quelli sotto cui nascono i bambini, vassoi di spezie e montagne di arance, e gatti che si aggirano tranquilli tra i piedi dei passanti.

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Le mura medievali oggi (ph. Sebastiani)

Le strade sono punteggiate da piccole commoventi moschee all’interno delle quali c’è pulizia e silenzio e un va e vieni discreto di uomini negli orari di preghiera. Le più antiche tuttavia sono spesso fatiscenti come la singolare piccola moschea Tarbanah, che all’inizio di sharya al-Faranza si presenta con una lunga facciata di mattoni bianchi e rossi, con alcuni magazzini al piano terra, prospiciente un parcheggio e circondata da alti immobili. L’edificio è in stato di abbandono e nulla segnalerebbe l’antica moschea se, voltato l’angolo, non ci si imbattesse nell’ingresso al minareto, unico nel suo genere: un grazioso portico sospeso, su un ballatoio cui si accede da una scala esterna, è sormontato da un piccolo tetto di pietra bianca sorretto da due antiche colonne di granito con capitelli romani che poggia al muro della moschea. La moschea è chiusa, come i magazzini, né si sa quando riaprirà.

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Moschea Tarbanah (ph. Sebastiani)

Sono tante, piccole e discrete, le moschee annidate tra le vecchie casupole dalle tettoie in legno intagliato, le antiche porte decorate. All’appello del muezzin gli uomini si radunano anche nei cortili delle oukallas – cortili su cui si affacciano botteghe che espongono le merci su bancarelle – per recitare la preghiera. Moschee, oukallas, antiche casupole, mercati sono oggi circondati da incredibili edifici a venti o trenta piani, torri di cemento armato con logge e balconi dalle decorazioni fantasiose, che evidenziano l’aggiunta di un piano dopo l’altro, quali mattoncini di lego dai diversi colori. La crisi degli alloggi nella città povera con masse crescenti di popolazioni inurbate trova la sua soluzione nell’abusivismo di massa, quelle altissime torri o palazzine che sovrastano la città vecchia e ogni tanto crollano.

Al di là dei mercati di Anfushi, delle stradine di Bahari, una via si allarga e si apre su di un grande piazzale circondato dai più straordinari esempi di questo povero eclettismo post-moderno e variopinto. Gruppi di montoni stazionano sotto i fantasiosi immobili mentre di fronte ad essi, prospiciente il mare, sorge il grande complesso della moschea di Abu Abbas al Mursi, fiancheggiato da un piccolo giardino pubblico, dall’impronta inconfondibilmente occidentale malgrado i grandi palmizi: uno square alla francese, ché chi mai da queste parti ha tracciato vialetti sabbiosi e panchine? È stato infatti un architetto italiano, Mario Rossi. Dal giardinetto, alzando lo sguardo si nota una finestra decorata in stile arabo andaluso, un gioiellino incastonato nella parete liscia, arabo-andaluse sono anche le decorazioni dei portali.

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Moschea Abu Abbas al murse e giardino (ph. Sebastiani)

Tutto ad Alessandria è una citazione, quasi tutto è qualcosa di ricostruito a partire dall’Ottocento al posto di edifici scomparsi da secoli, o demoliti in epoche più recenti per far posto agli esercizi di pianificazione di governanti modernisti ed europeizzanti. La moschea di Abu al-Abbas al Mursi sorge sulla tomba di un sufi marocchino del 13° secolo ed è stata demolita e ricostruita a più riprese: l’edificio attuale è stato completato nel 1944. Si affaccia sulla riva del porto orientale, fiancheggiata a nord-est da una grande spianata coperta da vaste pozzanghere, forse resti di quello che doveva essere uno specchio d’acque, dove ragazzini giocano a calcio. Su un lato della spianata una costruzione moderna, lunga e bassa, composta di moduli a schiera, sembra in stato di abbandono ma forse non lo è, perché nella vecchia Alessandria tutto sembra in stato di abbandono. Lo sembra anche l’incredibile ammasso di ferraglia multicolore presso il giardinetto dei palmizi: cavalli alati, cocchi dorati, navi pirata, carrozze settecentesche, cigni a barchetta, ruote e altalene paiono a prima vista appartenere ad un fantastico cimitero di giostre che però verso il tramonto si anima: si accendono lucine colorate, compare un cavallo bianco con pennacchi ad attirare nel paese dei balocchi torme di bambini i quali montano felici i cavalli alati che girano sulla giostra e le navi pirata che beccheggiano in aria.

Sulla Corniche occidentale ci sono barche tirate a secco e piccoli caffè sulla spiaggia e ragazzini che pescano sugli scogli e uomini che riparano reti. Frotte di scolaresche e turisti tornano dalla visita al forte di Qaitbey e sul basso muretto che delimita la spiaggia siedono donne con bambini, gruppi di ragazze, giovani e coppie, altri siedono sul lato opposto, nei caffè e nelle gelaterie. Il rapido calare dell’oscurità dopo il tramonto non pare destare preoccupazioni né svuotare le strade. Dal Circolo ellenico, dai ristoranti di pesce della zona, famiglie e giovani tornano verso il centro della città, nei caffè compaiono le shishà fumate da uomini e donne in perfetta parità di genere. E allora uno si chiede: ma tutto quello che abbiamo letto sul problema delle molestie sessuali nelle città egiziane, quello che abbiamo visto in film e documentari, dove si trova? Qualcuno risponde che Alessandria è una città di mare, di spiagge, di turismo estivo: queste città sono sempre più libere e aperte. O forse invece si tratta di una facciata come facciata scenografica sono gli alti edifici costruiti lungo la Corniche con vista mare e caffè e ristoranti che si snodano fino ai grandi hotel con terrazza, il Cecil, il Windsor, nascondendo le strade buie e le vecchie case di Bahari, tagliandole fuori dal mare. E la sicurezza che permette alle ragazze di girare di notte è quella di un ordine restaurato nel sangue e pagato con il silenzio su un passato recente.

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Città di Levante (ph. Sebastiani)

La città di levante

Di questo passato recente – la breve fiammata della “rivoluzione” egiziana – non si vedono tracce in questa città che pure ha conosciuto movimenti di massa importanti. Andando verso est – lungo la direttrice dell’espansione urbana della nuova Alessandria, ritratti di un sorridente Al-Sisi punteggiano la passeggiata. La Bibliotheca Alexandrina, usata dagli studenti per dibattiti, seminari e spettacoli sulla rivoluzione, è oggi una sorta di fortino, un bunker circondato da alte staccionate e sorvegliato da ogni lato da forze di polizia e non capisci se è per via dei lavori in corso, o per motivi di sicurezza anti-terrorismo, o per far sparire (pratica diffusa in Egitto), uno spazio pubblico e la memoria di ciò che vi ebbe luogo. La moschea al-Qayd Ibrahim che nel 2011 è stata uno dei punti di aggregazione dei movimenti di protesta oggi appare come un poco interessante edificio anni Quaranta con decorazioni in stile neo-gotico e un alto minareto alla cui base sono inseriti orologi come quelli dei campanili. Il giardino e la piazza antistante non si riempiono nemmeno il venerdì quando nelle vicinanze intorno a moschee più piccole il traffico è bloccato dai fedeli che seguono le funzioni all’aperto. Il quartiere di Sidi Gabir, al centro delle grandi marce anti-Mursi (Ali 2013) che nel 2013 hanno fornito legittimazione al colpo di stato dei militari, è tornato ad essere il tranquillo quartiere del nuovo ceto medio alessandrino e gli unici movimenti sono quelli quotidiani delle masse di pendolari serviti dalla vecchia stazione recentemente rinnovata con facciata di mattoni a vista, solito orologio e tassi accuratamente potati.

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Piccola moschea a Bahari (ph. Sebastiani)

La vecchia città di levante era città dello spazio pubblico, come emerge sia dalle ricostruzioni storiche sia dalle memorie di coloro che vi hanno abitato. Boulevards eleganti, strade ben tenute, giardini pubblici: il parco Cromer, i giardini municipali di Mazarite, il parco reale di Montazah. I grandi cambiamenti si sono avuti negli anni Settanta. Lo sviluppo capitalistico è stato accompagnato da un intenso processo di terziarizzazione della vecchia downtown. Le banche hanno preso il posto delle abitazioni. Le automobili hanno cacciato dalle strade i ragazzini che giocavano a calcio. Oggi nella città di levante la quantità di spazio pubblico diminuisce in proporzione inversa al crescere del valore immobiliare dei terreni e degli edifici. Vicino al centro il Cafè de la Paix dai decori Art Nouveau accoglie un ceto medio di egiziani e turisti: famiglie, coppie, giovani, madri con bambini. Poco più lontano si scorge il disco reclinato della Biblioteca Alexandrina – nella misura in cui le barriere jersey lo consentono.

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Porto orientale (ph. Sebastiani)

Da lì verso est è tutto un cantiere: è quella la direzione di espansione di Alessandria, verso il Delta del Nilo. Il mare è sempre meno accessibile, le spiagge sono punteggiate da bagni privati e ristoranti mentre oltre la grande arteria automobilistica si alzano le facciate compatte dei palazzi. Le strade perpendicolari alla Corniche attraversano il quartiere greco, fiancheggiano gli ampi spazi recintati, la blindatissima chiesa copta ortodossa, i collegi privati, quel che resta del quartiere delle grandi ville e delle grandi famiglie lungo il vecchio Boulevard Sultan Hussein oggi shary al-Hurreya, sbucano su quello che doveva essere il parco Cromer dove i bambini delle buone famiglie andavano a giocare, oggi incorporato nella grande area dei giardini Shalallat, ricchi di alberi secolari ma maltenuti come quasi tutto, le facciate delle vecchie palazzine inizio Novecento dagli intonaci decrepiti affiancate da nuovi palazzi di vetro e cemento destinati ad uffici, i marciapiedi erosi dalle arterie di scorrimento automobilistiche. Percorrendo uno di questi marciapiedi, precaria passerella tra l’area dei giardini e una delle solite superstrade urbane, ci si imbatte in un cartello che segnala senza imbarazzo che qui è stata spostata e ricostruita una porzione delle mura dell’antica città islamica, abbattute per far posto ad un sottopassaggio automobilistico.

Come sul lungomare, anche qui le arterie di scorrimento automobilistico sezionano il tessuto urbano, fiancheggiano aree recintate – il cimitero, i giardini, lo stadio, la zona archeologica – penetrano i vecchi quartieri residenziali benestanti ma esangui. È una città malinconica che presto finisce: non penetra in profondità nel territorio, si allunga all’infinito lungo la costa. In questo sprawl urbano sui generis si dissolve il passato splendore della vecchia città levantina.

Le città invisibili

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Sui bastioni di Forte Qaitbey (ph. Sebastiani)

Ma quel passato splendore aveva le sue zone d’ombra. Ci sono storie di Alessandria che aspettano di essere raccontate come la storia degli Italiani d’Egitto, una grande e composita comunità che ha lasciato il suo segno tuttora ben visibile nell’urbanistica (Turchiarulo 2009) ma la cui partenza nel secondo dopoguerra è stata circondata da un grande imbarazzato silenzio (Viscomi 2012). E ci sono storie che attendono di emergere dall’inconscio collettivo, in primo luogo le storie dei ceti subalterni, addetti al servizio delle famiglie europee e levantine: gli “arabi”, cioè i nativi egiziani poveri, che era non solo permesso ma necessario picchiare come racconta nelle sue memorie la scrittrice greca Penelope Delta (Mansel 2010). Ci sono storie iscritte nelle pietre della città, in particolare la storia secolare di quella che viene chiamata “la città islamica” (come se Alessandria non fosse islamica anche oggi), dalla conquista araba nel 7° secolo dell’era cristiana a quella turca del 16° secolo: novecento anni di storia considerati di scarso interesse e di inarrestabile decadenza, tra i due luminosi periodi del cosmopolitismo alessandrino: quello ellenico e quello a cavallo tra Otto e Novecento. Ci sono le storie di un «cosmopolitismo precoloniale e familiare» (Fahmy 2012), un cosmopolitismo dei quartieri bassi, fatto di reciproco aiuto tra vicini e di condivisione conviviale di agapi festive al di là delle diverse appartenenze religiose. Si tratta di un cosmopolitismo che non è mai stato chiamato con quel nome – non veniva chiamato in nessun modo perché quei gruppi sociali erano invisibili e invisibile la loro città – e che oggi nelle città europee viene chiamato multiculturalismo e non piace come invece piaceva il cosmopolitismo.

Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019
Riferimenti bibliografici
 Ali, A. (2013), “Sidi Gabir ovvero fare rivoluzione ad Alessandria”, Limes, n. 7, luglio
Bauman, Z. (1999), Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone. Bari, Laterza.
Biancani, F. (2017), “Politiche della nostalgia, cosmopolitismo liberista e la nuova Biblioteca Alessandrina” in Afriche e Orienti, a. XIX, n.1
Fahmy, K. (2012), The Essence of Alexandria, in Manifesta Journal   http://www.manifestajournal.org/issues/regret-and-other-back-pages/essence-alexandria-part-two
Fouad, Lama (2017), “Know your city/Alexandria/Bahari” in http://www.tadamun.co/?post_type=city&p=9050&lang=en&lang=en#.XFQaUGl7nIU
Hosni, Y.A. (2009), Le Guide Historique et Archéologique d’Alexandrie, Le Caire, Le Conseil Supreme des Antiquités
Mansel, P. (2010), Levant: Splendour and Catastrophe on the Mediterranean, London, John Murray.
Mansel, P. (2012), “The Rise and Fall of Royal Alexandria: from Mohammed Ali to Farouk”, http://www.levantineheritage.com/note137.htm
Turchiarulo, M. (2009), “Alcune realizzazioni ad opera di architetti ed ingegneri italiani ad Alessandria”, Cahier AAHA, n. 54
Viscomi, J. (2012), Out of Time: History, Presence and the Departure of the Italians of Egypt 1933-present, PhD Dissertation, University of Michigan.
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Chiara Sebastiani, sociologa, politologa, psicoanalista, è docente di Politiche urbane e locali e di Teoria della sfera pubblica presso l’Università di Bologna. Tra i suoi temi di interesse le politiche delle città, lo spazio pubblico, le questioni di genere. Su questi temi ha svolto ricerca in Europa e in Africa. Ha vissuto e insegnato in Tunisia dove dal 2011 ha seguito sistematicamente le trasformazioni in corso, scrivendo numerosi articoli e un libro (Una città una rivoluzione. Tunisi e la riconquista dello spazio pubblico, Cosenza, Pellegrini Editore, 2014). Tra le sue altre pubblicazioni: La politica delle città, Bologna, Il Mulino, 2007 e La sfida delle parole. Lessico antiretorico per tempi di crisi, Bologna, Editrice Socialmente, 2014.
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