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Il contributo dell’antropologia culturale alla conoscenza del fenomeno mafioso
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2018 @ 00:15 In Cultura,Letture | No Comments
di Anna Ziliotto
Il 15 agosto è morta Rita Borsellino. Aveva 73 anni, un passato da attivista politica e da europarlamentare. Ma tutti l’hanno conosciuta e apprezzata perché, assieme a Maria Falcone e ai numerosi familiari delle vittime di Cosa Nostra, ha trascorso la vita a promuovere una – la – cultura della legalità, una vera e propria contro-cultura finalizzata ad opporsi a qualcosa che prende il nome di mafia, dentro e fuori la Sicilia. Lo aveva già previsto il fratello Paolo nella – tristemente famosa – ultima lettera che scrisse all’alba del 19 luglio 1992, poche ore prima di essere ucciso:
Se, nei primi decenni successivi all’Unità d’Italia, i cultori e gli esperti di “questioni” socio-economiche e politiche legate al Meridione si sono prodigati per testimoniare la complessità della mafia in Sicilia, in questi ultimi trent’anni magistrati, forze dell’ordine, vittime, gente comune, giovani sono riusciti a contrapporre ad essa anche una barriera culturale antitetica e antagonista, con uno slancio e un coraggio incontenibili soprattutto dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio.
Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Giovanni Falcone e Leonardo Guarnotta, quei primi giudici del pool antimafia istituito nel 1984 – dopo l’omicidio di Rocco Chinnici il 29 luglio 1983 e l’arrivo a Palermo di Antonino Caponnetto –, hanno lasciato a tutti noi una preziosa eredità: unitamente alla consapevolezza che la mafia esiste, la conoscenza dei suoi meccanismi e un modo, efficace, per fronteggiarla. Hanno avuto, infatti, l’intuizione di indagarne il volto criminale proprio a partire da quella cultura che gli antropologi non considerano una entità astratta, ma fatta di persone, tenute insieme da una rete complessa di relazioni, con obiettivi comuni e un certo modo di vedere il mondo. Allo stesso tempo, il movimento culturale, opposto e contrastante, che si è scatenato in quegli anni ha distolto tutti noi dal «puzzo» dell’omertà e ci ha fatto «sentire la bellezza del fresco profumo di libertà» [1].
Questo saggio vuole provare a raccontare una volta di più cosa si intenda – e si sia inteso – per cultura mafiosa allo scopo, però, di riflettere sull’importanza che l’impiego di metodi e di competenze tipiche dell’antropologia culturale ha assunto per le investigazioni dell’antimafia e che potrebbe assumere per la conoscenza di tutti i fenomeni criminali.
Le manifestazioni della mafia: usi e costumi siciliani?
Nel 1989, durante il programma “Linea Diretta”, Enzo Biagi chiede a Lucianeddu – al secolo Luciano Leggio – che cosa sia secondo lui la mafia:
È certo strano, se non imbarazzante, che queste parole siano state pronunciate proprio dal capo dei Corleonesi – la frangia armata di Cosa Nostra – prima di essere sostituito dal suo braccio destro, tale ‘zu Totò, all’anagrafe Salvatore Riina. Su una cosa, però, aveva ragione Leggio: il più importante folklorista, etnologo e studioso di tradizioni popolari siciliane di fine Ottocento, Giuseppe Pitrè, aveva ricondotto il concetto di “mafia” a quello di “bellezza” (Buttitta, 1971). Scriveva infatti nel secondo volume del suo Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano:
Riconoscendone le “nobili” origini, Pitré assegna alla mafia un posto tra gli usi e i costumi di Sicilia – accanto ai riti della nascita, al carnevale, alle nozze – intrecciando, così, inscindibilmente il significato di mentalità, di indole e di “cultura” siciliana a quello di organizzazione criminale. «Disgraziatamente», proseguiva Pitré, «dopo il 1860 le cose hanno mutato aspetto, e la voce mafiusu per molti non ha più il significato originario e primitivo» (1889: 290).
La responsabilità era stata attribuita, in particolare, al successo ottenuto da I mafiusi de la Vicaria scritta da Giuseppe Rizzotto nel 1863, un’opera teatrale che aveva messo in scena le imprese di un gruppo di detenuti, rinchiusi nelle carceri palermitane della Vicaria, rispettati da tutti proprio perché considerati mafiusi. Entrata, così, «nella lingua parlata d’Italia, la voce mafia sta a dinotare uno stato di cose che avea altro nome (vi fu chi disse che non avea nome)» diventando – secondo Pitré erroneamente – sinonimo di brigantaggio, di camorra e di malandrinaggio, senza essere nessuna delle tre (1889: 291). Tuttavia, anche Pitré ha espresso dei dubbi sulla possibilità di definirla:
Negli anni successivi all’Unità d’Italia, quindi, la mafia viene sostanzialmente associata a una mentalità diffusa quanto “naturale”, perché dipendente da una storia di violenza e sottomissione della quale i Siciliani erano drammaticamente caduti vittime (Colajanni, 1900; La Spina, 2005). Era quello il motivo per cui avevano sviluppato un’indole fiera, un carattere sospettoso, diffidente, intollerante, irascibile, e un comportamento sprezzante della legge, dell’autorità, prepotente verso chiunque. Scriveva infatti Cesare Bruno ne La Sicilia e la mafia:
Questi valori “tipici” della sicilianità non solo erano considerati compatibili con le caratteristiche della mafiosità ma, poiché vivevano di uno scambio reciproco, ne costituivano una sorta di codice condiviso. Tuttavia, anche sul finire dell’Ottocento vi sono stati dei tentativi di leggere la mafia alla luce dei fattori storici, economici e sociali che hanno afflitto il Meridione d’Italia senza cogliere tuttavia l’aspetto unitario che caratterizza la parte malvagia e criminale del fenomeno:
Omertà, furto (in particolare di bestiame), contrabbando, omicidio: erano queste le “manifestazioni” della mafia, quelle attività che le conferivano «l’impronta di una vasta e ben organizzata associazione di malfattori» (Alongi, 1887: 111). Si parla di “associazione”, è vero, ma perché era intesa come una «intrigata rete di relazioni e di soggezioni» (Cutrera, 1900: 52), dove il più forte vinceva sul più debole, e dove il più debole aveva bisogno del più forte per sopravvivere alle disgrazie della vita.
Quindi, a fronte di un sistema che veniva interpretato perlopiù come un modo di essere, diffuso e in qualche modo “necessario”, il mafioso era visto come un uomo che acquisiva onore grazie al suo modo di comportarsi e che godeva «la fama di sapersi far meglio rispettare» (Bruno, 1900: 140). Egli «dà la direzione ai delitti, sa a chi convenga affidare certi mandanti, e, portando una crudele raffinatezza nella delinquenza, stabilisce se si debba subito e in modo sommario togliere di mezzo una persona che si opponga agli ordini della mafia» (Bruno, 1900: 141). Lo si riconosce perché usa un gergo e una gestualità particolare: «il solo muover degli occhi e delle labbra, mezza parola basta perché egli si faccia intendere, e possa andar sicuro della riparazione dell’offesa o, per lo meno, della rivincita» (Pitré, 1889: 293). Infatti egli può essere chiunque: un avvocato, un politico, un medico, un contadino, un pastore. Non è dall’aspetto o dagli abiti che lo si distingue, ma dall’atteggiamento e dalla maniera di agire:
È perciò un uomo d’onore perché sa farsi giustizia da sé. Il potere morale che egli esercita sugli altri gli consente di agire all’interno e dall’interno della società: perciò è difficile distinguere il mafioso (come uomo di “mafia”) dalla mafiosità (come mentalità). «Non deve […] credersi – ribadiva Antonino Cutrera – che tutti quelli che si rivolgono ai mafiosi, facciano parte di un’associazione più o meno segreta, come alcuni profani delle cose siciliane credono» (1900: 51).
Erano considerati “profani” quegli studiosi non autoctoni, non siciliani che, all’alba di un’Italia appena unificata – ma non certo unita –, si avvalevano dei discorsi sulla mafia per rendere ancora più evidenti le diversità fra un Nord pensato come civilizzato, avvantaggiato socialmente ed economicamente, e un Sud selvaggio, povero, dominato dalla delinquenza e dal brigantaggio. Uno di loro era di certo Cesare Lombroso, che sulla delinquenza nel Meridione aveva costruito la sua carriera. Egli riteneva che all’antropologo non potesse – e non dovesse – sfuggire quanto la mafia fosse una «associazione di mal fare», perché chi vi apparteneva era chiamato a seguire «le regole di quel codice, anonimo ma così terribilmente obbedito, dell’omertà», a mantenere «l’assoluto silenzio sui delitti che si vedono commettere dagli altri», a «prestarsi, all’occasione, con false testimonianze per farne sparire le tracce», ad «accordare protezione ai ricchi dietro denaro», a «sfidare la pubblica forza in qualunque tempo e luogo, quindi andare armato sempre di armi proibite, far duelli coi pretesti i più frivoli, e menar coltellate a tradimento», a «vendicarsi ad ogni costo delle offese ricevute, anche dalle persone più care. Chi manca, è dichiarato infame» (Lombroso, 1876: 178-179).
Tuttavia, perché la mafia venga considerata un sistema criminale organizzato bisognerà aspettare il maxiprocesso istruito a Palermo circa cent’anni più tardi.
Il maxiprocesso dell’86 a Cosa Nostra
Sebbene, a seguito dell’Unità d’Italia, molti studiosi – alcuni dei quali sono stati citati nel precedente paragrafo – abbiano tentato di definirla e di tracciarne le origini, la mafia è diventa oggetto di dibattito interdisciplinare tra storici (Lupo 2004; 2007), psicologi (Lo Verso, 2002; Lo Verso, 2013; Lo Verso, Lo Coco, 2002; Fiore, 1997), sociologi (Santoro, 2007; Fiandaca, Costantino, 1994) e antropologi (Blok, 2000; Hess, 1973; Schneider and Schneider, 2009) soprattutto nel secondo dopoguerra, quando è emersa non solo come potere morale e sociale, ma anche come forza economica e politica. Proprio per la complessità che la caratterizza, infatti, la questione-mafia ha favorito numerosi punti di vista e diverse interpretazioni che, insieme, hanno concorso nel tempo sia a tentare di capirla sia a trovare soluzioni e strategie per affrontarla.
Tuttavia, da una prospettiva più specificamente criminologico-investigativa è stato invece il maxiprocesso, celebrato a Palermo tra il 10 febbraio 1986 e il 16 dicembre 1987, a decretare ufficialmente la sua esistenza come fenomeno criminale [2].
È vero: tutti gli imputati hanno dichiarato di «sconoscere» – per usare una famosa espressione di Pippo Calò, uomo d’onore di Porta Nuova e “cassiere” di Cosa Nostra – la mafia. Ma quel maxiprocesso, smisurato e senza eguali nella storia d’Italia, non doveva condannare la mafia, bensì individuare cosa la rendesse illegale, criminale, nociva.
E proprio al maxiprocesso la mafia si è rivelata essere, senza alcun dubbio, una organizzazione unitaria e sistematica finalizzata a delinquere. Il suo nome è Cosa Nostra. «Our things in our family», come la definiva già nel 1962 Joe Valachi di fronte alla Commissione del Senato americano: una grande “famiglia”, alla quale appartengono molti uomini – e altrettante famiglie – che hanno interessi e finalità in comune.
Lo ha scritto altrettanto chiaramente il Giudice Borsellino nella sua ultima lettera:
Fedeltà di sangue, terra e affari, questi sono i pilastri di Cosa Nostra, realizzati attraverso la violenza e il silenzio. Le sue regole, mai scritte, sono obbedienza, segretezza – sugli appartenenti a Cosa Nostra e sulle attività svolte –, rispetto e solidarietà nei confronti degli altri affiliati. Chi è mafioso non è più nuddu ammischiatu cu niente.
Il meccanismo di affiliazione è rigoroso: come spiegò più volte don Masino Buscetta – il “boss dei due mondi” e reggente della famiglia di Porta Nuova a Palermo – per appartenere a Cosa Nostra e diventare uomo d’onore una persona deve essere «avvicinata», «sperimentata» e infine «combinata», ossia ammessa all’interno di una specifica famiglia che controlla un determinato rione o paese. Una volta che è dentro, potrà uscirne solo da morto.
La mafia estorce denaro – il pizzo – e finge protezione. Usa violenza e intimidazione in cambio di pace (Arlacchi, 2007; Catanzaro, 1988; Gambetta, 1992; Paoli, 2000). Questo è il potere che esercita sul territorio, assolvendo a una sorta di funzione sociale e rendendosi competitiva con lo Stato, proprio laddove è considerato assente. Il maxiprocesso ha, infatti, accertato come la mafia in Sicilia si sia comportata come uno Stato nello Stato, insinuandosi e infiltrandosi all’interno dei comuni e degli uffici pubblici, gestendo gli appalti, creando reti di relazioni con il mondo dell’imprenditorialità, della sanità e della politica, offrendo “favori” in cambio di obblighi. Chi si è opposto a questo sistema – lo Stato, gli uomini dello Stato, le vittime innocenti – è caduto morto ammazzato.
La mafia esercita così il controllo sistematico su chiunque sia dentro o fuori dell’organizzazione e si consolida nel tempo. Per continuare ad esistere, infatti, non è in grado solo di insinuarsi nella società, ma di avvalersi della società stessa per i suoi scopi, spingendola all’omertà e al consenso, al silenzio e alla negazione, alimentandosi di alleanze e connivenze (Dalla Chiesa, 2014). Già Cutrera nel 1900 scriveva come la gente onesta fosse costretta a diventare omertosa «per non vedersi esposta a guai, a ingiurie e ad altre noie. Offesa, preferisce tacere; testimone di qualsiasi circostanza che posssa interessare la giustizia, fa tutto il possibile perché non venga citata a deporre; chiamata a dichiarare quello che sa si mostra reticente, e qualche volta, suo malgrado, magari smentisce» (1900: 33). E lo ribadisce anche Marcelle Padovani nel documentario I nemici della mafia quando, intervistando alcuni palermitani e chiedendo spiegazioni sull’omertà, uno di loro risponde:
Buona parte dell’opinione pubblica siciliana – almeno fino agli anni ’80 del ‘900 – riteneva quindi possibile e “naturale” convivere con la mafia: se non faceva troppo scruscio, poteva anche essere tollerata. Però al maxiprocesso quella mafia è diventata visibile, tangibile, concreta e ha indossato le vesti di circa 300 imputati, rinchiusi nelle gabbie di sicurezza, a piede libero, agli arresti domiciliari o latitanti. Della mafia, infatti, hanno cominciato a parlare– e ad essere creduti – i testimoni, i collaboratori di giustizia, coloro che l’avevano vissuta e ne avevano preso parte.
Fornendo nomi, indicando luoghi, spiegando comportamenti, attività e delitti, i pentiti hanno aperto una finestra sul mondo di Cosa Nostra, sui meccanismi che la costituiscono, sulle logiche che la governano, sul sistema che le consente di esistere. Lo dirà chiaramente il Giudice Falcone nel libro Cose di Cosa Nostra:
«Senza un metodo», scriveva Falcone, «non si capisce niente» (1991: 42).
«Il fenomeno mafioso – dichiarò Tommaso Buscetta al maxiprocesso – non è comune… non è il brigatismo, non è la solita criminalità, perché la solita criminalità la polizia se ne intende, la combatte bene. Il fenomeno mafioso è qualcosa di più importante della criminalità. È la criminalità più l’intelligenza, e più l’omertà [corsivo mio], è una cosa ben diversa».
E aveva ragione Buscetta. Per comprendere la mafia è necessario entrare dentro la cultura che le ha consentito di nascere, di espandersi e di realizzare tutte quelle attività illecite che le vengono attribuite. Solo esplorando quali siano quei valori che vengono condivisi da chi è mafioso e da chi non lo è si può capire come l’organizzazione criminale riesca a nascondersi all’interno della società e ad assumerne le fattezze.
Il potere mafioso, infatti, si fonda su una accurata e profonda strumentalizzazione dei codici culturali: li utilizza per sottomettere, per ottenere consenso, per giustificare il proprio intervento. Allo stesso tempo, però, forgia comportamenti e gesti, struttura, identità e modi di concepire se stessi (Santoro, 2007; Rosati, 2014). Come ha sottolineato bene Luigi Maria Lombardi Satriani,
Perciò, per comprendere a fondo la mafia non basta individuare le singole responsabilità individuali, ma è utile guardarla in prospettiva, contestualizzarla, svelarne logiche e finalità e disarticolarne la struttura. Lo sottolinea bene la legge n. 646/82 conosciuta come “Legge Rognoni-La Torre” – voluta a seguito dell’omicidio dell’onorevole Pio La Torre il 30 aprile 1982 e del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa il 3 settembre dello stesso anno – che ha introdotto il 416-bis, l’articolo del codice penale che sancisce come reato l’associazione a delinquere di tipo mafioso.
L’associazione è mafiosa – dispone l’articolo – quando coloro che ne fanno parte si avvalgono dell’intimidazione, della condizione di assoggettamento e dell’omertà che ne deriva per commettere delitti e attività illecite. La mafia, quindi, non è solo un legame fra affiliati finalizzato alla commissione di reati, ma include anche le conseguenze di quel mal fare, ovvero la sottomissione morale e materiale, e il silenzio. Come aveva sottolineato il “pentito” Buscetta, la mafia è “criminalità” (reato) più “intelligenza” (un sistema logico e funzionale) più omertà (la connivenza).
Attraverso l’istruzione del maxiprocesso e le sue battaglie dentro e fuori i tribunali, il Giudice Falcone – e assieme a lui le attività investigative dell’antimafia – ha insegnato non solo a capire la mafia, ma come arrivare a capirla. Il metodo che ha scelto per comprenderne i meccanismi criminali è la cultura.
Diceva il Giudice Falcone:
Questo “modo” di capire la mafia dovrebbe diventare un modello analitico sia per chi si occupa di diritto e di crimine, sia per chi si occupa di antropologia e di comportamenti culturali. L’antropologia culturale, proprio per la sua capacità interpretativa, per i suoi metodi di analisi (l’osservazione, l’etnografia, la ricerca sul campo), per l’interdisciplinarietà che sta alla base delle sue competenze non solo ha molto da apprendere dagli studi giuridici e dalle scienze penali, ma a sua volta dovrebbe essere interrogata, presa in considerazione e introdotta sistematicamente nello studio dei fenomeni criminali.
Diceva Falcone che «per cercare di ricostruire determinate vicende bisogna cercare di comprendere le dinamiche interne di queste vicende e, per far questo, bisogna cercare di pensare come gli altri avrebbero potuto comportarsi in determinate situazioni»[3]. E questo vale per qualsiasi tipo di attività.
Il suo metodo, infatti, ha rivelato quanto anche la mafia, come tutte le condotte criminali, sia un fatto umano – non un fenomeno marginale, non un’emergenza – e quanto l’analisi dei fattori culturali che la determinano sia fondamentale per capirla in profondità. Solo attraverso una analisi rigorosa del contesto nel quale le persone vivono e si muovono è possibile comprendere i significati delle loro azioni e dotarsi di strumenti adatti ed efficaci ad affrontarle.
Ecco che coinvolgere l’antropologia culturale, così come ha fatto in qualche modo il metodo Falcone, consente di svelare come tutti i fenomeni criminali siano carichi di significati, siano indicativi di modi di fare, siano traccia di reti di relazioni.
In un confronto avvenuto nel 1993, Tommaso Buscetta arriverà a dire alla Corte e a Totò Riina, colpevole di avergli sterminato la famiglia: «Un Presidente di Corte d’Assise circa vent’anni fa mi disse […]: “La mafia finirà quando un mafioso parlerà”. Riina non sono più solo io che parlo, adesso è una marea di gente che parla. La mafia è finita. Non nel senso generale, perché la mafia si riproduce come un cancro disgraziatamente, ma già una buona cosa si è fatta».
La mafia, è vero, è «come la mala erba che, lasciata a sé stessa, invade e distrugge un campo» (Cutrera, 1900: 193) ma, se si vuole combatterla efficacemente, bisogna cominciare a «pensare che ci rassomiglia» (Falcone, 1991: 83), che in quanto cultura può essere sconfitta da una cultura ugualmente forte e contraria, forte della memoria accumulata con tante battaglie e contraria alla illegalità (Dalla Chiesa, 2010).
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