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Il Quinto Stato. Il percorso della tesi contadinista come “terza via” tra bolscevismo e liberalismo
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2024 @ 03:45 In Cultura,Società | No Comments
di Sergio Ciappina
Introduzione
Trattori che vanno, trattori che tornano. Ogni qualvolta i mezzi d’informazione rovesciano sulla nostra tavola, preferibilmente all’ora di pranzo o di cena, la notizia delle proteste dei cosiddetti «coltivatori diretti», con tanto di immagini di banchi di ortofrutta desolatamente vuoti, nessuno si prende la briga di definire le componenti di tale categoria; operazione che così resta all’immaginazione di chi, in casa o all’apericena del bar, si sentirà di condire con la propria visione del mondo la conviviale conversazione. E, in base alla propria weltanschauung, dipingere i protagonisti delle proteste «trattoriali» come avidi sfruttatori di contributi comunitari, oppure depredate vittime della grande distribuzione organizzata, o anche come le ennesime pedine di una non ben identificata lobby.
Quella che segue vuole essere un’analisi storiografica che racconta le vicissitudini e i tentativi di organizzarsi politicamente di coloro che erano piccoli proprietari terrieri e tali rimangono. Almeno di ciò possiamo essere certi: non sono né mezzadri né servi della gleba, ma sono imprenditori che esistono, e a volte resistono, in forza delle proprie imprese e grazie ai loro e alle loro dipendenti molti dei quali extracomunitari. A tale disamina si andranno ad aggiungere le tracce storiche, perché di più in Italia non è possibile ravvisare, del movimento politico che naturalmente avrebbe potuto saldarsi, coordinandone la consistenza politica, con questi piccoli proprietari terrieri: il movimento dei Verdi. Avrebbe potuto infatti, ma pare che gliene sia mancata l’ispirazione e l’azione conseguente, lasciando così l’organizzazione o, meglio l’irreggimentazione, di questa classe d’imprenditori ad altre realtà che, in cambio di qualche servizio, hanno finito per orientarne secondo scopi non sempre manifesti, rivendicazioni e lotte politiche.
Da sempre la principale necessità di ogni società, arcaica, antica, medievale, moderna o contemporanea è l’alimentazione; diretta conseguenza di ciò è lo sfruttamento, più o meno organizzato delle risorse alimentari del pianeta in cui viviamo. A prima vista è un’osservazione scontata, talmente scontata che anche la classe sociale legata per elezione a tale “pratica” – i contadini e la cosiddetta civiltà contadina – ha conservato per tutta la storia dell’uomo, con rare e “sanguinose” eccezioni, una posizione anch’essa scontata – quasi invisibile – a tal punto da non essere quasi mai presa in considerazione come componente fondamentale, nei suoi elementi costitutivi e nelle sue dinamiche d’interazione verso l’interno e verso altre classi sociali, dei processi ideologici aventi come scopo riorganizzazioni migliorative della società stessa.
La stessa storia dell’alimentazione è oggi un percorso “agli albori”; eppure non si ha difficoltà a immaginare come si possa rileggere agevolmente ogni evento succedutosi attraverso questa “lente” [1]. Una delle peculiarità dell’indagine storiografica è quella di avvicinare il passato alla realtà presente: un possibile procedimento che realizzi quanto affermato consiste nell’analizzare idee e ideologie del passato alla luce delle esigenze esistenziali attuali.
Per poter discutere di movimenti contadini veri e propri dobbiamo spostarci agli inizi del ventesimo secolo nelle regioni dell’Europa Centrale, in particolare nelle terre dell’Impero Asburgico, caratterizzate dalla presenza della piccola proprietà contadina, dove l’estensione del diritto di voto nelle elezioni politiche, la diffusione dell’alfabetizzazione e della stampa creano le condizioni per l’attivazione politica dei contadini.
Nascita di un’ideologia “verde”
G.D.H. Cole nella sua Storia del pensiero socialista 1889-1914 scrive:
E, sempre in terra un tempo asburgica, in Trentino, S. Adami: «.. noi [contadini] non dobbiamo essere né liberali, né clericali, né socialisti, dobbiamo formare un altro partito, lo chiamiamo pure il partito della miseria, non importa, quello che importa è di rendersi indipendenti» [3].
Come detto sopra, le condizioni che determinarono una partenza “dal basso” dei movimenti contadinisti, sono quelle della piccola proprietà, del diritto di voto, sia pure per censo, e la progressiva alfabetizzazione; ma esiste anche un tentativo di inquadrare la situazione “dall’alto”. Prendendo in considerazione le rivendicazioni di riforme agrarie e della ripartizione dei grandi latifondi in favore della piccola estensione, in nome di un egualitarismo e di pari opportunità nell’accesso alle risorse alimentari scaturite dall’ondata rivoluzionaria del 1917, Lenin stesso, nel suo Decreto sulla terra [4], propone un programma agrario bolscevico che mira a scomporre i latifondi a favore di una classe di piccoli coltivatori diretti.
Interessante evidenziare come tale decreto imponesse la creazione di un fondo terriero nazionale acquisendo d’imperio le proprietà terriere esistenti senza nessuna compensazione e ridistribuendole ai contadini in usufrutto senza distinzioni di sesso – prevenendo così la riformazione di limitazioni sociali dovute alla struttura patriarcale maschile delle ruralità – e affidando tale ridistribuzione agli “zemstva” [5] locali divenuti “soviet”; inoltre imponeva il divieto di lavoro salariato ed escludeva dallo smembramento le aziende tecnologicamente avanzate definendole “aziende modello”.
+Particolare è quest’ultima disposizione che merita una piccola riflessione: può essere letta alla luce del bisogno di proteggere quelle poche realtà che perseguivano la strada della meccanizzazione per migliorarne i rendimenti e conseguentemente stimolare la creazione di fabbriche produttrici di attrezzature agricole, innescando così un ciclo virtuoso. Può, altresì, venire interpretata, come stimolo all’interazione tra realtà emergenti e realtà tradizionali: interazione che avrebbe provocato il declino o la ristrutturazione e trasformazione di queste ultime. Il secondo modello interpretativo, sebbene sia stato proposto da Mokyr [6] in correlazione con la prima rivoluzione industriale, può benissimo essere esteso, senza particolari problemi, all’analisi dei processi d’industrializzazione in tutti i Paesi.
Altra particolarità è la salvaguardia dalla ridistribuzione dei piccoli appezzamenti appartenenti a quelli che Lenin stesso definisce contadini e cosacchi semplici: sembra che non si voglia scombinare totalmente l’organizzazione rurale esistente attaccandone le strutture più tradizionali. Il Decreto sulla terra però non fornisce le basi, anzi ne elimina qualunque possibilità, per la creazione di una piccola borghesia terriera fondata sulla proprietà privata: «…Il diritto di proprietà privata della terra è abolito per sempre; la terra non può essere né venduta né comprata, né data in affitto o ipotecata, né alienata in qualsiasi altro modo»; questo perché, per mentalità e cultura politica, la proprietà legale non costituiva un fattore prioritario nelle richieste avanzate dai contadini russi [7].
Le cose cambiano sostanzialmente nel periodo della NEP [8]: ripristinando la proprietà privata nel settore agricolo, a cui consegue automaticamente una più ampia capacità di scelta imprenditoriale, Lenin finisce per favorire la tendenza endemica degli agricoltori ad aumentare, seppur di poco, le proprietà e il bestiame di anno in anno e ricorrere al lavoro salariato. Tale tendenza è comprensibile se si utilizza il punto di vista di chi opera nel settore agricolo: i problemi legati alla resa dei terreni delle colture innescano da sempre la necessità di rotazione triennale degli stessi e quindi più braccia e più bestiame per lavorarli, specie nel caso in cui sia difficoltoso accedere a tecnologie di meccanizzazione dei processi lavorativi.
Vista da fuori, però, questa tendenza, generò sospetto e ritrosia verso la classe contadina, allargando il solco – è il caso di dirlo – tra una visione operaistico-industriale e urbana e quella che contemplava anche l’universo contadino nel raggiungimento dei traguardi rivoluzionari. Nonostante tutto per un po’, fino alla collettivizzazione stalinista del 1929, i contadini, complice una visione politica dirigenziale – si tenga presente l’opinione di Bucharin peraltro sostenuta in un primo momento anche da Stalin – arrivarono ad essere considerati fondamentali al pari degli operai per lo sviluppo del socialismo. Chiamati “kulaki”, in senso spregiativo dagli attivisti di partito, non si deve per questo pensare che fossero diventati simili ai possidenti del periodo zarista: secondo la classificazione in uso nel periodo sovietico, infatti, “kulako” era colui che fruiva «…dell’utilizzo di un operaio agricolo per una parte dell’anno, del possesso di macchine agricole un po’ più perfezionate del semplice aratro, di due cavalli e quattro mucche …» [9].
Con la fine di Bucharin e l’inizio della succitata collettivizzazione, terminava in Unione Sovietica qualunque possibilità di una cultura politica contadinista, anche se inserita, come sembrava in un primo momento, nel contesto più ampio della via socialista alla modernità. La coltivazione agroalimentare sarà considerata unicamente come supporto indispensabile ma subordinato al processo di industrializzazione: la terra come una grande fabbrica e i contadini i suoi operai.
Spostiamo adesso lo sguardo verso Paesi, come la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Bulgaria e la Romania, dove, come detto prima, anche per retaggio delle consuetudini asburgiche, nel primo dopoguerra si sviluppa un intenso fermento d’idee sul tema di «… un’industrializzazione “dal volto umano” perché ricondotta alle esigenze dell’agricoltura … [e] … sulla coesistenza fra proprietà privata della terra, produzione e cultura cooperativa, in una cornice di politiche vòlte al superamento dei conflitti» [10].
Il primo conflitto mondiale ha portato nei Paesi sopra elencati la distruzione sistematica di tutte le strutture amministrative imperiali, ma non ha cancellato del tutto attributi fondamentali come la cultura della cooperazione: intellettuali come Stambolijski [11] vedono in ciò la peculiarità essenziale che, tradotta in un movimento come l’Internazionale Verde, possa configurarsi come elemento di continuità naturale tra il capitalismo industriale e il comunismo.
In questa parte dell’Europa a forte connotazione rurale, la città e le sue fabbriche venivano viste come insalubri, portatrici di malattie e di uno stile di vita perverso e disumanizzante; i centri urbani fornivano altresì le sedi della finanza, dell’attività assicurativa e commerciale. Ben presto la competizione si sposta sul piano ideologico stigmatizzandone i simbolismi: il mondo rurale, depositario della tradizione e di una vita a misura d’uomo si trova a confrontarsi col contesto urbano, dove la via dello sviluppo e del benessere, passa invariabilmente dallo sfruttamento capitalista e dalla conseguente e progressiva disumanizzazione. Ma qual è allora un’altra via di sviluppo possibile?
Una modernizzazione nel rispetto delle radici agrarie
Bulgaria, Romania, Ungheria, Cecoslovacchia e, a seguire, Croazia … in questi Paesi, nel primo dopoguerra, le varie correnti ideologiche rurali e contadiniste trovarono il loro diretto referente nei vari Partiti Contadini e nelle Unioni Agrarie. Principalmente gli aderenti a queste formazioni politiche erano perlopiù piccoli proprietari con un’istruzione media e un sentimento nazionalista-conservatore, mentre l’adesione popolare veniva dall’onda lunga dei lavoranti salariati. Queste componenti profilavano in definitiva un’ideologia che condivideva con i vari Partiti Liberali la convinzione della necessità di una modernizzazione del Paese, anche se riteneva che ciò dovesse avvenire mediante il potenziamento delle strutture agricole. Un altro punto in comune era la convinzione della necessità del pieno rispetto delle istituzioni liberal-democratiche.
Partire dal potenziamento delle strutture agrarie significava comprendere profondamente la natura di questi Paesi: bassa densità di popolazione all’inizio del primo dopoguerra, scarsità di agglomerati industriali, dipendenza generalizzata dall’importazione manifatturiera, rendimento basso della produzione agricola dovuta al poco utilizzo di tecniche e tecnologie moderne: tutti elementi conditi da una forte e generalizzata resistenza all’innovazione.
In questi Paesi l’ideologia contadinista finì per proporre un progetto politico molto più credibile di quello liberale – partorito peraltro in ambienti urbani e appena più cosmopoliti – che finì per costituire l’alternativa politica a quest’ultimo fino agli anni Trenta del XX secolo; ciò anche se il contadinismo, parimenti al liberalismo, si muoveva su un piano principalmente economico. Comprendendo meglio dei liberali – propagandanti modelli e ideali di sviluppo perlopiù presi a prestito dai Paesi dell’Europa Occidentale – la natura dei propri Paesi, sociologi e politici aderenti alla corrente contadinista non erano per niente convinti del modello di sviluppo rappresentato dal capitalismo, proponendo nel contempo una via alternativa.
Il contadino era alla base di ogni dissertazione filosofica e ideologica: depositario, in quanto vicino alla natura, delle virtù umane, appartiene ad una sorta di casta destinata, citando il teorico contadinista croato Rudolf Herceg, dalla Storia al trionfo finale stabilendo «una società giusta garantita dal naturale disinteresse contadino allo sfruttamento del lavoro altrui» . Da tutto questo deriva una visione un po’ ambigua del pensiero contadinista, vicina al bolscevismo con il quale condivideva l’orientamento cooperativista, ma, in aperto contrasto con questo, con connotazioni a tratti antimoderniste e antindustriali; contemporaneamente attivo anticapitalista del quale identificava i connotati perversi e disumanizzanti.
Di questa ambiguità furono consapevoli molti esponenti in vista dei movimenti contadinisti, ciascuno con una propria visione aderente al Paese d’origine, come il croato Stjepan Radić [12], il romeno Virgil Madgearu [13] e il già citato bulgaro Aleksand’r’ Stambolijski, impegnati nel definire un insieme di connotazioni e orientamenti ideologici con i quali poter conciliare sviluppo industriale moderno e necessità dell’universo rurale-agricolo, presentando così con una piattaforma operativa capace di attrarre consensi da più parti.
Il punto di vista fondamentale, denominatore comune, di questi ideologi, sposta il fulcro dello sviluppo dall’industria all’agricoltura: Ante Radić, fratello di Stjepan e cofondatore del Partito Contadino Croato afferma che «… la fabbrica e le ferrovie sono solo lo stomaco [di una società], ma lo stomaco riceve cibo dall’agricoltura» mentre Madgearu arriva a immaginare le campagne come centro effettivo di sviluppo, lasciando all’espansione industriale il compito di soddisfare le esigenze dell’agricoltura. In particolare, la proposta di quest’ultimo propose la rapida creazione di infrastrutture di trasporto e comunicazione al fine di servire le zone di produzione agricola; propose inoltre la diffusione massiccia dell’elettricità e di agrotecniche e zootecnie innovative, il tutto mirato al miglioramento della produzione agraria e al conseguimento di un maggior benessere per la popolazione.
L’innesco di un tale ciclo virtuoso, come sappiamo, funzionò bene negli anni 30-60 del XIX secolo negli Stati Uniti. A differenza dell’Europa, le ferrovie non si limitarono a facilitare le comunicazioni fra i centri esistenti, ma crearono comunicazione tra le grandi aree produttive agricole e di allevamento e i centri di lavorazione; nel contempo stimolarono le manifatture ferroviarie e tutti gli indotti ad esse legati.
L’introduzione dei nuovi sistemi scientifici di coltivazione, di nuovi fertilizzanti, di macchine, come le mietitrici meccaniche McCornick e gli aratri John Deere, permisero un incremento qualitativo e quantitativo mai conosciuto fino allora. Al conseguente aumento della produttività e della prosperità, corrisposero però aumenti considerevoli dei costi di gestione e trasporto – le compagnie ferroviarie erano corporations private con migliaia di azionisti fuori da qualsiasi controllo anti-monopolista e imponevano prezzi di passaggi vieppiù onerosi – e ciò rese indispensabile il ricorso sistematico all’indebitamento bancario, finendo per aumentare così il controllo economico dei centri urbani sulle campagne, mediante cartelli, monopoli e trust. Come prevenire il danno salvaguardando il guadagno?
La risposta è lo Stato. Al contrario della politica jacksoniana del laissez faire in nome del principio “meno governo è meglio”, la proposta di Madgearu – innovativa per i tempi ma adottata in seguito da tutti i regimi nazionalistici e dittatoriali – puntava allo Stato per la creazione, la pianificazione e la gestione delle infrastrutture. Solo che per Madgearu lo Stato doveva essere anche agrario e liberale. Sempre allo Stato sarebbe spettato, quindi, il controllo e la soppressione di eventuali politiche di prezzi svantaggiosi per l’agricoltura a carico di intermediari, lasciando le campagne (e i piccoli proprietari) a operare in un regime liberale, in un sostanziale autogoverno, favorito da aperture di linee di credito tutelate e controllate.
Siamo di fronte a una corrente di pensiero che aveva pochi referenti nel panorama occidentale, ma bene incorporata nella cultura e nella prassi politica dei Paesi dell’Europa Orientale perché profondamente convinta che la tradizione agraria dovesse essere valorizzata e non posta ai margini, cosa che sarebbe accaduta se si fosse introdotto un sistema – quello capitalista – del tutto inadatto a quei paesi. Anche se non omogenea nei vari Paesi, la tesi contadinista di uno “Stato agrario” era al centro di tutte le correnti: Constantin Stere [14], asseriva che, per un nuovo modello di sviluppo, si dovesse partire dalla piccola proprietà contadina e che quest’ultima dovesse essere proprietaria dei mezzi di produzione e, riunendosi in cooperative, essere parte attiva nelle politiche di produzione e di mercato.
Ancora negli anni Quaranta, Mikołajczyk [15], leader del Partito Popolare Polacco, seppur cautamente per evitare il rischio di una eccessiva frammentazione degli appezzamenti di suolo coltivabile, puntava ad una politica agraria che avesse come base «aziende agrarie individuali che a loro volta partecipassero ad una concertazione statale per la definizione di strategie di sviluppo del Paese» [16].
È interessante, a questo punto, un piccolo excursus: per tutto il periodo del primo dopoguerra si segnalano correnti contadiniste provenienti dalle sinistre dei partiti e delle unioni contadine, che auspicano la prospettiva di un’alleanza con le classi operaie – e, di conseguenza, con il bolscevismo –. Il punto di contatto è verosimilmente l’elemento cooperativistico che contraddistingue la realtà agraria e rurale e che costituisce motivo di preoccupazione in quei quadri dirigenti contadinisti e in quelle diplomazie occidentali che vedono nel bolscevismo un nemico da combattere. Ma sempre la cooperazione rappresenta, per le varie correnti contadiniste, un argine all’individualismo liberale, un’icona di bene comune in contrappeso alla pericolosa espansione della proprietà privata. Sta qui lo snodo principale che rende “attraentemente valida” la soluzione contadinista: essa si pone in equidistanza tra il bolscevismo che nega la libera iniziativa e il liberalismo sfrenato che assegna la supremazia agli intermediari di mercato, commercianti, istituzioni finanziarie capitalistiche e, in definitiva, alle realtà urbane a discapito delle campagne.
L’Internazionale “Verde”: un presidio a guardia del bolscevismo e del liberalismo urbano
Soluzione così “attraentemente valida” da essere al centro di un ambizioso progetto che lascia i ristretti ambiti nazional-popolari di ciascun Paese dell’Est Europa per proporsi sulla scena internazionale con un programma condiviso di cooperazione transnazionale tra i partiti contadini e le unioni agrarie, puntando sulla ideale superiorità delle campagne e su un raggiungimento della modernità attraverso un’industrializzazione relativizzata alle esigenze agrarie.
«Coesistenza fra proprietà privata della terra, produzione e cultura cooperativa, in una cornice di politiche vòlte al superamento dei conflitti» [17] : in estrema sintesi la proposta politica di Stambolijski che istituendo nel 1922 un Ufficio Internazionale Agrario a Praga prima e una vera e propria “Internazionale Verde” in seguito, complice il governo cecoslovacco a guida contadinista, riafferma il primato delle campagne sulle città nell’assicurare il benessere materiale e spirituale delle popolazioni.
Come non sottovalutare però l’altra intenzione non manifesta di questa operazione politica? Dal succitato Decreto sulla Terra in poi, si allungava l’ombra della competizione bolscevica che, avendo la Russia rivoluzionaria come origine, rischiava di far leva sui mai sopiti sentimenti panslavisti [18] – il cui movimento nel 1848 aveva visto la luce proprio a Praga –, sottraendo così i consensi delle classi rurali più povere. Ironia della sorte l’Internazionale Verde finì per apparire come l’ennesimo movimento panslavo agli occhi di quelle organizzazioni e unioni contadiniste finniche, baltiche e romene, che aderirono più tardi ad essa, dopo aver ottenuto assicurazioni sulla parità decisionale.
Dopo un avvio incerto, nel 1929 si riuscì a formulare una vera e propria “strategia rurale internazionale” con programmi pacifisti e di sostegno alla già depotenziata creatura del presidente statunitense Woodrow Wilson: la Società delle Nazioni.
Purtroppo, dopo un decennio di concertazioni e affinamenti, il secondo conflitto mondiale – ma prima di questo, come avremo modo di vedere, ben altri fattori, sia congiunturali che competitivi – spazzò via il movimento proprio quando questi era riuscito, in qualche modo, a partorire una infrastruttura di coordinamento efficace. L’idea di una federazione centroeuropea fra Polonia, Ungheria, Romania, Cecoslovacchia e Jugoslavia – a partire dall’Unione Internazionale Popolare – fluttuò ancora per un po’ negli animi durante il secondo conflitto mondiale, caldeggiata dal Ministero degli Esteri britannico e al quale aderirono i partiti contadinisti di quei Paesi, in esilio in Gran Bretagna. L’intento, più o meno manifesto, del governo britannico era quello di prevenire lo scenario – verificatosi puntualmente – che tali nazioni entrassero nella sfera d’influenza dell’Unione Sovietica.
Il verde si scolora: l’allontanarsi di un ideale di armonizzazione
Lo storico Stefano Bianchini identifica [19] tre motivazioni principali determinanti l’affievolirsi della speranza di creare Stati agrari che fossero capaci di contrapporre al bolscevismo e al liberalismo un modello di sviluppo che armonizzasse la crescita agricolo-rurale e quella industriale-urbana. Non ci interessa in questa sede commentare tali cause – tranne l’ultima – quanto elencarle per interesse valutativo, poiché pensiamo che l’allontanamento di un’ideologia di sviluppo e benessere sociale dalla scena del reale, in un determinato periodo, non sia foriero del giudizio negativo su questa bensì la releghi semplicemente in una condizione di “ἐποχή”, in attesa che si presentino nuove realtà con le quali tale ideologia possa ancora coniugarsi.
Il primo e più eclatante dei motivi fu la rapida nascita di regimi dittatoriali laddove, come in Ungheria e Bulgaria, erano attivamente operativi – se non al potere – partiti d’ideologia contadinista; si evidenzia peraltro l’incapacità, se non la debolezza, di quest’ultimi di amalgamare ideologicamente una classe sociale tanto variegata come quella contadina. Parimenti catastrofico, ma per ragioni economico-congiunturali, il “martedì nero” del 1929, che privò le economie agrarie degli investimenti finanziari occidentali; inoltre la Germania nazista stipulò con i Paesi agrari dell’Europa Orientale un patto – derrate alimentari contro manufatti industriali – rivelatosi un inganno nel momento in cui il governo di Berlino insolvente, divenne abbastanza potente da minacciare militarmente i Paesi creditori.
Infine, sempre secondo Bianchini, la cultura contadinista si rivelò essere fallimentare in quanto
Quest’ultima affermazione vede la modernità come un destino ineluttabile che richiama inequivocabilmente al brocardo “cuius commoda, eius et incommoda”, non concedendo scampo a chi, recepito acriticamente il concetto occidentale di modernità, finirebbe per soccombere e perderne così definitivamente i vantaggi. Si è potuto invece vedere come il confronto tra le varie correnti contadiniste porta invariabilmente a posizioni equidistanti e, in definitiva, armonizzanti, rifuggendo quella disumanizzazione – intensificata secondo il simbolismo semantico del tempo e ancora oggi deprecata da più parti – attribuita al bolscevismo e al liberismo capitalista.
Contemporaneità: l’ideale contadinista si rinnova e incontra i Partiti Verdi
«…non siate tristi, continuate in ciò che era giusto»: questo lacònico testamento ideologico che Alexander Langer [21] lascia ai suoi collaboratori all’indomani della sua morte, chiosa agevolmente il concetto di ideologia “sospesa” (in questo caso da eventi brutali come l’avvento dei totalitarismi la cui onda lunga permane e aleggia ancora ai nostri giorni) [22]. Non è un caso che Langer sia altoatesino (o sudtirolese): la citazione da Adami all’inizio del presente elaborato parla di una tradizione contadinista e cooperativista, fortemente radicata nella sua regione e nella provincia trentina. Il suo motto “lentius, profundius e soavius” [23] ridimensiona scherzosamente il “citius, altius e fortius” “decoubertiniano” riesumato dal famoso barone in occasioni delle Olimpiadi “moderne”.
Siamo davanti al dejà vu, ad un pensiero che contrappone il vivere lento alla frenesia liberale-capitalistica, la profondità delle radici all’altezza dei grattaceli delle città e la soavità, armonia vitale opposta alla legge del più forte. Crediamo che la sostanziale differenza fra il pensiero socialista, basato su ideali di giustizia sociale e ridistribuzione delle risorse economico-naturali e il pensiero contadinista – verde stia nel fatto che quest’ultimo aggiunge all’impianto ideologico del primo la necessità esistenziale di una interazione eticamente fondata con l’ambiente Terra.
Nei manifesti ideologici e negli statuti dei Partiti Verdi [24] contemporanei troviamo oggi
Anche la parte, per così dire “folcloristica”, a distanza di più di un secolo, mostra analogie: all’inizio del XX secolo l’ideologia contadinista tendeva ad affermare, come base del proprio pensiero, l’immagine dell’uomo naturale esaltando il modo di vita primitivo e recependo elementi tardo romantici e un po’ antimoderni. Parimenti in molti dei manifesti dei Partiti Verdi d’Europa rileviamo elementi ideologici mutuati dai movimenti cosiddetti “hippy” e “new age”.
Folclore a parte, l’organizzazione, la vita stessa e la dialettica dei Partiti e delle Federazioni Verdi europee, ricalca i tracciati che furono dei movimenti contadinisti fin dai primi anni del XX secolo alla loro scomparsa: il Partito Verde Europeo nasce a Roma il 22 febbraio 2004, come soggetto politico compiuto, dal quarto congresso della Federazione Europea dei Partiti Verdi formatasi a sua volta nel 1993 con lo scopo di istituire un maggiore coordinamento fra i partiti membri, di contribuire alla stesura di una piattaforma comune a livello europeo e di aiutare lo sviluppo di partiti verdi piccoli o nuovi.
E allora: come non riconoscere analogie tra le linee guida dei movimenti contadinisti e quei movimenti che si adoperano oggi in difesa delle agricolture di quei Paesi asiatici, africani e centro-sudamericani che rischiano di divenire bolo di realtà liberali e capitalistiche? Come già detto il fulcro di queste ideologie è e rimane la Terra e l’interazione che l’umanità ha (o dovrebbe avere con essa). Ça va sans dire che la declinazione di questo concetto è congiunturalmente differente a distanza di oltre un secolo, ma l’interrogativo rimane lo stesso: quale progresso senza il rispetto per le diversità, siano esse etniche o culturali, senza la libera iniziativa all’interno di una concertazione solidale e cooperativistica e senza una riflessione etica e in definitiva eco – logica?
In estrema sintesi, ancora oggi, la domanda resta la stessa – ma investe l’intera umanità – degli intellettuali contadinisti dei primi del XX secolo: quale significato conviene che assuma il significante “modernità” per evitare una catastrofe annunciata e banalmente prevedibile? Jüger Habermas [26] prova a dare risposta delineando la Modernità come un progetto “work in progress”. Progetto nato dal pensiero illuminista, che ha come obiettivo principale l’emancipazione umana mediante «tre fondamentali strumenti, dotati di razionalità propria, ossia (a) una scienza oggettiva, per controllare la natura a vantaggio dello sviluppo umano [qui bisogna aggiungere “nel pieno rispetto della natura stessa”]; (b) un diritto universale, per opporsi all’uso arbitrario del potere); e (c) un’arte autonoma capace di rappresentare la logica intrinseca della società.
Sembra che l’ideologia contadinista – pur nelle sue transitorie contraddizioni – evolutasi, a distanza di mezzo secolo, in un pensiero verde eco-logico, collimi in pieno con i punti (a) e (b) dell’affermazione di Habermas. Sul piano più strettamente esistenziale però, l’ultimo obiettivo, cioè la necessità di rappresentazione e, aggiungiamo, al tempo stesso, l’impossibilità di rappresentarne compiutamente l’atto, costituisce il vero e unico punto di partenza del percorso umano cosiddetto “Moderno” [27]. Nel suo libro, Foucault, attraverso l’analisi simbolica di un quadro dipinto nel 1656, quasi un secolo prima del pensiero illuminista, dal pittore andaluso Diego Velázquez [28] , identifica nella tensione che scaturisce dalla contrapposizione tra la consapevolezza del bisogno e quella dell’impossibilità, l’inizio della Modernità.
In altre parole, crediamo che sia possibile individuare in detta contrapposizione la fonte della continua alternanza tra successo e fallimento che caratterizza ciascuna ideologia “emancipativa” moderna: un pensiero in continua evoluzione … “work in progress”. Il pensiero eco-logico non fa eccezione.
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