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In memoria di Felice Pagano, ultimo violinista-cantore della tradizione messinese fra sacro e profano
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2023 @ 00:29 In Cultura,Società | No Comments
di Mario Sarica
«La memoria, il ricordo, è innanzitutto un ri-accordo che dalla dispersione genera unità, e nell’unità rintraccia quell’identità soggettiva e oggettiva che la ragione occidentale ha chiamato Io e Mondo». Riflessioni luminose, queste di Umberto Galimberti (Idee: il catalogo è questo, 2005), che mi hanno ispirato e accompagnato nello scrivere di Felice Pagano (1927-2023), fedele e generoso compagno di viaggio per oltre quarant’anni lungo i sentieri della ricerca etnomusicologica, perché lui è stato un esempio di vera e rara incarnazione di vita dei saperi musicali, sacri e profani, della tradizione messinese. Si è spento serenamente alla veneranda età di 96 anni, Felice, lo scorso 1 giugno.
Dal caro Felice, dalla carezza paterna che mi ha sempre donato, ho avuto il privilegio di imparare una lezione di vita e di umanità irripetibile e preziosa, oltre che raccogliere, trascrivere e registrare documenti musicali vocali-poetici e strumentali davvero unici, della dimenticata e ritrovata secolare pratica novenistica dei “nuviniddari” o “sunatori orbi”, presente nei secoli oltre che a Messina, significativamente anche in area palermitana.
Con lui, mutuando sempre il pensiero tagliente e profondo di Galimberti, ho sperimentato la relazione tra Io e il Mondo, scorgendo e definendo proprio attraverso la memoria di Felice Pagano, quella vitale «sfera di appartenenza per cui riconosco come ‘miei’ azioni, vissuti, pensieri e sentimenti, senza i quali non ci sarebbe Mondo». Un atto d’amore dunque a Felice Pagano, la cui parabola di vita, impone di fronte alla morte e all’implosione di ogni senso, la ricucitura della memoria e delle visioni, che sono l’apertura al senso necessario ad ogni uomo, che l’oblio e la dimenticanza tendono ad azzerare.
Il “Sacro” e il “Profano”, nell’accezione di forme verbali-poetiche musicali di tradizione orale messinese, alimentavano, lungo il ciclico fluire stagionale una “strategia protettiva” volta a rinforzare l’identità individuale e collettiva, contro il “rischio quotidiano” della precarietà e della “perdita del sé e dell’altro”, unendo in maniera rassicurante la terra al cielo.
Il sentimento di appartenenza ad una storia e destino comuni, condivisi da padre e figli, si rispecchiava così in una pluralità di codici linguistico-musicali, riconoscibili da tutti come segni identitari, portatori di valori fondanti, oscillanti fra i poli del sacro e del profano, solo apparentemente antagonisti fra di loro, piuttosto in complementare rapporto dialettico, alla ricerca di una stabilità di orizzonte esistenziale.
Funzionali ai diversi contesti cerimoniali, familiari e comunitari, variamente connotati sul piano performativo, i diversi titoli dell’ampio repertorio musicale di versi cantati e temi strumentali della tradizione attivavano, di volta in volta, esclusivi canali di comunicazione negli ambiti di culto e devozione di fede cristiana, rivolti a santi e madonne tutelari, sia in ambito domestico che comunitario dal carattere paraliturgico. E così le novene e le orazioni richieste per le ricorrenze festive stagionali, anche per grazia ricevuta, ai novenatori (“nuviniddari” o “sonaturi orbi”), riconosciuti dunque quali mediatori fra reale e soprannaturale, disvelavano i valori-guida riflessi dalle espressioni di religiosità popolare, alle quali ci si riconnetteva a tempo “debito”, per implorare protezione per sé e i propri cari, ammettendo così i limiti e le fragilità umane, rinnegati oggi dalla tracotanza e dalla delirante signoria assoluta dell’uomo sulla terra e il cielo, che, affidandosi alla “mirabolante” tecnica e intelligenza artificiale ha rinunciato al Garante Divino, immaginando una salvezza senza fede.
E così dalle amate e temute figure del sacro, si irradiavano prescrizioni comportamentali coerenti, secondo un’economia devozionale del “dare-avere”, necessaria ai bisogni esistenziali individuali e collettivi. Lo stesso slittamento dal reale all’immaginario-simbolico, anche se di segno diverso, veniva, poi, prodotto dall’ottava rima, dai ciuri di pipi, dagli stunnelli d’amore o di sdegno e dai ballabili. Le serenate alla donna amata, più segnatamente, affidavano al verso cantato, unito ai suoni strumentali della chitarra, del violino, del mandolino, ma anche a quelli della zampogna ‘a paro’ e dell’organetto diatonico, sentimenti d’amore o anche di disprezzo e sdegno, altrimenti inesprimibili, sublimate in figure poetiche, ora sognanti e seducenti ora impietosi e ricolmi di rancore. Una chiave d’accesso poetico-musicale, nel rispetto assoluto di regole metriche e di cornici melodiche, dunque, necessaria, per attivare un esclusivo canale di scambio interpersonale uomo-donna, entro stabili modelli familiari di riferimento.
I ballabili, invece, assumendo principalmente le sembianze musicali della triade del liscio, ovvero del valzer, della polka e della mazurca, cui si aggiungevano le più antiche contraddanze comandate, circoscrivevano gli spazi festivi, ricolmi di sana profanità e dalle forti valenze festive e socializzanti. Eseguiti solitamente dalle tipiche orchestrine formate da suonatori di violino, mandolino e chitarra, quasi sempre barbieri e artigiani in genere, i ballabili, ripresi anche dai dischi a 78 giri, mettevano in azione modalità di comunicazione non verbale. Il registro principale di espressione e comunicazione relazionale era, infatti, affidato alle figurazioni di danza, dunque al corpo, ai gesti, alla mimica, al contatto fisico tra uomo e donna. E per rappresentarsi sulla scena da protagonisti, uomini e donne, suonatori e cantori, coppie di danzatori, grandi e piccoli, aspettavano con trepidazione i matrimoni e le ricorrenze interfamiliari, ma soprattutto i giorni di carnevale, contrappuntati dai licenziosi ciuri di pipi, terzine estemporanee di satira e sberleffo, e da azioni mascherate trasgressive. E nella rifondazione utopica della società sollecitata dal Carnevale, festa profana assoluta per eccellenza, massimi erano i livelli performativi poetico-musicali e le opportunità di contatto anche fisico con l’altro sesso.
Vettori principali della trasmissione verbale e sonora, negli ambiti informali domestici e in quelli cerimoniali collettivi, nel duplice livello sacro e profano, erano, dunque, i suonatori e cantori di tradizione orale. Detentori di un sapere musicale antico e di una prassi vocale e strumentale, declinata ai diversi generi ed occasioni d’uso, i mastri du sonu, quelli che andavano a formare le orchestrine da ballo, e i nuviniddari, ovvero i novenatori, rispondevano alle “chiamate” di una vasta committenza, traendo così un utile economico. In particolare erano i mastri da nuvena ad orientare la loro vita in maniera esclusiva sulla conservazione e trasmissione delle espressioni verbali e musicali del sacro replicando, in coincidenza delle sante ricorrenze, a richiesta dei loro parrocchiani, le novene, fornendo così una prestazione di carattere devozionale a pagamento, che andava ad alimentare l’unica fonte di sostentamento per sé e le loro famiglie.
Mediatori, dunque, necessari fra la terra e il cielo, i nuvinnidari, accompagnati abitualmente da suonatori di violino e chitarra (un tempo anche dai colascioni, derivati dagli antichi liuti di origine orientale), lungo i quotidiani percorsi urbani di devozione andavano a trovare i loro parrocchiani. E con la replica, su committenza, delle novene dinnanzi all’edicole votive poste sui prospetti delle case o alle immagini sacre di culto domestico, essi scandivano i critici transiti stagionali, placavano le ansie e le patologie familiari, purificavano gli spazi del vissuto ricolmi di profanità, offrendo così ai devoti, soprattutto donne, l’opportunità di riaffermare ciclicamente un voto di fede, da estendere all’intera famiglia, recitando magari assieme preghiere per una grazia ricevuta, implorare un miracolo, o una soluzione ad un problema relazionale o di lavoro.
Un orizzonte di vita, quello messinese, dunque, animato nel tempo lungo della storia, da figure musicali indispensabili alle “produzioni di senso”, atte a rafforzare, dentro e fuori di sé, un’esclusiva visione del mondo, profondamente radicata alla cultura di tradizione “materiale e immateriale” del territorio. Un mondo che, a partire dal secondo dopoguerra del Novecento, è andato rovinosamente in frantumi, rinnegando troppo in fretta sé stesso, perché soggiogato dai falsi miti della modernità, fino all’omologante globalità, azzerando diversità e condannando all’oblio e alla dimenticanza tutto un codice di senso dell’abitare il mondo.
Una corsa sfrenata, dopo le distruzioni belliche, verso un illusorio paradiso di benessere, oggi in cenere. E la millenaria e nobile cultura contadina e pastorale, così intimamente legata a quella urbana in area messinese, fatta di materia invisibile come i sogni, ma forte ed incisiva fino a scolpire caratteri antropologici indelebili di ogni comunità, è stata brutalmente spinta ai margini, scivolando nella dimenticanza collettiva. I suoni e le voci della tradizione orale si sono così fatalmente affievoliti fino all’afasia, facendo svaporare lo spirito vitale che insufflava sentimenti sacri e profani individuali e collettivi.
A fare da argine a questa repentina e grave perdita di memoria, per niente risarcita dai travestimenti parafolkloristici e dalle periodiche campagne discografiche di discutibile reinvenzione o ibridazione di linguaggi musicali fra Oriente e Occidente, nord e sud del mondo, la tenace e meritoria ricerca etnomusicologica italiana, di marca non solo istituzionale, che, fin dal 1948 in Sicilia e non solo, ha salvato dall’estinzione vaste porzioni musicali di tradizione orale dal valore inestimabile, espressioni culturali intangibili delle mille culture regionali italiane. E tra i contributi dati a questo cospicuo e fondamentale catalogo di saperi e conoscenze di espressioni vocali e strumentali musicali di tradizione siciliana, dovuto alla rigorosa e tenace ricerca sul campo di pochi ma qualificati studiosi, andato stratificandosi fino ai nostri giorni, di rilevante interesse etnomusicologico si configura il “Sacro e il Profano”, un’antologia sonora dedicata appunto a Felice Pagano, violinista-cantore messinese, pubblicato nel 2011 per i titoli della collana Phoné.
Un vero e proprio lascito di particolare interesse etnomusicologico, quello che ci ha regalato con la consueta signorilità e generosità d’animo – tratti caratteriali innati – Felice Pagano, scomparso a 96 anni il 1 giugno scorso, circondato dall’affetto dei figli e dei tanti nipoti e pronipoti, lucidissimo e fiero di sé e della sua storia familiare fino all’ultimo respiro.
Il CD ci consegna dunque un repertorio di forme musicali vocali e strumentali della tradizione messinese fra sacro e profano davvero prezioso, che prende forma in una performance esemplare, nella piena maturità e vitalità di sentimenti d’amore e di vita e di autentica devozione di fede di Felice Pagano. L’ultima, dunque, e la più completa prova performativa interpretativa del violinista-cantore Felice Pagano, al canto e al violino, che ha voluto al suo fianco alla chitarra, dopo la scomparsa del suo chitarrista di sempre, il grande Domenico Santapaola, un talentuoso chitarrista della nuova generazione, cresciuto apprendendo in profondità la lezione strumentale della tradizione, imparata da suo padre barbiere-suonatore, ovvero Marcello Cacciola, di Nizza di Sicilia, centro versante jonico del territorio messinese.
Un’incisione discografica, dunque, condivisa e vissuta in studio da registrazione da Felice Pagano con grande entusiasmo e motivazione, con una scelta meditata di titoli anche unici, mai eseguiti prima, soprattutto in riferimento alle novene. Un’esperienza, vi confesso, fra le più intense e belle che ho vissuto, grazie alla straordinaria carica di energia umana vera e vitale, oltre che musicale ed esecutiva, prorompente e contagiosa che accompagnava ogni gesto strumentale e i versi cantati di Felice Pagano.
Tra i tanti tratti della personalità di Felice Pagano, che ora riaffiorano, ricordo con nostalgia, la piena consapevolezza unitamente all’orgoglio di essere l’ultimo erede di una pratica strumentale e di canto di devozione e di festa plurisecolare, oltre che detentore unico di un patrimonio di testi poetici sacri e profani, altrimenti dispersi, riportati nel booklet del CD “Sacro e Profano:
novene, orazioni, canzoncine, e ancora, ballabili, ottava rima, ciuri di pipi, stornelli della tradizione messinese, Felice Pagano, violino e voce, Marcello Cacciola, chitarra. Così recita il titolo della copertina del CD, pubblicato per la collana discografica Phoné del Museo Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina.
Un patrimonio di musica di tradizione orale messinese unico e di assoluto interesse, quello offerto esemplarmente da Pagano, nel ruolo di “nuviniddaru”, violinista e cantore di tradizione, in questa antologia sonora, perché riverbera un vissuto musicale autentico, di lungo periodo storico giunto fino a noi miracolosamente integro, singolarmente in equilibro fra i poli del sacro e del profano, nel rigoroso rispetto dei diversi canonici generi poetico-musicali di più antica memoria.
Figlio di mastru Vitu Pagano, ultimo dei novenatori messinesi, il più rappresentativo ed autorevole, scomparso nel 1956, ad 82 anni, Felice, nato nel 1927, si nutre fin da piccolo di nuveni e suoni della tradizione – anche il nonno materno Santo Liotta era un novenatore –, mostrando, peraltro, precocemente spiccate attitudini musicali. E così a circa otto anni si ritrova fra le mani un violino, imparando dallo zio paterno Francesco i primi rudimenti di tecnica strumentale. Un apprendimento musicale essenziale che, mescolando colto e popolare, scrittura ed oralità, consentirà presto a Felice di accompagnare al violino le novene intonate di casa in casa dal padre, il quale di lì a poco, a causa di un traumatico incidente agli occhi, perderà completamente la vista. La vita di Felice si plasma, dunque, sui sentimenti di religiosità popolare, di cui suo padre era interprete esemplare, senza tuttavia mai rinunciare alle occasioni musicali profane, ovvero al repertorio di ballabili, oltre che ai canti della tradizione.
Svanite con la morte del padre mastru Vitu dal suo orizzonte di vita le novene, e assieme ad esse i devoti, convertiti, in quei tumultuosi anni Cinquanta, a nuovi credi, Felice alimenta i suoi sentimenti musicali solo sul registro dei ballabili, di standard classici e sui titoli discografici di successo degli anni cinquanta, sessanta e settanta. Si ritroverà così a vivere da solista l’esperienza dell’orchestrine da ballo, ma non solo, con altri virtuosi suonatori messinesi, replicando l’antica tradizione musicale dei barbieri.
A metà degli anni Ottanta, in piena stagione di ricerca etnomusicologica messinese, risale il mio primo inaspettato e sorprendente incontro con Felice Pagano, propiziato da Nino La Camera, il primo a scrivere di novenatori a Messina nel 1960. Riemergono così da un passato che sembrava perduto per sempre le novene del padre mastru Vitu Pagano. Felice riannoda con la sua voce e il suo violino, impastati di passione e sentimenti di vita autentici, i fili, mai recisi, con la sua storia familiare, perfettamente coincidente con la cultura musicale di tradizione orale urbana, ormai estranea e lontana dal nostro presente, ma densa di memoria e di verità di vita. Una cifra stilistica ed interpretativa, quella di Felice, esemplare e amorevolmente protetta, preservata dalla corruzione del tempo, quasi cristallizzata e soprattutto ricolma di spirito popolare autentico.
Una prova di resistenza memorabile la sua vita, coniugata sempre alla musica. Felice così si è sempre opposto all’inesorabile scorrere degli anni e dei radicali mutamenti dei contesti di vita, dai quali si era nutrito, illuminando l’opacità dell’inevitabile tempo che consuma e cambia rapidamente le prospettive esistenziali. Inconfondibile, poi nelle performance musicali, il suo “accentivo”, la sua “cadenza” e la sua “comica”, ovvero i caratteri interpretativo-musicali, anche di gestualità e di mimica espressiva, insomma di linguaggio anche non verbale, che, come diceva con piena convinzione e profonda esperienza la “bonanima” del carrettiere-cantore Turiddu Currao, di Salice, anche lui più volte a fianco di Felice, differenziavano e determinano la migliore prova interpretativa musicale, vocale e strumentale, a contatto con le diverse forme di canto della tradizione, estendibili nella circostanza oltre che alla voce di Felice, al suo virtuoso e cangiante violino, dai diversi stati d’animo.
Sulla prassi strumentale adottata da Felice Pagano, vale a dire sui caratteri distintivi di tecnica strumentale, c’è preliminarmente da annotare che la “postura” complessiva del violino rientra a pieno titolo tra quelle definite genericamente di stile popolare, in grado cioè di favorire l’esecuzione contestuale della parte strumentale unitamente a quella del canto. Il violino infatti invece di essere posizionato “accademicamente” fra spalla e mento (con “spalliera” e “mentoniera”) è sostenuto sul manico dal palmo della mano sinistra, le cui dita sono impegnate a diteggiare sulla tastiera, facendo così “scivolare” lo strumento leggermente in avanti, rispetto alla canonica posizione del violino. Circa poi l’uso dell’arco, tenuto dalla mano destra “a cucchiaio”, c’è da osservare che è limitato alla sezione superiore dello stesso, impegnando nell’escursione dell’archetto solo l’avambraccio.
Ancora sul versante performativo-esecutivo, da evidenziare che Felice Pagano – il quale ci teneva sempre a precisare di essere solo un violinista di tradizione, e non certo un cantore se non per “necessità” e rispetto filiale per il padre Vito, mastru di nuveni – si concedeva sul versante della prassi strumentale violinistica, in virtù delle sue non comuni qualità virtuosistiche e di dominio assoluto dello strumento, replicando gli insegnamenti della tradizione musicale, molte licenze all’improvvisazione e alle varianti interpretative. Tra i caratteri distintivi delle sue performance, nel caso di ricorso al canto, la tipica vocalità di testa, sforzata, dal timbro aspro, quasi da bluesman, le oscillazioni tonali, le fluttuazioni dinamiche, le ornamentazioni vocali, unite paritariamente a tutti gli espedienti strumentali, di supporto armonico e ripresa del canto, con tutte le licenze del caso.
Il suo innato talento musicale strumentale, che noi crediamo costituisca un caso davvero singolare, per la classe superiore che esprimeva, se adeguatamente cresciuto e maturato in ambito accademico, avrebbe certamente consegnato a noi un eccellente violinista classico, ma avremmo perduto un violinista di tradizione unica e irripetibile, anche per la sua attitudine a musicista s tutto tondo con invenzioni e scritture di temi musicali originali come il suo valzer Felicioto!.
Formidabile poi le sue esecuzioni nel repertorio di ballabili, di parafrasi di canzoni popolari, di classici titoli napoletani e non solo, il suo insomma era un repertorio davvero ricchissimo fra colto e popolare, rivissuto con un gusto musicale personalissimo di reinvenzione ricreativa, pervaso da un’energia musicale prorompente, sopra le righe. Suo fedele compagno di viaggio musicale, puntuale e rigoroso, nel rispetto delle regole della prassi chitarristica della tradizione, nel CD è Marcello Cacciola alla chitarra, certamente più giovane anagraficamente (1961), ma da sempre in perfetta consonanza musicale, e direi affinità sentimentale, con l’indimenticabile Felice, sempre pronto a scegliere gli accenti armonici e di accompagnamento chitarristico più felice, è il caso di dire.
E allora, grazie di cuore a Felice Pagano, innanzitutto per la generosa amicizia personale che mi ha riservato, in oltre quarant’anni di incontri ed esperienze musicali che ho avuto la fortuna e il privilegio di vivere, grazie anche all’affetto, all’ospitalità e alla partecipazione della sua famiglia, che ringrazio. Un album discografico che assume, ora che Felice ci ha lasciati un valore di grande rilievo, perché costituisce la summa della sua lunga vita musicale sempre fedele alla tradizione.
E a chiusura lascio la parola alla collega Giuliana Fugazzotto, collega inimitabile di tante avventure e di ricerca etnomusicologica, quando scrive nel suo testo dedicato a Felice Pagano, parte integrante del booklet dell’antologia sonora, che «Nella musica di tradizione orale a volte capita di imbattersi in personalità multiformi, in musicisti che costituiscono anelli di congiunzione fra memorie, ricostruzioni teoriche e realtà della tradizione. (…) In questo panorama, ritrovare i suoni e le voci di musicisti che hanno appreso “per contatto” la cultura dei loro padri non è facile e lo studioso sempre più spesso si ritrova a costruire i superstiti documenti mutili che ha avuto la fortuna di trovare e che è riuscito a salvare dall’oblio. Per questo motivo ascoltare Felice Pagano grazie a questo CD è come osservare un monumento musicale felicemente integro, un capolavoro dell’arte musicale popolare che si è mantenuto vivo e vitale lungo il percorso di almeno gli ultimi due secoli della nostra storia».
Nuvena di morti – novena dei Morti
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