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Il trono è ancora vuoto. Retoriche della violenza e strategie della gerarchia tra potere mediatico, politico e accademico
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2024 @ 03:21 In Cultura,Politica | No Comments
Premessa
Ho riletto con un certo patema il testo che segue, per diverse ragioni. Da un lato gli eventi di cui narro mi hanno costretto a fare i conti con un me passato di cui stavo perdendo memoria, e non è sempre piacevole avere a che fare con forme di pensiero che ci devono essere attribuite per ragioni storiche ma dalle quali ci siamo decisamente allontanati per un sensibile slittamento sottostante dell’orizzonte morale di riferimento. Essere in disaccordo con sé stessi, insomma, non è affatto piacevole, anche se questo maledetto “vissuto”, e la sua dissonanza cognitiva, si affacciano sempre più frequentemente, in modi diversi, nella mia vita.
Ma ancor più rileggere e sistemare quella prima versione per la pubblicazione attuale mi ha infastidito per quel che ha significato per me sul piano professionale. Avevo proposto quell’articolo per un numero che stavo curando di RAC – Rivista Italiana di Antropologia, uscito poi senza indicazione del curatore come RAC 1/2021 Arcana Imperii, ma l’articolo, nonostante i molteplici rimaneggiamenti che avevo condotto sotto la guida sapiente e paziente di Fabio Dei, non era stato considerato pubblicabile dall’editore. Sebbene avesse brillantemente superato la peer review (con indicazioni preziose, anzi, che ne avevano migliorato la fattura finale), il Mulino temeva che il racconto che facevo nel mio testo potesse irritare qualcuno dei soggetti rappresentati al punto da indurre a qualche forma di ritorsione legale. Ero stato quindi censurato senza possibilità di appello non perché pretendessi di pubblicare su una rivista scientifica qualcosa di non attendibile, non verificabile o falso, ma piuttosto per il motivo opposto, che cioè quel che dicevo era talmente “vero” da poter generare una cosa di simile allo scandalo.
Al di là del caso specifico (e violando in questo caso uno degli assunti del testo presentato, vale a dire l’impegno a resistere a facili generalizzazioni o transvalutazioni di eventi particolari) mi è sembrata molto preoccupante la motivazione addotta per bloccare la pubblicazione, perché ridimensiona di molto il valore stesso che l’Accademia attribuisce alla pubblicazione con revisione dei pari su riviste che dovrebbero trarre il loro prestigio e la loro credibilità dal prestigio e dalla credibilità delle case editrici che le pubblicano. Se un testo non viene pubblicato da un noto editore “scientifico” per timore di ritorsioni legali, allora si è verificato un cortocircuito preoccupante tra libertà della ricerca e attendibilità delle pubblicazioni. Se non è la comunità dei pari a dover valutare in totale libertà la pubblicabilità di un prodotto, ma è l’editore – che dovrebbe proteggere la libertà di quella comunità – a stabilire se quella pubblicazione sia pericolosa (per lui editore) e rifiutarla per ragioni politiche e non scientifiche, tutto il sistema della peer review assume un altro senso. Almeno nel mio caso, l’editore non ha pensato a pubblicare dati veri e respingere i dati falsi, ma a pubblicare dati innocui e respingere dati potenzialmente fastidiosi per sé.
Il dibattito sull’etica della ricerca imperversa da qualche anno, finalmente, ed è giusto che le scienze umane si preoccupino del modo in cui sono gestiti e resi pubblici i dati raccolti nel corso delle nostre ricerche. Sarebbe però mortificante se ad essere protetti fossero prima di tutto gli editori, e solo in second’ordine i soggetti di cui si parla o il soggetto enunciante (l’antropologo o antropologa). Trovo quindi particolarmente confortante che oggi questo articolo trovi spazio in una rivista di antropologia, che mostra così il segno più evidente della sua indipendenza di giudizio, la prima salvaguardia alla libertà di ricerca.
Il trono è ancora vuoto
Queste pagine, si potrebbe sintetizzare, ragionano del rapporto tra autorità e gerarchia nell’Italia di inizio millennio, con l’intento di verificare l’ipotesi che l’esercizio del potere, almeno nel caso che presenteremo, non sia un velo di copertura di un livello ulteriore, occulto (Aria 2020), ma la forma interamente superficiale che assumono rapporti interpersonali attivati da motivazioni locali, senza alcun tipo di segreto sottostante, se non l’assenza stessa del segreto da occultare. Quel che non può che avvenire a livello interpersonale e prevalentemente locale viene poi (con maggiore o minore successo) focalizzato e trasvalutato (Tambiah 1996), collocato cioè in un contesto morale interpretativo più ampio di quello che l’ha effettivamente generato, vale a dire sottoposto a un «lavoro strutturale» (Sahlins 2005) che pone in atto commutatori di livello: sono questi commutatori a istituire – quando accettati dagli attori sociali che cercano di decifrare le trame del potere e il suo funzionamento al di là dei meccanismi formali – il disvelamento ulteriore del «generale», del «collettivo» e, in ultima istanza, del «politico».
Nell’aprile 2021 il giornalista Filippo Facci ha pubblicato un reportage dedicato a un episodio minore ma molto noto nello sviluppo delle vicende giudiziarie e politiche di Mani Pulite, l’inchiesta sulla corruzione che nei primi anni novanta scosse alla radice il sistema politico italiano. Ricostruendo l’episodio delle «monetine al Raphael» (la vociferante contestazione contro Bettino Craxi che ebbe luogo il 30 aprile 1993), il libro di Facci sosteneva che quella protesta aveva in realtà l’obiettivo di uccidere davvero il politico milanese, e che il progetto non andò in porto solo per carenza di organizzazione. A unico sostegno di questa tesi, il libro del 2021 riportava estesamente brani di un post che io, Pietro Vereni, avevo pubblicato in un blog collettivo nel 2003 (in occasione del decennale delle «monetine») in cui, per avvalorare il mio convincimento che lo sdegno popolare che aveva circonfuso Mani Pulite fosse stato politicamente fallimentare e non avesse affatto prodotto quel rinnovamento della politica italiana che tanti auspicavano, sostenevo provocatoriamente che la protesta contro Craxi non era stata sufficiente, e che la folla avrebbe piuttosto dovuto sbranare Craxi e mangiarselo, in una sorta di regicidio rituale che segnasse quel passaggio epocale del modo di fare politica tanto agognato dalla folla indignata.
Una volta messo in circolazione come richiamo propagandistico del libro di Facci, il mio post sulla necessità di sbranare Craxi diviene noto negli stessi giorni (fine aprile 2021) anche ad alcuni politici, in particolare a un declinante Matteo Renzi, leader del piccolo partito Italia Viva, in quel periodo piuttosto sotto pressione sia per lo scarso credito che la neonata creatura politica da lui voluta sembrava riscontrare nei sondaggi, sia per alcune vicende poco chiare di finanziamenti mediorientali e di misteriosi colloqui con funzionari dei Servizi segreti. Facendo leva sulla sua antica vocazione populista anti-intellettuale per distrarre l’attenzione dalle sue vicende, e con l’intento di riguadagnare un minimo di legittimità del suo ruolo pubblico, Renzi presenta con alcuni colleghi un’interrogazione parlamentare alla Ministra dell’Università chiedendo esplicitamente se un professore che ha espresso un tale livello di violenza verbale sia ancora degno di essere mantenuto nella sua funzione docente.
Una volta avanzata l’interrogazione parlamentare, l’Ateneo di Tor Vergata, dove lavoro dal 2008, mi chiede tramite il Rettore di essere informato sulla questione, cosa che faccio con una relazione puntuale che viene giudicata pienamente soddisfacente. La vicenda è però ripresa all’interno del mio Dipartimento di afferenza: un collega ordinario, con cui avevo dal 2019 una polemica in corso per motivi di allocazione delle risorse assegnate al Dipartimento e, a mio pubblico parere, ingiustamente accaparrate da settori scientifico-disciplinari oggettivamente meno in affanno del mio per numero di studenti e per spazi di ricerca disponibili, conferma pubblicamente che pratico la violenza verbale e lo hate speech, e che quindi non sono adeguato alla funzione docente, aggiungendo quindi questo argomento «istituzionale» ai suoi ripetuti tentativi volti a impedire la programmazione di un concorso finalizzato al mio avanzamento di carriera alla fascia di professore ordinario.
Lo sdegno civile di alcuni giornalisti, lo scandalo istituzionale di alcuni senatori della Repubblica e l’appello ai doveri costituzionali della docenza da parte di alcuni professori ordinari non sono, nell’ipotesi di ricerca che avanziamo, il richiamo a un livello ulteriore, più astratto ma anche più pregnante, di gerarchia civile, istituzionale, accademica, ma sono piuttosto il manto che vorrebbe rendere invisibile il trono vuoto del potere. Per «trono vuoto» (Viola 1989) intendiamo la fase in cui le decisioni politiche sono sottoposte a pressioni sociali e culturali nella loro legittimazione, vale a dire il momento critico in cui il potere deve trovare pubblica convalida, non solo la forza del proprio esercizio. L’indignazione che incontreremo incarnata nel cipiglio del giornalista, del politico e dell’accademico è quindi la manifestazione somatizzata della fragilità di un potere che fatica a trovare conferma, più che la postura iniziale di chi, forte della sua forza, esercita, altrettanto serenamente quanto severamente, il potere che gli è stato assegnato.
Non è affatto un caso, vorrei sostenere, che l’intrico di questa vicenda, a cavallo tra gli sfiniti poteri della comunicazione, della politica e dell’accademia, prenda le mosse, almeno cronologicamente, con quello che si pretende di leggere come un tentativo abortito di regicidio, perché è proprio nel senso delle monetine al Raphael che si può capire meglio il tipo di «lavoro strutturale» che gli attori della vicenda hanno cercato di portare a compimento.
Paolo Viola (1989) ci ha raccontato con grande accuratezza il passaggio simbolico della Rivoluzione francese, vale a dire la transizione del potere (qualunque cosa allora si intendesse) dal Sovrano al Popolo, e il dramma fondamentale che questo passaggio ha istituito per il Potere – costretto a ridisegnarsi in organi prima vassalli e ora progressivamente concepiti in reciproco equilibrio – ma anche per il Popolo. Il soggetto politico sostitutivo del Sovrano è legittimato all’uso della violenza solo nella fase propriamente rivoluzionaria: «Prima della Bastiglia e dopo la morte del re, la violenza popolare non fu tollerata, e la direzione politica ebbe il sopravvento» (Viola 1989: XII). Se quindi non fosse stata esercitata a quel modo, la violenza non sarebbe stata popolare, e quindi non sarebbe stata fondativa del nuovo sistema di potere e del suo nuovo soggetto popolare sovrano; nella metafora di Viola, il trono sarebbe rimasto vuoto. Una volta svuotato del corpo del Sovrano, il trono doveva riempirsi della sostanza del Popolo ed è così che divenne comprensibile, e redenta in quanto necessaria, la violenza dell’azione rivoluzionaria fino al regicidio. L’arco di tempo che va dalla presa della Bastiglia alla ghigliottina per Luigi XVI legittima così il potere che viene dopo, ed è da dopo il Raphael che il giornalista, il politico e l’accademico guardano alla loro condizione di tenutari del potere.
Anche se giudicata con orrore e sgomento, la violenza del Raphael deve essere stata reale, altrimenti a quale titolo il senso civico del giornalista, il rispetto istituzionale del politico e l’obbedienza al dettato della Costituzione dell’accademico avrebbero mai legittimità di espressione? Questo è quel che Sahlins intende per «lavoro strutturale», vale a dire il salto di contesto che istituisce quel contesto ulteriore cui si appella: quel che accade nel qui e ora, nelle pieghe delle microscopiche interazioni personali, può (anzi, deve) essere letto come un sintomo di sistemi causali più ampi, di reti di connessione ben più profonde, di motivazioni originarie di ben altro spessore rispetto alle piccolezze della ricostruzione etnografica. Il lavoro strutturale si applica proprio nello spazio minuto delle interazioni personali agganciandole a e facendole dipendere da un’impalcatura ideologica, una struttura morale generale che giustifica il tono severo della reprimenda locale. Questo livello ulteriore rispetto al percepito reale acquisisce la sua valenza ontologica, entra in essere, per così dire, proprio grazie al fatto che si contrappone a un fattarello di misere dimensioni.
Il giornalista trasforma un insulto a un politico in un tentativo di omicidio e nella morte della Repubblica, e quindi la rivendicazione di quell’insulto diventa un tentato omicidio che pretende lo sdegno civico. Il politico definisce quell’insulto collettivo a Craxi come «una delle scene più cruente della storia della Repubblica» (Senato della Repubblica Atto n. 4-0543) e quindi bolla il professore che vi ha partecipato come inadeguato al suo ruolo di docente universitario. E l’accademico considera quell’insulto a Craxi come la prova che Vereni pratica consuetudinariamente lo hate speech, caratterista che – tanto più in questo mondo della comunicazione, in cui il discorso d’odio è diventato uno dei temi più dibattuti per comprendere la crisi morale della contemporaneità – lo rende forse inadatto a fare il docente universitario, e sicuramente a diventare professore ordinario con regolare concorso, che è quindi meglio non bandire.
La tesi che questo saggio intende argomentare è proprio quanto quel livello ulteriore sia necessario a giustificare (non a causare) per gli attori sociali il loro agire, e quanto dunque quell’agire che si radica in motivazioni di ordine strettamente privato (migliorare le proprie finanze con la vendita dell’ennesimo reportage, fingere di avere ancora qualcosa da dire mentre la propria carriera politica è in picchiata, vendicarsi per lo sgarbo subito da un inferiore di rango bloccandone la promozione) sia il tessuto connettivo della sfera pubblica e ideologica della cultura, che non esisterebbe come struttura se non fosse innervata dai piccoli interessi e dall’azione dei rapporti interpersonali di piccola scala. Il pensiero post-strutturalista, come è noto, ha rivitalizzato la nozione di agency anche a partire da questa prospettiva, ma quel che vogliamo enfatizzare in queste pagine è proprio la sua dimensione pratico-teorica (Bourdieu 2003), vale a dire di effettiva strutturazione del reale sociale in quadri di significazione più ampli.
Come ci ha insegnato Michael Herzfeld (1993, 1997, 2004), i grandi contesti interpretativi, «queste più ampie interpretazioni e più astratte analisi» (Geertz 1987: 60) che a volte tenderemmo a scrivere con le maiuscole (Nazione, Tradizione, Burocrazia, Patrimonio, Stato) sono generate proprio dentro pratiche che non possono che essere etnografate in dettaglio per acquisire il loro senso più compiuto, in una sorta di ribaltamento della concezione nietzschiana di genealogia (e forse con l’intento di recuperare il senso originario del termine per Foucault), che pretendeva di spiegare il dettaglio etnografico deduttivamente. Né ingenuamente induttivo, né idealisticamente deduttivo, il rapporto tra azione e struttura vorremmo fosse letto come co-generato [1].
Mentre il giornalismo tradizionale, la politica istituzionale e il ruolo pubblico della docenza universitaria perdono prestigio (da anni e senza particolari clamori, oramai) e faticano a raccogliere anche solo le tracce dell’antica deferenza loro dovuta (Collini 2017), alcuni attanti di quegli spazi mediatici, politici e accademici agiscono meccanicamente come se ancora gestissero quel potere nella sua integrità. La finzione in atto, dunque, non è quella di una pratica visibile che occulterebbe il vero potere soggiacente, ma la messa in scena di un potere baldanzoso e gonfio di sdegno che nega (forse prima di tutto a sé stesso) la propria inanità e che finisce per agire per piccolissime motivazioni personali: per un residuale tornaconto economico, per disperazione strategica, per il semplice oltraggio di non vedersi più riconosciuto come potere.
L’ipotesi di lavoro attorno a cui argomentiamo è quindi chiara: almeno in alcuni contesti specifici, quelle che certe letture attardate sul paradigma novecentesco potrebbero vedere come «lotte per il potere» o conflitti tra settori istituzionali per la gestione del bene comune e la legittimazione della sua rappresentazione pubblica, sono in verità piccolissime strategie razionali di sopravvivenza economica e simbolica, una specie di schiuma habermasiana delle moderne politiche del riconoscimento (Habermas, Taylor 1998), ridotte alla parodia di sé stesse, vale a dire alla salvaguardia dei privilegi delle tre «caste» più dileggiate dell’ultimo trentennio: i giornalisti, i politici, i professori [2].
Riprendendo la terminologia proposta altrove (Vereni 2021), saremmo di fronte a un caso di cratofilia autoreferenziale o masturbatoria, per cui alcuni tra i segnaposti più tradizionali dell’autorità e dell’autorevolezza (i mass media cartacei, la politica parlamentare, l’intellighenzia delle sedi universitarie) pretendono di averla vinta (di essere riconosciuti, in sostanza) solo in quanto sono segni del potere, perché cioè ne portano il blasone.
L’esposizione che segue intende proprio dimostrare come né il giornalista né gli estensori delle interrogazioni parlamentari né il professore universitario fossero mossi dall’intento esclusivamente pragmatico di esercitare il loro potere, combinandolo piuttosto con quello apparentemente tutto simbolico di vederselo riconosciuto, dato che è proprio la garanzia costruita del simbolico a rendere potenzialmente efficace la pratica di potere in atto. In questo modo «i ‘simboli dominanti’, che tendono a essere fini di per sé», si alternano costitutivamente ai «‘simboli strumentali’, che fungono da mezzi per i fini espliciti o impliciti del rituale» (Turner 1976, 72) senza poter stabilire quale livello determini l’altro.
Faciamus experimentum in corpore vili
Benedetto (Bettino) Craxi (1934-2000) fu uno dei più influenti politici italiani del secondo dopoguerra, segretario del Partito Socialista Italiano dal 1976 e Presidente del Consiglio tra il 1983 e il 1987 (Catania 2003). La vicenda nota come Mani Pulite (Guarnieri 2002; Vannucci 2009; Della Porta, Vannucci 2012) segnò di fatto la sua uscita di scena, e nel 1994 Craxi si ritirò in un autoimposto “esilio” a Hammamet, in Tunisia, dove ancor oggi si trova la sua tomba. Uno dei momenti più clamorosi del suo declino politico fu tra il 29 e il 30 aprile 1993. Dopo che, il 29, il Parlamento aveva negato quattro richieste di autorizzazione a procedere nei suoi confronti per vari reati tra cui quello di corruzione, e dopo che Craxi aveva ammesso di fronte allo stesso Parlamento la natura illecita di gran parte del sistema di finanziamento ai partiti, smentendo al contempo per sé l’accusa di corruzione per interesse personale [3], la sera del 30 il politico milanese fu «preso a monetine» all’uscita dell’Hotel Raphael, a Roma, da una folla variegata (tra cui spiccavano per spirito d’iniziativa gli attivisti del Partito Democratico della Sinistra e del Fronte della Gioventù) che non risparmiò in modo particolare il dileggio, con cori («Chi non salta socialista è, è!» e «Vuoi pure queste, Bettino vuoi pure queste?») rimasti famosi nell’immaginario popolare di quegli anni (Fulloni 2013).
La vicenda fu interpretata dai mass media dell’epoca come un segnale di esasperazione «popolare», che colpiva non secondariamente l’immagine arrogante che il leader socialista anche in quell’occasione aveva dato di sé e della classe politica che intendeva rappresentare. Non si parlava ancora di «casta» (Rizzo, Stella 2007), ma le indagini della Procura di Milano avevano dato la stura a un malcontento generalizzato che seguiva inevitabilmente il crollo di quel sistema mondiale bipolare che aveva irrigidito la naturale evoluzione della politica italiana per tutto il secondo dopoguerra, e che aveva tenuto fuori il PCI dal governo grazie a un patto ad excludendum tra DC e PSI che risaliva al 1963.
Nel 2003, in occasione del decennale di quella serata sicuramente memorabile, il clima imperante (era allora, per la seconda volta, Presidente del Consiglio il Cavalier Berlusconi) sembrava orientato a recuperare in positivo l’immagine di Craxi come colui che più di tutti aveva resistito alla pressione giustizialista dei giudici milanesi, e le complesse vicende giudiziarie che avevano afflitto Silvio Berlusconi fin dal suo ingresso in politica davano corpo a questa lettura vittimizzante dei fatti del 1993. In questo clima, io ero allora un piccolo intellettuale veneto residente a Roma e impiegato da un paio d’anni in una casa editrice specializzata in antropologia culturale, la Meltemi editore, e nel mio auto-ascritto ruolo di intellettuale pubblico, che mi veniva concesso dai nuovi strumenti di comunicazione elettronica, decisi di pubblicare su ‘Nazione Indiana’, un blog collettivo allora piuttosto letto, un mio «editoriale» sugli eventi del Raphael. Si tratta di un testo alquanto polemico e volutamente provocatorio, che da un lato intende distaccarsi dal revisionismo governativo filo-craxiano (forse deve essere ricordato che Berlusconi aveva enormemente beneficiato, nella sua attività di imprenditore televisivo, del sostegno politico di Bettino Craxi, cui era legato anche da un’amicizia personale), ma che prova anche a prendere le distanze dal valore dell’indignazione come strumento della lotta politica. Lo sdegno, dice prima di tutto quel testo, è uno strumento reazionario, che soddisfa chi lo esercita collocandolo senza sforzo dalla parte moralmente più apprezzabile, ma che non produce quell’effettivo mutamento culturale di cui il paese, in quegli anni, sembrava avere davvero bisogno. Ecco i passaggi più rilevanti di quel testo:
Di lì a poche settimane, avrei iniziato a mettere mano alla mia tesi di dottorato (Vereni 1998) per elaborarla in una monografia (Vereni 2004), inquadrando il legame tra le questioni identitarie emerse dalla mia ricerca sul campo in Macedonia tra il 1995 e il 1997 e la questione invece tutta italiana del ripensamento dell’appartenenza:
Dopo un altro paio di testi usciti con ‘Nazione Indiana’, nell’ottobre 2006 aprii un mio blog, dove ho pubblicato da allora diverse centinaia di post, alcuni di servizio agli studenti, mano a mano che l’impegno universitario sostituiva il lavoro di redattore editoriale e traduttore, ma molti di commento a fatti di cronaca o ancora editoriali in cui cercavo di mettere a frutto una lettura «antropologica» del quotidiano.
Lo snodo ulteriore di questa vicenda si apre nel febbraio del 2020, quindi a quasi diciassette anni di distanza dal post sul ‘Nazione Indiana’, quando venni contattato su Messenger (il servizio di messaggeria associato a Facebook) da Filippo Facci, un giornalista che durante la stagione di Mani Pulite scriveva su «L’Avanti!» (allora organo del PSI) cercando di compensare dal lato degli inquisiti le notizie che venivano fatte trapelare dalle Procure e che per questo si guadagnò il soprannome «il gazzettino degli avvocati» [4]. Da allora Facci ha collaborato con diverse testate di orientamento politico conservatore («il Giornale», «il Tempo», «Libero Quotidiano») e ha acquisito una certa notorietà come battagliero commentatore televisivo in diversi programmi di infotainment. La sua attività di giornalista, grazie alla fama di puntuto polemista, si affianca a quella di scrittore, su tematiche spesso legate a Mani Pulite o ad altre traversie del sistema giudiziario italiano (Facci 1996; 1997; 2009). Facci mi chiedeva di confermare di essere l’autore delle parole trovate online, richiesta cui rispondevo dicendo che effettivamente si trattava di un mio scritto, di cui non andavo però particolarmente fiero, visto che consideravo il giustizialismo di quella fase politica una delle conseguenze peggiori dell’indagine di Mani Pulite. Ammettevo dunque a Facci che “purtroppo” quel testo era mio.
Dopo un paio di ulteriori convenevoli, la conversazione si chiuse qui e non sentii più parlare per oltre un anno di Filippo Facci né delle ragioni di quell’abboccamento. Il 23 aprile 2021 (quattordici mesi dal primo contatto con Facci, diciotto anni dalla pubblicazione del post su ‘Nazione Indiana’) venni informato da un comune amico che Facci aveva pubblicato un libro (Facci 2021) e soprattutto che stava utilizzando sui suoi social lunghi brani del mio post per promuovere l’argomento centrale del suo scritto, vale a dire che attorno a Craxi si era consolidato, ispirato dal PDS, un odio belluino contro l’unico politico che avesse avuto il coraggio di contrapporsi al giustizialismo populista nato con Mani Pulite. Quell’odio, sosteneva Facci, era talmente forte che aveva alimentato un’effettiva volontà di uccidere Craxi, e le mie parole su ‘Nazione Indiana’ erano la prova di quell’intenzione. Risulta interessante etnograficamente il post di quasi cinquemila caratteri pubblicato su Facebook, in cui le uniche parole originali di Facci sono le seguenti:
Tutto il resto del corposo post si limita a copiare e incollare i brani più succosi del testo di ‘Nazione Indiana’, in Rete dal 2003 e non si capisce bene perché «ben mimetizzati». I commenti, grazie alla riesumazione di Facci, sono impietosi e alcune citazioni quasi casuali daranno la direzione di dove comincia a spostarsi la questione, del fatto cioè che ben presto il testo del 2003, scritto da un libero cittadino con velleità di intellettuale pubblico, viene rapidamente letto come un documento redatto oggi da un professore universitario:
Come si può notare (ma gli esempi sono veramente decine), si comincia a intravvedere un sentimento principale in gioco: lo sdegno per il fatto che queste cose sono state dette da «un professore». Nessuno presta caso al fatto che Facci ammette almeno che il testo è del 2003, quando io lavoravo come redattore editoriale e non avevo incarichi di alcun tipo nell’università pubblica italiana. La notizia è veramente poca cosa, ma tra i commenti se ne trova uno interessante dello scrittore e insegnante Igino Domanin:
Domanin, si scopre sulla pagina a lui intestata di Wikipedia, ha un dottorato in filosofia e ha pubblicato su temi di filosofia teoretica e antropologia filosofica. Più dell’evidente tentativo di far notare che aveva compreso il livello colto delle mie allusioni al tema della regalità sacra e del regicidio (Frazer 1922; cfr. Martellozzo 2021), quel che colpisce è l’accenno finale: «M’interessa il tuo libro», che sembrerebbe ovviamente confondere quel che dice Facci (Craxi è stato un martire dell’odio politico) con quel che avevo scritto io (Craxi è stato un sovrano che il popolo non ha avuto il coraggio di deporre veramente). Come se Domanin incarnasse il Lettore Modello prospettato dalla campagna promozionale di Facci; un lettore che dice: questo libro mi interessa, visto che riesce ad attirare l’attenzione anche se il suo tema (la politica italiana degli anni novanta!) non è esattamente una chicca di attualità.
Cominciai quindi presto a comprendere che Facci aveva bisogno del mio testo del 2003 per sostenere la tesi di un libro altrimenti complicato da piazzare, tanto più che qualche mese prima di quello di Facci era stato pubblicato un libro di un altro giornalista, che sosteneva l’argomento diametralmente opposto, vale a dire che Craxi era stato ingiustamente beatificato (Barbacetto 2020).
Facci non aveva alcun interesse ad attaccare l’intellighenzia, ma aveva bisogno come il pane di prove per la sua argomentazione, che cioè ci fu, se non pianificato, almeno auspicato un tentativo di uccidere Craxi durante la crisi di Mani Pulite. Non c’erano, ovviamente, altre testimonianze che potessero suffragare questa tesi, e quindi di nuovo, dopo il passaggio su Facebook, le parole del mio post vennero generosamente riproposte in un articolo dello stesso Facci a tutta pagina (con un richiamo in prima) pubblicato su “Libero” il 30 aprile con questa titolazione interna:
L’articolo era corredato da una foto centrale di Craxi e, sulla colonna di destra, da una più piccola del sottoscritto. Facci riprese lo stesso argomento in una lunga intervista rilasciata lo stesso giorno alla trasmissione Omnibus del canale La7:
Dagospia, il sito di pettegolezzo politico molto seguito dai politici professionisti di stanza a Roma, apre lo stesso 30 aprile una pagina comunicativamente formidabile: la testata recita «QUALCUNO LO VOLEVA MORTO», scritta che campeggia sullo sfondo che gronda schizzi rossi, a imitare il sangue. Prima della «Q» iniziale c’è una morte mantellata con la falce in mano, dopo la «O» finale c’è una foto di Craxi. Sotto la testata, lo schermo è diviso da due grandi primi piani: a sinistra Craxi, a destra Vereni. Subito sotto, il testo a caratteri rossi e neri, tutto in maiuscolo, è molto chiaro:
Si è trattato di un malinteso? Realmente la stampa nazionale ha creduto alla tesi di Facci secondo cui c’era all’epoca un’effettiva volontà politica di uccidere Craxi e magari mangiarlo? Provando a scavare ancora un poco più a fondo: davvero Facci crede che io volessi ammazzare e mangiarmi Craxi? Ora, quando si tratta di rappresentazioni, stabilire cosa sia «davvero davvero» è una questione irrisolvibile, ma il post di Igino Domanin riportato più sopra può essere utile come indizio esplicativo: al di là di quel che Facci o la stampa credono veramente, quel che conta è che un professore di antropologia con un trascorso di impulsi omicidi e di istigazione al cannibalismo è interessante, è molto interessante anzi. La stampa può costruirci sopra la notizia fragorosa, e lo scrittore può godere di una sostanziosa cassa di risonanza per pubblicizzare il suo prodotto in un mercato che langue come pochi in Europa. Per comprendere la strategia comunicativa di Facci non è necessario scavare nell’animo del giornalista e ricostruire il trauma dei suoi anni da cronista all’«Avanti!», dato che si tratta di una motivazione tutta contingente, tutta superficiale: Vereni non simboleggia nulla per Facci, non più di quanto un bastoncino simboleggi qualcosa per un bonobo che lo impiega per raccogliere insetti dai buchi di un termitaio. Il bastoncino funziona al di là delle proiezioni simboliche, consente di raggiungere uno scopo.
Presto consapevole di questa motivazione pragmatica dell’attacco mediatico cui ero esposto, già il 23 aprile scrissi a Facci con tono ironico, chiedendogli almeno un po’ di diritti d’autore del libro, di cui ormai mi sentivo coprotagonista, se non coautore, ma una settimana dopo, quando il circo mediatico aveva investito i canali nazionali e la mia foto di antropologo antropofago campeggiava in bella vista, pensai che il momento dello scherzo fosse finito, visto che il mio post del 2003 era l’unica prova della tesi del libro e assieme il migliore strumento della sua pubblicità.
Nello scambio di messaggi che ne seguì, il 30 aprile 2021, accusai Facci di ipocrisia e meschinità per come stava sfruttando senza scrupoli parole mie di molti anni prima per fare pubblicità al suo peraltro insulso pamphlet. Facci si limitò a replicare sostenendo il suo totale disinteresse per le conseguenze che la sua strategia di comunicazione avrebbero potuto avere per me, e concluse la conversazione con un commento ingiurioso e alquanto minaccioso.
Durante questa fase, alla fine di aprile 2021, ricevetti espressioni sentite di solidarietà da alcuni amici e colleghi, ma la lentezza con cui la notizia ancora circolava non l’aveva resa particolarmente visibile oltre la cerchia dei canali conservatori e genericamente di destra, dove era stata originariamente raccolta. Il mondo progressista dell’informazione era piuttosto ignaro degli avvenimenti, probabilmente anche perché pareva difficile, secondo la deontologia della professione giornalistica, giustificare nel 2021 come «notizia» un commento del 2003 su un evento del 1993, a meno che non si fosse amici di Facci, religiosamente convinti della verità della sua tesi del lancio di monetine come tentato omicidio, o almeno vicini agli interessi economici della sua casa editrice. Ma presto ci pensa «la politica» a lanciare una nuova versione del professore istigatore di omicidi. Il 30 aprile il senatore Matteo Renzi rilascia un’intervista a TG2 Post, una rubrica del Tg2 Rai:
Matteo Renzi non stava certo passando un buon periodo in quelle settimane, né politico, né mediatico. Lo stesso «Libero Quotidiano», appena citato, aveva il giorno prima pubblicato un pesante redazionale, pieno di allusioni agli oscuri magheggi politico-economici dell’ex Presidente del Consiglio [8]. In effetti, ormai da qualche mese i rapporti (soprattutto economici) di Matteo Renzi con l’Arabia Saudita erano sotto scrutinio, ma in quegli stessi giorni di fine aprile stava montando anche il «caso Mancini», vale a dire un incontro in un autogrill tra Renzi e un dirigente dei Servizi Segreti, incontro avvenuto il 23 dicembre 2020 che era stato filmato da un’astante (casuale o meno) con il telefono cellulare. Nella puntata di Report, il programma Rai di inchiesta giornalistica, andata in onda il 3 maggio (ed evidentemente registrata giorni prima, possiamo ipotizzare nella seconda metà di aprile), si vede non solo il video dell’incontro all’autogrill, ma anche un senatore Renzi che deve rispondere alquanto impacciato alle domande del giornalista sulle ragioni di quell’incontro [9].
Quando, al Tg2 Post, il 30 aprile, Renzi dichiara che intende presentare un’interrogazione parlamentare sulle inenarrabili esternazioni (di 18 anni prima) del professore universitario, sa già che di lì a un paio di giorni Report manderà in onda il video dell’incontro in autogrill e la sua intervista già registrata, in cui ammetteva che si era incontrato con Mancini perché «mi doveva portare, si figuri, i babbi, che sono un bellissimo wafer romagnolo che il dottor Mancini mi manda tutti gli anni, e che io mangio in modo molto vorace». Si aggiunga a questa serie di imbarazzi pubblici anche la questione privata del suo Italia Viva, che sembrava aver dato vita al governo Draghi sacrificando gran parte del suo tesoretto elettorale. Dai primi di aprile i sondaggi erano stati impietosi, e seppure Renzi avesse smentito una sua definitiva uscita dal partito, il clima interno non era certo dei migliori:
In queste condizioni di pressione mediatica e di tensioni interne alla sua parte, quale occasione migliore che riprendere l’antica polemica con i «professoroni» che tanto aveva caratterizzato il tono della sua ascesa politica e del suo ruolo di Presidente del Consiglio? (Sappino 2014). La letteratura sul renzismo è ormai corposa (Allegranti e Ventura 2014; Bordignon 2014; Ventura 2015; La Spina 2016; Ventura 2017; Corica 2017; Crapis 2018) e unanime, anche quando simpatetica, nel riconoscere che uno dei tratti del populismo renzista, e una delle caratteristiche che più lo ha reso inviso alla sinistra «tradizionale», è il suo radicale anti-intellettualismo, che ha fatto di chiunque graviti oltre il ristretto confine della burocrazia della Pubblica Amministrazione, tanto più se accademico, un obiettivo privilegiato delle sue polemiche. Si può argomentare su quanto, a sua volta, la postura di Renzi sia il frutto di un mutamento culturale generale, non solo italiano (Motta 2018), ma nel caso specifico il documento che presentiamo, un’interrogazione parlamentare che ha in Matteo Renzi il primo firmatario, ci pare, come nel caso di Facci, del tutto strumentale al caso specifico di un politico in difficoltà che ha bisogno di cavarsi dalla pegola e recupera, vista la ghiotta occasione, il suo antico vezzo di sparare ad alzo zero contro l’intellettualità:
Una volta che la notizia ha iniziato a circolare, proprio la notoria ostilità di Renzi verso l’intellighenzia italiana ha suscitato un’immediata reazione tra molti miei colleghi, in particolare tra gli antropologi e le antropologhe, ma non solo. In rete, tramite i social più diffusi e in conversazioni e chat private è iniziato un sommesso ma riconoscibile brulichio di contro-sdegno: in ordine decrescente di rilevanza sociale, il mondo intellettuale, l’Accademia, le scienze sociali, o almeno l’antropologia culturale erano sotto attacco, e bisognava reagire. Si sono affacciate le ipotesi di una raccolta di firme o di una petizione di sostegno, la cui necessità sembrava rafforzata da un paio di episodi paralleli che avevano visto altri docenti universitari coinvolti in polemiche e soprattutto sanzioni per le loro opinioni espresse sui social.
In verità, l’Ateneo di Tor Vergata, per cui lavoro dal 2008, non aveva minimamente accennato a sanzioni o reprimende, e anzi il Rettore si era premurato, doverosamente, di chiedermi formalmente informazioni proprio a seguito dell’interrogazione parlamentare di Renzi. Una volta chiarito l’oggetto della lettera («Atto di Sindacato ispettivo n. 4 – 05436 – Senato della Repubblica»), nella sua del 14 maggio il Rettore era stato esplicito: «Al fine di consentire al sottoscritto di adempiere all’obbligo di comunicazione al Ministro, La invito a fornire con urgenza un suo riscontro in merito».
A questa richiesta avevo risposto prontamente con una lettera dettagliata, cui il Rettore aveva replicato con una cordiale telefonata in cui la accettava come adeguata a chiudere la sua richiesta di riscontro. La mia lettera, datata 15 maggio, ripercorre le vicende qui ricostruite, e aggiunge una lettura «istituzionale» della vicenda che vale la pena di riportare in qualche passaggio:
Sul versante pubblico, abbiamo già accennato alla pronta reazione di sostegno di molti colleghi nei mie confronti ma, a quel punto, mi era sembrato appropriato assumere una posizione defilata, prima di tutto perché non era in atto o in programmazione alcuna reprimenda o sanzione da parte del mio Ateneo; secondariamente perché erano evidenti le ragioni contestuali (vale a dire pretestuose) che avevano prodotto tutta la situazione; e in terzo luogo anche per non cadere nella trappola mediatica esplicitamente ammessa con il «ti sfrutto» del messaggio privato di Facci, che aveva tentato in tutti i modi di accendere lo scandalo pur di attirare l’attenzione sulla notizia del professore potenziale assassino più che sulle condizioni della politica italiana negli anni novanta.
Dei molti dialoghi e commenti di quei giorni, riporto solo un breve spezzone di colloquio su Messenger con un collega che molto presto si era attivato per una petizione e che mi ha autorizzato a riportare qualche battuta in forma anonima:
In questo rapido scambio sono sintetizzate le due possibili letture degli eventi: Pietro S. insiste per una lettura «politica» che trascenda la questione personale, che cioè trasvaluti il contenuto locale e lo proietti sullo sfondo più ampio dell’attacco al pensiero critico da parte del potere costituito, mentre io specifico che il mio scopo è proprio quello di non venire «iconizzato», di non passare cioè attraverso il processo di focalizzazione e trasvalutazione (di riconfigurazione del significato in un contesto più ampio, assieme generale e generico, cfr. Tambiah 1996) che, invece, vedevo attuato sia nel 1993 da parte di chi aveva «trasvalutato» Craxi facendone il centro della corruzione nazionale sia nel 2003 da parte di chi stava «rivalutando» Craxi facendone un incompreso riformista; sia nel 2021 da parte di Facci, che stava provando a «trasvalutare» le monetine del Raphael leggendole come un tentativo (mancato) di uccidere un uomo e l’assassinio (riuscito) della politica italiana come l’avevamo conosciuta fino ad allora.
Questa necessità di sottrarre tutta la vicenda a un alone sempre più stringente di esemplarità è stata colta da altri. Federico Bonadonna, per esempio, smantella con facilità la retorica della violenza insita nel lancio delle monetine contrapponendo all’interpretazione offerta nell’interrogazione parlamentare («una delle scene più cruente della storia della Repubblica») una serie molto efficace di contro-trasvalutazioni, che riconducono l’episodio del Raphael a dimensioni assai più modeste:
Ma non tutti l’hanno pensata a questo modo, tra i miei colleghi. Nella seduta del Consiglio di Dipartimento tenutasi il 18 maggio 2021, vista la pubblicità degli eventi, mi sentii in dovere di chiarire di fronte al Consiglio la mia ricostruzione dei fatti, forse anche aspettandomi un segnale pubblico di solidarietà dopo i molti attestati privati già ricevuti da tanti colleghi, anche del mio Dipartimento. Il mio intervento (All. 2_1 al verbale 97 dell’11 maggio 2021) si concludeva con alcuni punti sintetici, di cui riporto i due conclusivi:
Ne ottenni, come unica dichiarazione di risposta in quel Consiglio, questo passaggio del Verbale 97:
Quindi, unico tra i colleghi a prendere la parola, un professore ordinario, che chiameremo Mario Rossi [12], conferma sostanzialmente il dubbio sollevato dalle interrogazioni parlamentari, in quanto «nulla rileva la distanza temporale» tra le mie parole del 2003, con il loro ricorso allo hate speech e il mio attuale tono «verbalmente intimidatorio», replicato, a dire di Mario Rossi, in almeno quattro contesti circoscritti: il mio blog; altre mie dichiarazioni al Consiglio di Dipartimento; comunicazioni esposte nella mia bacheca di docente e anche messaggi privati. In tutti questi casi, rileva Rossi, il mio stile comunicativo «non [è] in linea con la missione educativa e i valori di un’istituzione pubblica operante nell’alveo della Costituzione». Quanto a trasvalutazione questa dichiarazione non è seconda a nessuno, soprattutto se si comincia a ricostruire il contesto locale delle singole accuse avanzate.
Rapidamente, non ritengo affatto il mio blog un luogo di hate speech o di linguaggio violento, come del resto può constatare chiunque voglia visitarlo e leggere qualcuno dei post. Attivo dal 2006, il blog ha (avuto) la pretesa di essere uno spazio di analisi antropologica della quotidianità; analisi spesso frettolosa, anche polemica quando il caso. Il punto in questione è ovviamente un altro: a un professore universitario è consentito gestire uno spazio in cui può parlare pubblicamente ed esprimersi come libero cittadino (sbeffeggiando magari un politico della parte avversa alla sua o qualche editorialista di fama) oppure deve incarnare in ogni espressione pubblica la sua missione educativa? È un tema spinosissimo, completamente riaperto da quando la disponibilità della comunicazione elettronica ha fatto di ciascuno il potenziale editore di sé stesso. Non possiamo toccarlo in questa sede, però, visto che qui si parla del vuoto del potere e non certo di come la Pubblica Amministrazione pretenda di essere tale ogni volta che i suoi funzionari si muovono nella sfera pubblica anche solo per motivazioni private. Più pertinente, ai fini di questo testo, è invece il riferimento che il professor Rossi fa a precedenti mie esternazioni in Consiglio di Dipartimento.
Nella primavera del 2019 c’era stato un duro scontro in Dipartimento sull’assegnazione di alcuni posti di Ricercatore a Tempo Determinato di tipo B (RTDB), assegnazione che si era risolta, secondo il mio fragoroso parere, in modo iniquo. Unico incardinato nel settore M-DEA/01, mi trovavo con un carico didattico eccessivo, anche per via del fatto che da quell’anno Antropologia culturale era entrata nel gruppo ristretto degli insegnamenti del «Percorso Formativo 24 CFU», di fatto obbligatoria per chi volesse a qualunque titolo accedere alla qualifica di insegnante. Avevo inoltre da tempo uno spazio di ricerca molto amplio nel settore della marginalità (occupazioni a scopo abitativo, carcere, periferia urbana) cui da tre anni si aggiungeva l’impegno notevole nella terza missione di Ateneo (in quanto rappresentante di Tor Vergata per le attività sociali presso il Polo Ex Fienile).
Mario Bianchi, collega di Rossi nello stesso Corso di studi e ordinario di un altro settore, ampliamente coperto quanto a esigenze di didattica e ricerca, era riuscito comunque a vedersi assegnato un posto RTDB, accampando una serie di giustificazioni pretestuose che avevo duramente contestato nel corso di un Consiglio di Dipartimento memorabile, in cui, soprattutto, mi ero posto come il fedele paladino dei valori (morali ed economici) del Dipartimento, sbeffeggiando il collega Bianchi per aver chiesto l’RTDB con il pretesto di averne bisogno per fare didattica anche in un settore scientifico-disciplinare affine, verso cui in realtà lui non aveva alcun interesse. In effetti, un contratto di insegnamento per quel settore affine era stato cancellato proprio quell’anno, e il corso a contratto mutuato proprio dall’insegnamento di Bianchi, senza per altro neppure informare il contrattista, che aveva saputo della sparizione del suo corso solo quando si era presentato in Dipartimento per conoscere l’orario di lezione. Il mio tono canzonatorio era stato molto indisponente, ma mi sentivo legittimato ad assumerlo, trasvalutando la mia frustrazione di associato senza un «ordinario di riferimento» a perorare la causa del suo settore scientifico-disciplinare, in nome del disonore subito dal Dipartimento intero:
Questo, dunque, il mio intervento irriverente, che il professor Mario Rossi considera una prova che «nulla rileva la distanza temporale» con il mio linguaggio d’odio del 2003. Come spero sia evidente, non sto affatto cercando di giustificare il tono canzonatorio da me usato, né mi importa contestare una valutazione qualunque sulla legittimità della mia verve polemica, ma sono costretto a entrare nel dettaglio etnografico per quanto indicato più sopra, la necessità cioè di confermare una delle argomentazioni generali di queste pagine: che cioè per poter esercitare nella piena legittimità il suo ruolo di «detentore del potere», colui che ne riveste il ruolo (in questo caso, Mario Rossi) si sforza di dimostrare che il suo possesso è esercitato obtorto collo, e in nome di ben altri principi, come un fardello dell’uomo civilizzato costretto a contenere l’orda violenta della barbarie alle porte. Se non si potesse dimostrare che io sono un violento cronico, ininterrottamente («nulla rileva la distanza temporale…») dal 2003 ai giorni nostri, l’accusa di «non essere in linea con la missione educativa e i valori» dell’università si sarebbe ridotta a una baruffa di bottega, e avrebbe perso qualunque valore di esemplarità. Per questo Rossi – anche a costo di confondere completamente lo sberleffo con lo hate speech, vale a dire l’irrisione con la violenza – deve snocciolare la lista delle prove che, purtroppo per lui, sono solo la conferma della sua necessità di ricollocare la sua voce ex cathedra, dopo aver subito lo scossone di un giullare di corte. Quando infatti Rossi fa un vago riferimento a «messaggi privati», sta in realtà parlando di una lettera che avevo scritto al professor Bianchi dopo un paio di tentativi, andati a vuoto, di chiarirmi con lui a voce.
La lettera (cui Bianchi non ha mai risposto, ma che si è ben premurato di far circolare tra alcuni colleghi, selezionandone i brani evidentemente secondo lui più irriguardosi) diceva che io trovavo del tutto sconveniente che un posto da RTDB (vale a dire un futuro professore associato nel nostro Dipartimento) venisse assegnato millantando un’urgenza didattica inesistente e senza tener conto delle effettive esigenze (di didattica e di ricerca) del Dipartimento e dell’Ateneo. Inoltre, la mia lettera ribatteva a un commento a me rivolto, che Bianchi aveva fatto durante una cerimonia pubblica, di essermi “intromesso a casa di altri”: fin quando le risorse, come in quel caso, fossero del Dipartimento, la loro allocazione riguardava me come chiunque altro, e non poteva essere considerata una questione privata in gestione a una cerchia ristretta di ordinari.
Per concludere la ricostruzione di questa piccola farsa di periferia travestita da tragedia morale, diremo infine che l’accusa di Mario Rossi secondo cui avrei praticato la violenza verbale senza soluzione di continuità dal 2003 financo nelle «comunicazioni in bacheca» si riferisce all’esposizione di un famoso «meme» che avevo ricevuto da un mio laureando, molto divertito dal tono polemico con cui gli avevo raccontato per sommi capi la vicenda, e che non avevo resistito ad esporre dopo il silenzio in risposta alla mia mail e dopo un ulteriore tentativo fallito di parlare in privato con Mario Bianchi.
Omnia munda mundis
Lo scontro durissimo tra me e i due colleghi di Dipartimento non ha dunque alcuna base accademica o più ampliamente morale, e va ricondotto alle più mondane (e forse tradizionalmente antropologiche) considerazioni sull’onore (e sua compromissione pubblica nella vergogna), l’autorità (e sua effettiva capacità di esercitarsi nonostante l’ironia in cui è immersa) e la gerarchia (e il tono irriverente dell’insubordinazione votata allo sberleffo). Non che la cosa non possa avere conseguenze serie e pratiche. Come leggiamo nel verbale 96, il 13 aprile 2021 (prima dunque che scoppiasse lo scandalo Facci-Renzi e che quindi il mio tono irriverente nei confronti di Rossi e Bianchi potesse essere pubblicamente transvalutato come hate speech) il Consiglio di Dipartimento aveva messo ai voti una «Richiesta di procedura valutativa per 1 posto di professore ordinario ex art. 24 comma 6, settore concorsuale 11/A5, SSD M-DEA/01 Discipline demo-etnoantropologiche», richiesta che non era stata approvata a causa delle troppe assenze (10 votanti su 18 aventi diritto) e con i soli voti contrari dei professori Rossi e Bianchi. Dichiarando il suo voto contrario, Rossi chiedeva di verbalizzare, tra l’altro, che «Trattandosi di un art. 24, con un solo concorrente interno su M-DEA/01, il professor Rossi avanza ulteriori riserve riguardo al profilo del presumibile concorrente».
Non intendiamo, dunque, sostenere con queste pagine che il potere non abbia più il potere di essere sé stesso e che tutta la questione dell’autorità e dell’esercizio della gerarchia si risolva nelle beghe di piccole finalità strumentali e individuali. Ci rendiamo, anzi, perfettamente conto di come quelle strumentalità siano (e quasi debbano essere, nella strutturazione culturale della vita associata) traguardate su piani di senso sempre più ampli del ristretto contesto empirico del loro accadere. Vogliamo però insistere sul fatto che questi piani si co-costruiscono, e non sono uno il contesto esplicativo dell’altro, né tantomeno uno la causa efficiente dell’altro. La relazione esplicativa tra individualismo e olismo deve essere sempre ricondotta a questa circolarità costante e reciprocamente generativa tra intenzioni personali (livello individuale) e istituzioni collettive (livello olistico):
L’intento di queste pagine è dunque identico a quello di un articolo di Marshall Sahlins (2005, 5) cui abbiamo accennato fin dall’inizio di questo testo: «come piccole questioni vengono trasformate in Grandi Eventi o, con un gergo vagamente più tecnico, l’amplificazione simbolico-strutturale di differenze di poco conto», per cui è possibile identificare dei «commutatori strutturali» tra i diversi livelli dell’ordine socio-culturale. Opposizioni di livello superiore o più generale (come concezioni conflittuali dell’informazione: intesa come servizio pubblico o come esposizione del malvagio; della politica: intesa come capacità di controllare la violenza o invece come strumento di potenziale sovversione dello status quo; o dell’insegnamento: concepito come pedagogia del rispetto dell’autorità costituita o piuttosto come svelamento dei meccanismi di controllo del potere) vengono incastrate ermeneuticamente in conflitti di livello inferiore. Acquisiscono così senso generale e sentimento collettivo relazioni umane per sé minute: un giornalista a caccia della notizia e un intellettuale frustrato dal suo ruolo sociale marginale; un politico imprenditore di sé agli sgoccioli e di nuovo un piccolo intellettuale con velleità di visibilità pubblica; un paio di professori ordinari offesi dall’insubordinazione di un collega di rango inferiore, e un professore associato smanioso di fare carriera o almeno di ricevere più spazio per la sua disciplina.
Il commutatore strutturale tra livello locale e collettivo (Elaborazione dell’autore a partire da Sahlins [2005]. Disegno di Elisabetta Scavuzzo)
Come insiste Sahlins, questi commutatori strutturali lavorano in entrambe le direzioni, e sarebbe epistemologicamente scorretto assegnare a uno dei due un ruolo determinante in senso ontologico [15]. Così, la macro-storia del conflitto intellettuale e politico assume su di sé la carne delle facce e delle storie «reali», mentre le micro-storie dei conflitti interpersonali ricevono il loro «vero significato» dall’ombra diafana delle strutture formali che si proiettano su di loro.
Questo passaggio bidirezionale tra micro e macro avviene grazie a un commutatore collettivo/locale. Se la struttura, poniamo, della «buona informazione» illumina il conflitto locale e tutto privato tra me e Facci, di converso il sentimento di Facci si fa astratto e collettivo, non è più il piccino desiderio individuale di avere successo con l’ennesimo reportage giornalistico venduto in forma di libro, ma può pretendere di presentarsi come la doverosa ambizione civica dell’intera classe giornalistica di raccontare un momento drammatico nella storia repubblicana.
Parimenti, se la struttura del «bravo decisore politico» si proietta su un articolo di giornale in cui si parla di un professore che voleva uccidere Craxi, il sentimento di sano sdegno del politico nei pasticci diventa il sentimento della Politica tout court, con buona pace degli agenti segreti e degli sceicchi miliardari. E se un professore associato si permette di irridere un ordinario, è in nome dell’Accademia che il fremente sdegno si solleva e mette in dubbio la legittimazione di quell’associato a ricoprire il ruolo di insegnante, tirando in ballo a quel punto perfino la Costituzione.
Tutto questo, ovviamente, non è un tentativo di sminuire o pacificare i conflitti locali, ma piuttosto di ricondurli al loro duplice contesto di produzione e di occorrenza. La facile pulsione a una riduzione metonimica insita nel commutatore collettivo/locale non risolve certo il conflitto locale in una sublimazione eterea, ma piuttosto lo esaspera, lo inasprisce, lo spinge facilmente all’escalation e all’irrigidimento. Una volta illuminato dalla struttura formale della difesa della Repubblica, l’intellettuale – che quanto a giudizio sulla storia di Mani Pulite potrebbe avere molti punti di accordo con il giornalista – si trova ridotto nella postura del fanatico ideologico con le mani grondanti di sangue. Il conflitto davvero inesistente tra un politico in crisi e un auto-ascritto maître à penser di provincia si gonfia nella lotta insanabile tra il senso del dovere della pubblica amministrazione responsabile e il morboso piacere del cupio dissolvi intellettuale. Quando è proiettata sul piano dei Consigli di Dipartimento, delle note rettorali e del gergo legalista, la sventurata bega universitaria per un posto RTDB, invece di coagularsi in una critica condivisa alla vergognosa scarsità di risorse riservate all’Università pubblica, diventa il conflitto tra un’idea donchisciottesca dell’Accademia come spazio sovrano della libertà intellettuale e una concezione dell’autorità come pura soperchieria che non si abbassa neppure a interloquire con chi la contesta.
Per concludere, possiamo tornare all’ipotesi di ricerca che ha mosso queste pagine, che cioè il potere non solo si annidi dentro le piccole interazioni quotidiane, ma assuma lì dentro un più ampio quadro di senso, proiettando sulle strutture generali una sensazione di concretezza altrimenti irraggiungibile. Il potere, da questa prospettiva interpretativa, è la capacità di interconnettere persone e azioni su diversi piani di significazione, assai più che l’espressione di un sistema autonomo che si incarnerebbe nei corpi prendendone possesso. Quando si parla del potere, soprattutto nella sua dimensione gerarchica, e dei vari tipi di rapporto che con esso intrattengono gli umani, diventa quasi inevitabile attivare strategie di modellizzazione che, nella loro distanza dalla concretezza del reale, somigliano troppo ai dispositivi di difesa intrapsichica, piccoli (o grandi, ma l’antropologia tende da tempo alle taglie ridotte) meccanismi di resistenza alla dimensione ansiogena della complessità della vita:
Il pensiero magico e quello scientifico, ci ha insegnato Devereux, si accavallano allora nel tentativo di farci uscire dall’angoscia, e non è improbabile che, di fronte all’insensatezza della sorda materia, l’illusione di una risposta chiara si faccia strada nelle nostre spiegazioni. Nella famosa appendice al terzo capitolo di From Anxiety to Method, Devereux chiarisce questo punto (che è insieme metodologico ed epistemologico) con parole essenziali:
Tanto più quando trattiamo temi complessi, ansiogeni di per sé e facilmente reificabili come il potere e la gerarchia, il nostro lavoro dovrebbe consistere nel non cedere con facilità alle rapide lusinghe dell’autoconvincimento esplicativo. Non dovremmo dimenticare che quel che proponiamo sono tentativi di comprensione, più che comprensioni vere e definitive, e dovremmo insieme ammettere che è solo elaborando un’efficace riflessività delle effettive relazioni umane e del nostro ruolo nei rapporti interpersonali che possiamo uscirne, sperabilmente, con qualche forma di conoscenza scientifica su quel che facciamo quando viviamo.
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