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Il Taʽziye-xwāni iraniano e la “Dimostranza” di San Ciro a Marineo
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2024 @ 01:39 In Cultura,Società | No Comments
di Salvatore Amenta
L’Islam, come ogni religione, ha una dimensione esteriore e una interiore, la legge e la via. Nella bilancia tra essoterismo ed esoterismo, lo sciismo, come il taṣawwuf, lascia pendere l’ago verso il secondo (Nasr, 2015, 147-175). Se l’ortoprassi è di per sé sufficiente alla salvezza [1], essa non rende la fede completa. Il taʽziye è la manifestazione esteriore di una verità profonda.
Il taʽziye-xwāni (o šabih-xwāni) rientra, senza dubbio alcuno, tra le manifestazioni più vistose, e dunque di superficie, dell’Islam sciita. Unica forma di dramma serio sviluppatasi in seno all’Islam (Chelkowski, 2009), per le caratteristiche di cui sopra e per la facilità con cui ha impressionato i viaggiatori europei, il taʽziye, così come, in generale, i riti collettivi che concorrono a delineare quella che Bausani chiama la «festa di Husain» (Bausani, 2017: 426 e ss.), è stato abbondantemente e ampiamente descritto nella letteratura scientifica europea e americana e continua a suscitare interesse, per quanto poco noto al grande pubblico.
A metà del secolo scorso, Bahram Beyzaì, nel suo Namāyeš dar Irān, diede di questo genere teatrale la descrizione di uno spettacolo in pericolo critico di estinzione (Beyzaì, 2020: 206-207) [2]. La lettura del volume Taʻziyeh: Ritual and Drama in Iran, a cura di Peter J. Chelkowski, del decennio successivo, lasciava scorgere uno scenario non dissimile, e a essi si accompagna la più recente opera con intenti sistematori di Willem Floor, The History of Theater in Iran, che ha il pregio di riportare, in prospettiva diacronica, una vasta selezione di testimonianze dirette, antiche e moderne.
Altra espressione del sentimento devozionale, la “dimostranza” tenuta in onore di San Ciro nel paese di Marineo, di cui è patrono, è un dramma sacro itinerante che, storicamente a cadenza irregolare, si svolge per le vie del centro abitato. Un confronto tra le due manifestazioni, di primo acchito azzardato, mette in luce, invece, delle convergenze nelle modalità rappresentative di certo interesse, similarità che si ritiene potrebbero derivare, se non da una linea di sviluppo affine, da una medesima dimensione sociale.
La prima parte di questo contributo delineerà dunque l’evoluzione del taʽziye-xwāni a partire dai riti collettivi del mese di muḥarram, nel cui seno si situa la nascita e, prima che se ne affrancasse, la ragion d’essere, facendo ricorso alle fonti in lingua araba. Si affronterà altresì l’origine della devozione popolare nei confronti di San Ciro in Marineo. Nella seconda parte si opererà invece un confronto, che si spera fruttuoso, tra alcune delle caratteristiche del taʽziye e della “Dimostranza”, evidenziandone i punti d’incontro.
Taʽziye-ye Ḥażrat-e ʽAbbās, l’imam Ḥusayn interloquisce con ʽAbbās in presenza delle donne della Casa, Qom, 7 luglio 2022 [7 ḏū al-ḥigga 1443] (ph. Salvatore Amenta)
Delle origini del taʽziye
Sulle origini del taʽziye si è scritto lungamente. La letteratura è quasi all’unanimità concorde nell’affermare l’origine autoctona di questo genere teatrale [3], ponendola al termine di un lento processo di incubazione e trasformazione durato sette secoli in seno ai riti collettivi di cordoglio in ricordo del martirio dell’imam Ḥusayn a Karbalā’ nell’anno 61 dall’Egira (680 d.C.).
Il primo a far cenno a tali manifestazioni è lo storico Ibn Kaṯīr (1300 circa – 1373) nell’opera Al-Bidāya wa al-nihāya, nella quale riporta che nell’anno 352H (963) il «tutore» del califfo, il «principe» (amīr al-umarā’) buyide Muʽizz al-Dawla Aḥmad ibn Buwayh (Būyah), diede ordine che durante i primi dieci giorni del mese di muḥarram, nella capitale Baghdad, «delle prèfiche vagassero per la città, e si impiantassero dei padiglioni per i culti funebri in nome di Husain […], che i bazar fossero chiusi e il popolo indossasse abiti neri per le recitazioni in onore del Principe dei Martiri […] alle quali era obbligato a presenziare» (Bausani, 2017: 462). Scrive Ibn Kaṯīr:
Completa dunque il quadro facendo seguire la descrizione dei primi, gioiosi, festeggiamenti pubblici di ʽĪd al-Ġadīr, definiti dall’autore «bidʽa šanīʽa ḏ̣āhira munkara» («un’innovazione manifesta, orrenda e detestabile»):
Per l’anno successivo, il 353H (964), non manca di segnalare la pronta reazione dei sunniti di Baghdad:
Curiosa e degna di nota – e con quest’ultima citazione ci si congederà da Ibn Kaṯīr, nonostante egli continui quasi anno per anno, fino al termine del periodo buyide (447H/1055), a riportare tali avvenimenti [7] – anche la piega quasi teatrale presa, nell’anno 363H (974), dalla risposta sunnita alle processioni di ʽĀšūrā’:
Studiosi del calibro di Bausani (Bausani, 2017: 419-421) e Yarshater (Yarshater, 1979: 88-94) hanno messo in relazione queste manifestazioni con antichi rituali pubblici di cordoglio precedenti alla riforma operata dallo zoroastrismo, diffusi, in particolar modo, nell’Asia centrale iranica (Khorasan, Tansoxiana, Sogdiana, Corasmia) [9], che nelle regioni di Samarcanda (almeno sino al VII secolo [10]) e di Bukhara (X secolo [11]) sarebbero sopravvissuti alla propagazione dell’Islam. Nello specifico, gli studi rimandano al ciclo di Siyāvoš. Se non esistono documenti provanti che tale materiale mitico possa aver influenzato gli aspetti della cultualità sciita in questione, in assenza altresì di prove in senso contrario, ciò non è del tutto da escludere, per quanto qualsiasi tipo di affermazione non possa discostarsi dall’alveo della congetturalità.
Tenendo conto di ciò, dunque, sembrerebbe che il taʽziye-xwāni in quanto forma teatrale, o rituale teatralizzato, abbia avuto origine a partire dalle processioni (daste) di commemorazione del terzo imam. L’evoluzione parallela rispetto a quanto accaduto nella storia del teatro occidentale è senza dubbio affascinante. Sarebbe facile e immediato scomodare la Poetica dello Stagirita [12], ma è più stuzzicante constatare quanto tale processo si accosti a ciò che è avvenuto nel comune di Marineo, in provincia di Palermo, in tempi recenti e in una terra avvezza, da almeno un secolo, alla drammatizzazione [13], secondo quanto documentato da Pitrè (Pitrè, 1979: 131-139).
Riporta Pitrè che la festa di San Ciro, martire e patrono di Marineo, era caratterizzata da tre momenti, quello delle due processioni, del carro, e – ed è qui elemento di interesse – della “dimostranza”: «Dimustranzi erano anche quelle [processioni [14]] che si facevano in Marineo in onore del patrono principale S. Ciro martire, che ricorre la penultima Domenica di Agosto. Si rappresentava, come è solito, la vita del santo: e persone che furono presenti agli ultimi spettacoli [15] affermano che i personaggi a quando a quando parlavano» (Pitrè, 1980: 98).
La “Dimostranza”, nata come mera processione nel XVII secolo, avrebbe visto introdotti nella seconda metà del XVIII secolo i primi dialoghi, in un momento comunque successivo a quello in cui la processione conobbe la presenza di tableaux vivants e figuranti (Benanti, Spataro, 1985: 93; La Spina, 1976: 19). Ebbe in quel momento avvio il processo di differenziazione tra i due riti, processione e “dimostranza”, che sussistono tuttora separati.
Anche per il taʽziye il passaggio dalla raffigurazione alla rappresentazione, con la comparsa del dialogo, sarebbe avvenuto all’interno della cornice delle processioni, secondo quanto ipotizza Chelkowski, che ne ricostruisce le fasi: il taʽziye-xwāni, in quanto forma di teatro rituale, dovrebbe aver avuto origine dalla fusione dei riti ambulatoriali (daste, kārvān) e di quelli stazionari (in primis il rowże-xwāni, lamentazione pubblica, lettura o recitazione, spesso salmodiata, sulla vita e, soprattutto, la morte dei martiri della «Gente della Casa») (Chelkowski, 2009). Tra il XVI e il XVIII secolo, l’aumento del numero di partecipanti in costume, figuranti personaggi ed episodi della battaglia di Karbalā’ in cui l’Imam andò incontrò al martirio, favorì o ispirò l’inserzione all’interno delle processioni di tableaux vivants collocati su carri e piattaforme dotate di ruote. Se ne trova una descrizione in un resoconto della prima metà del secolo XVIII:
I tableaux vivants (performance e non ancora teatro, secondo la terminologia moderna) si sarebbero ulteriormente evoluti in quello che Chelkowski chiama «processional taʽzia» [16] e, in seguito, sul finire del XVIII secolo, nel taʽziye vero e proprio, allorquando «the costumed marchers of the dasta began to recite the stories of the rowże-xwāni. The story lines of the rowże-xwāni were converted into the dramatic texts of the taʽzia. The movement of parade was changed into the motions of the actors; the parade costumes became stage costumes» (Chelkowski, 2009). In quest’ottica, la “dimostranza” risulta più affine, piuttosto che al taʽziye-xwāni tout court. al taʽziye-kārvāni descritto nella testimonianza precedente o – soprattutto – al taʽziye-dowre, il «taʽziye a rotazione», in cui diversi gruppi, indipendenti l’uno dall’altro, si alternavano su più saku (podio, palco rialzato), passando al saku successivo una volta terminata la rappresentazione del proprio episodio e a intervalli tali da permettere al pubblico di assistere all’intera storia senza spostamenti (Beyzaì, 2022: 179).
In entrambi i casi, è stato determinante un incentivo dall’alto. È noto il modo in cui operò la monarchia safavide sin dalla sua affermazione, nel 1501, incentivando la diffusione dello sciismo di tipo imamita, da un lato, incrementando la presenza di quḍāt e ʽulamāʼ, fatti venire dal Ǧabal ʽĀmil, nel Libano, e promuovendo la produzione di opere panegiristico-agiografiche in lode degli alidi; per diffondere la nuova fede tra la popolazione, attraverso la capillarizzazione dell’opera di predicatori e rowże-xwānān, nonché la spettacolarizzazione dei riti di muḥarram, in massimo modo nella capitale Isfahan. Il tutto, verosimilmente, in chiave anti-ottomana.
Nel caso di Marineo, la concessione della reliquia del teschio di San Ciro da parte di papa Alessandro VII dietro petizione del marchese Girolamo Pilo Bologni, nell’aprile del 1665, giunta a destinazione il 20 agosto, pose il problema di far conoscere alla popolazione la vita del medico alessandrino, appena proclamato patrono e protettore della cittadina [17], il che dovrebbe rendere plausibile l’ipotesi che pone l’inizio delle manifestazioni in quello stesso anno di arrivo (Benanti, Spataro, 1985: 93). Il nome della “dimostranza” sarebbe perciò legato allo scopo stesso dello spettacolo, quello di «dimostrare» ai marinesi la vita del santo al fine di agevolarne la sostituzione in qualità di patrono al precedente protettore del paese, San Giorgio: «un espediente didattico, semplice e immediato, che promuovesse il culto di San Ciro coinvolgendo tutti i fedeli alla sua esperienza umana» (Benanti, Di Sclafani, Spataro, 1997: 21).
Taʽziye e “Dimostranza” a confronto: i luoghi della rappresentazione
Fulchignoni ha già messo in correlazione lo spazio rappresentativo prevalentemente circolare dei drammi sacri e dei misteri europei e il saku (o, per sineddoche, taxt, in particolar modo nei takiye temporanei) del taʽziye (Fulchignoni, 1979: 131-136). In entrambi i casi, si tratta (o trattava) spesso di un ampio spazio pubblico con al centro una piattaforma circolare rialzata rispetto al livello stradale in modo da accrescere la visibilità degli attori, con gli spettatori che si raccolgono numerosi intorno ad essa.
Rey-Flaud, a proposito del teatro europeo, ha evidenziato come la forma «accerchiante» dello spazio drammatico costituisse uno spazio «per una forma drammatica magica, nella quale tutti i partecipanti comunicavano nella ricerca di un disegno così totale da sfidare le definizioni e mettere in discussione il teatro stesso. In tal modo il Cerchio dei Misteri ricreerebbe il Cerchio Magico» nel tentativo di ricomporre le disarmonie «di un mondo intero che si volgeva verso le età che lo fondavano e i miti che lo garantivano» (Alonge, Perrelli, 2019: 52).
Al centro del luogo prescelto, che può trattarsi sia dell’interno di un edificio apposito (takiye) o prestatosi per l’occasione (ḥoseyniye e spazi affini), sia di un’area pubblica, lo spazio scenico tipico di un taʽziye prevede il summenzionato saku, di forma circolare o poligonale, circondato a sua volta da un anello che funge da corridoio per gli spostamenti e da scena secondaria, per i combattimenti e, se a disposizione degli organizzatori, per il passaggio di animali. Ulteriori scene minori dal particolare valore simbolico (come, ad esempio, la tomba del Profeta in alcuni taʽziye del martirio di Fāṭeme Zahrā), se previste dalla fabula, si collocano ai margini dell’anello appena descritto. La proliferazione dei luoghi deputati nel taʽziye, tuttavia, non conobbe le dimensioni di quanto avvenuto nel teatro medioevale (Alonge, Perrelli, 2019: 45-46).
L’erezione di takiye stabili per le rappresentazioni conobbe grande diffusione in particolare nel secolo XIX. Al tempo della monarchia qājār (1796-1925), due terzi dei villaggi iraniani erano dotati di takiye stabili o temporanei, le città, in media, di quattro takiye stabili, mentre la sola Tehran ne annoverava quasi trenta (Beyzaì, 2022: 179) [18].
La natura itinerante della “dimostranza” e gli spostamenti di attori e, all’occorrenza, del pubblico che essa comporta rendono poco praticabile la costruzione di simili piattaforme a ogni stazione. La disposizione degli spettatori non è tuttavia dissimile da quella del taʽziye, prevedendo che si lasci al centro uno spazio adeguato alla rappresentazione, nei limiti della conformazione del luogo scelto per la sosta, che funge da scena, e gli astanti in circolo intorno agli attori [19]. Finestre e balconi delle abitazioni prospicienti lo spiazzo fungevano, a Marineo come in Iran, da luogo privilegiato di osservazione per gli spettatori di rilievo.
Nei secoli, i luoghi selezionati per la messa in scena dei quadri (o scene, circa venti ma di numero variabile, aumentati nel corso delle rappresentazioni) della “dimostranza” sono mutati con il variare dell’assetto urbanistico della cittadina e delle scelte degli organizzatori, ma ricalcando nella gran parte dei casi il medesimo percorso seguito dalla processione. Nemmeno il numero delle stazioni si è mantenuto fisso con gli anni, e, come se ciò non bastasse, secondo quanto scrive Francesco Sanfilippo, corrispondente da Marineo per il Corriere dell’Isola nel 1894, gli attori tendevano a dare avvio alla rappresentazione ovunque vi fosse un numero cospicuo di spettatori e non soltanto una volta giunti negli spazi designati.
Taʽziye-ye Ḥażrat-e Qāsem, il giovane Qāsem, Qom, 5 agosto 2022 [7 muḥarram 1444] (ph. Salvatore Amenta)
Gli attori
«La motivazione principale degli addetti ai lavori dei taʽzié era la convinzione di poter ottenere la benedizione divina, fondata su un grande sentimento di fede. I primi attori della storia del taʽzié furono tutti dilettanti e pur ricevendo dei doni in cambio delle loro prestazioni non erano mai loro stessi a pretenderli» (Beyzaì, 2022: 198). Del resto, il testo stesso di un taʽziye recita:
Tutti gli attori, sia per i ruoli maschili che per quelli femminili, sono uomini [20]. Essi vengono selezionati anche per il loro aspetto, che deve confarsi al ruolo e alle aspettative del pubblico. Così, per esempio, Floor, citando Ṣadr-ol-Ašrāf:
O Beyzaì, citando ʽAbdollāh Mostowfi:
Non si farà qui questione dello stile recitativo, per il quale si rimanda alle opere in bibliografia. A questo proposito, ci si limiterà a dire che, allorquando il genere acquistò una sua valenza, si avvertì il bisogno di un innalzamento della figura dell’attore, in virtù di un diverso peso dato alle abilità performative, venendosi a creare una tradizione artistica disgiunta da quella popolare, più spontanea e naïve.
Parimenti, la “dimostranza” di San Ciro «Non dentro i teatri, né da artisti drammatici si esegue, ma sulle pubbliche vie e sulle piazze da artigiani, da operai e da altra gente quasi sempre priva di istruzione, in abiti e costumi appropriati» (Pitrè, 1979: 136). In origine, tuttavia, a organizzare e prender parte alla sacra rappresentazione, a Marineo, sarebbero stati i ceti più abbienti. Sul finire del XIX secolo, «li jurnateri» esigettero e ottennero dai «civili» il diritto a prender parte ai riti, provocando l’allargamento del bacino dei partecipanti attivi con il conseguente coinvolgimento dei ceti popolari (Benanti, Di Sclafani, Spataro, 1997: 12). Ciò avrebbe comportato altresì mutamenti linguistici nel testo della stessa “dimostranza” e nei costumi.
In questa direzione anche Sanfilippo, che, basandosi su fonti orali, si sente sufficientemente sicuro nell’affermare che
Gli abiti di scena
Scrive Pitrè:
Emergono dunque due tendenze, quella all’alterità, data dai costumi romani, ma anche «arabi» o «egiziani», e quella al rispecchiamento degli spettatori nei personaggi attraverso l’utilizzo di abiti spagnoli, secenteschi, ossia contemporanei al sorgere delle rappresentazioni. Al tempo in cui scriveva Pitrè, anche i costumi spagnoli, conservatisi nell’uso senza che venissero sostituti man mano da abiti più familiari agli occhi degli osservatori coevi, dovevano costituire ormai un anacronismo, distante dalle intenzioni dei primi direttori e attori. Per tale motivo, Benanti, Di Sclafani e Spataro possono affermare che ciò «rappresenta una delle peculiarità della Dimostranza, sicuramente retaggio della tradizione, allorquando per fare emergere negli spettatori una determinata sensazione, si preferiva ricorrere, con l’uso di certi costumi, ad immagini o situazioni consuete, quotidiane, così da rendere palese il senso della narrazione» (Benanti, Di Sclafani, Spataro, 1997: 18). Così era un tempo possibile ammirare San Ciro che «come tutti i taumaturghi veste con zimmarra, cappello a cilindro e canna d’America col pomo d’argento», o un decurione romano vestito come un maresciallo di Francia (Benanti, Spataro, 1985: 113 e 116).
Il medesimo meccanismo viene sfruttato dal taʽziye, sebbene ciò avvenga oggi meno di frequente rispetto al secolo scorso. Il realismo veniva privilegiato a scapito dell’accuratezza storica, che non rientrava tra i parametri di scelta dei costumi: questi andavano bene purché fossero arabeggianti, o, meglio, rispecchiassero il modo in cui il pubblico pensava che gli abiti degli arabi del VII secolo dovessero sembrare. Lo scopo di tale fattura d’abiti era ed è quello di aiutare lo spettatore a riconoscere il ruolo interpretato dagli attori [21], e da ciò deriva anche la differenziazione cromatica tra owliyā, i protagonisti, in verde, e gli ašqiyā, gli antagonisti, in rosso (Chelkowski, 2009).
Ancora a metà del secolo scorso poteva accadere che, per far sì che chi interpretava un ambasciatore «europeo» fosse immediatamente riconoscibile, non vi fosse scrupolo alcuno che impedisse al taʽziye-gardān, il direttore del taʽziye, di fornire all’attore il cappotto di foggia occidentale indossato dagli ambasciatori britannici o francesi in Iran, o l’uniforme in dotazione nell’esercito dei Paesi menzionati, affinché l’attore venisse subito percepito dal pubblico come europeo [22], oppure, forse su influsso dei film hollywoodiani, di far indossare agli ašqiyā degli occhiali da sole, così come in epoca pahlavi (1925-1979), spesso, le giacche dell’esercito iraniano potevano essere utilizzate per sostituire le cotte di maglia dei guerrieri, essendo queste di difficile reperibilità (Chelkowski, 2009).
Determinante, inoltre, è la fantasia popolare, che può trovare sfogo nello sfoggio di decorazioni di vario tipo, accessori e monili (Beyzaì, 2022: 202), ma è altresì possibile che si assista al fenomeno opposto, con solo un velo un po’ inusuale a indicare un santo, o un pugnale un nemico, lasciando che l’immaginazione supplisca all’umiltà dei preparativi.
Oggi la tendenza, sia per il taʽziye che per la “dimostranza”, è quella di acquistare o noleggiare i vestiti da utilizzare piuttosto che crearne di appositi in seno alla comunità, fattore che allontana entrambi dal rito, sulla via della fissazione come genere teatrale. In Iran esistono attività che si occupano del commercio di costumi per il taʽziye, uniformando gli abiti in tutto il territorio della Repubblica Islamica, sclerotizzandoli nella pratica e nell’immaginario e rendendoli insensibili al mutamento dei tempi, e si segnala la nascita di siti internet e pagine sui principali social network dedicati alla vendita di questi, e pure i marinesi sono oggi soliti prenderne in affitto o in prestito presso ditte specializzate o enti e compagnie teatrali (Benanti, Di Sclafani, Spataro, 1997: 19).
Gli oggetti di scena
Anche gli oggetti utilizzati nel taʽziye hanno un forte valore simbolico: sulla scena, un recipiente colmo d’acqua può rappresentare l’Eufrate, qualche ramo diventare un palmeto, e lo stesso saku spoglio la piana deserta di Karbalā’ (Chelkowski, 2009). Vengono altresì utilizzati strumenti privi di tale valore nella loro funzione abituale, come dei bicchieri e delle comuni sedie. Questi oggetti vengono normalmente trasportati sulla scena da coloro, tra gli stessi attori, che non sono in quel momento all’opera [23].
Negli spettacoli che godevano del patrocinio della corte, invece, gli oggetti di scena riflettevano la posizione del mecenate e «The historical situation was re-created in terms of contemporary splendor» (Chelkowski, 2009). In alcuni casi, ciò condusse sino all’ideazione e impiego di artifici e macchine teatrali (Beyzaì, 2022: 205).
Per ovvi motivi, la natura itinerante della “dimostranza” di San Ciro non ha consentito lo sviluppo di scenografia fissa. Al di là dei comuni strumenti scenici (per fare un solo esempio, i libri del giovane Ciro), le testimonianze, tuttavia, segnalano la presenza di oggetti di foggia amatoriale, utili agli sviluppi della trama, nella cui creazione sembra aver avuto un ruolo una tendenza all’astrazione, al simbolo, benché sottomessa al realismo necessario alla riuscita della rappresentazione.
Sanfilippo, testimone oculare dell’edizione del 1894, descrive: il «fascetto di stoppia con in punta un brandello di carta rossa, per significare che la stoppia è accesa e che questa alimenti il fuoco della caldaia» di cartone che San Ciro si trascina dietro, senza fondo così che possa tranquillamente camminare e al tempo stesso continuare a sottoporsi al supplizio (Benanti, Spataro, 1985: 126); una «casetta ambulante» dotata di finestra ferrata, rappresentazione delle carceri (Benanti, Spataro, 1985: 120); la grotta di legno mobile presso cui il Santo si ritira (Benanti, Spataro, 1985: 117); i canestri di frutta portati in corteo dagli angeli nei momenti finali della “dimostranza”, che sarebbero, secondo Sanfilippo, figurazione del paradiso terrestre presso cui il Santo, dopo la morte, si trova (Benanti, Spataro, 1985: 132).
Taʽziye-ye Ḥażrat-e ʽAbbās, il martirio di ʽAbbās, Qom, 30 giugno 2022 [30 ḏū al-qaʽda 1443] (ph. Salvatore Amenta)
La direzione della rappresentazione
«A taʽzia director is a “man for all seasons” […] he acts as the producer, stage manager, prompter, PR man, and financial director for the company» (Chelkowski, 2009). Il direttore del taʽziye è chiamato taʽziye-gardān, šabih-gardān o, genericamente, ostād, «maestro». Beyzaì riferisce che una simile figura di guida nacque abbastanza presto, quando fu avvertito il bisogno di un coordinamento all’interno delle processioni, in una fase in cui i riti, tra cui il taʽziye, erano ancora prevalentemente itineranti. Tale figura veniva chiamata sardam-dār (Beyzaì, 2022: 205).
Oltre all’organizzazione dello spettacolo, di cui si occupa, il direttore del taʽziye ha il compito di guidare gli attori durante le prove (sempre che ve ne sia il tempo e sia possibile effettuarle) e, soprattutto, nel corso delle rappresentazioni, dirigere i musicisti e vigilare sui comportamenti del pubblico, e nel fare ciò non è affatto strano o inusuale vederlo comparire sulla scena, parlare direttamente con gli attori, dare una sistemata ai loro abiti e rivolgersi direttamente agli spettatori per invitarli a mantenere un comportamento rispettoso nei confronti dell’Imam. Spesso si occupa anche di raccogliere le offerte e consegnarle agli attori – ma sarebbe più corretto dire ai personaggi della storia sacra che questi si trovano a impersonare – a cui sono indirizzate, appuntandole loro sulle vesti.
La fama di Mirzā Moḥammad Bāqer, taʽziye-gardān di corte nella Tehran di inizio ‘900, che per la sua abilità si guadagnò il titolo di moʽin ol-bokā, «fonte del pianto» [24], fu tale che questo stesso soprannome divenne, per antonomasia, sinonimo di direttore di taʽziye (Chelkowski, 2009). Di lui scrive Mostowfi:
Se nei grandi centri, come Tehran, vi era una struttura organizzativa ben delineata, nei villaggi l’assunzione del ruolo di taʽziye-gardān, similmente a quanto avviene per gli attori, era ed è ancora dettata dalla devozione. A Solṭānābād, nel 1935, il direttore del taʽziye era il barbiere della cittadina (Floor, 2005: 162).
Passando alla “dimostranza”, ci si affida un’ultima volta a Pitrè:
Sanfilippo, che ricorda anche i nomi dei direttori succedutisi nel corso dei secoli, dà un quadro più colorito degli oneri del ruolo:
Qualsiasi commento è superfluo: a leggere questi estratti sembrerebbe quasi che le descrizioni del taʽziye-gardān e del direttore della “dimostranza” siano intercambiabili. Il Pernice immortalato da Sanfilippo è un uomo «che si spolmona, che si scalmana per mettere in ordine tutti», per la buona riuscita dello spettacolo sacro: «Mette a posto un villano barbuto che, intento a contemplare l’innamorata, sta fermo come un palo e non pensa più che ha un dovere da compiere; suggerisce a memoria qualche verso dimenticato ad un timido verecondo che si confonde, e gli fa fare la figura; aggiusta un quadro plastico […]; prova l’orchestra; dirige i cori; dispone ed ordina tutti nei propri posti» (Benanti, Spataro, 1985: 103-104), ma fa anche uso della sua autorità per sedare eventuali litigi tra attori (ivi: 124) o tra attori e astanti (ivi: 129) e richiamare tutti all’ordine e all’ordinario svolgimento della “dimostranza”.
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