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Militanza suffragista, protesta, uguaglianza e differenza: per il diritto al voto
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2021 @ 01:21 In Politica,Società | No Comments
La questione della libertà femminile si snoda attorno al dibattito femminista sulla disuguaglianza dei generi e sul diritto all’autodeterminazione del corpo, nel momento stesso, in cui tale principio viene ridimensionato, in funzione di interessi economici tendenti a sovrapporsi sulla libera scelta delle donne in merito a procreazione e maternità.
Laddove le primigenie rivendicazioni femministe si sono configurate come una critica alle tradizionali dicotomie culturali e di genere, tali rivendicazioni hanno condotto all’affermazione di una parità giuridica tra uomini e donne, nel tentativo di ottenere una concreta trasformazione sociale a vantaggio delle donne, trasformazione che, come sottolineava Mary Wollstonecraft (Wollstonecraft 1792), doveva necessariamente iniziare da un cambiamento dello stile educativo a cui le bambine erano sottoposte, educazione sostanzialmente incentrata sul sentimentalismo, sul servilismo e sull’accudimento della prole; in tali termini, la causa principale dell’incapacità delle donne di fruire liberamente dei diritti civili era quindi il sistema educativo, colpevole di manipolare il concetto stesso di “femminilità”, interpretato erroneamente come polarità estrema alla parte maschile, questa invece, considerata unica detentrice di diritti e della possibilità di espressione sul piano pubblico.
Tali istanze – precedentemente sostenute da Olympe De Gouges nella Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne del 1791 – hanno condotto allo sviluppo di posizioni a favore dell’estensione del voto per le donne, le cui pretese rispondevano alla necessità di avere risposte più adeguate agli interessi femminili per i diritti di suffragio elettorale, richieste che, tuttavia, non ottennero sostegno da parte della politica. In un’epoca in cui soltanto agli uomini era garantita la possibilità di accedere alla sfera pubblica e politica, la prima “ondata” del femminismo [1], contraddistinta dall’enfasi posta sull’emancipazione delle donne si è incentrata sulla lotta e la militanza, in favore dell’estensione del voto. La questione della parità, dunque, si costituì allo stato nascente quale valido supporto alle rivendicazioni politiche, economiche e giuridiche.
Le varie forme di rivendicazione e mobilitazione iniziarono a svilupparsi, soprattutto, grazie al prezioso contributo che le donne diedero durante il primo conflitto mondiale alla produzione economica. Una maggiore presenza femminile nel settore della produzione industriale, agevolato dall’assenza degli uomini, all’epoca impegnati sul fronte di guerra, condusse ad una visibilità pubblica delle donne, data la loro rilevanza sociale ed economica nel miglioramento delle condizioni di lavoro ed altresì sul piano del rafforzamento dei diritti politici. All’epoca del conflitto, tale situazione determinò in tutta Europa, con gli uomini impegnati in guerra e l’esigenza di mantenere invariato il livello di produzione economica ed alimentare, la necessità di adoperare la forza-lavoro femminile, aspetto che, con il ritorno degli uomini in famiglia e con la fine del conflitto, porterà al timore di questi ultimi di essere sostituiti nel lavoro. Come sottolinea Franca Alacevich:
L’emancipazione delle donne attraverso la loro ammissione al voto si è determinata come un percorso lungo, difficile e complesso, ma caratterizzato da una lotta durissima per la rivalsa giuridica, connotata da proteste, comizi e persino dall’alimentazione forzata, a cui le suffragette potevano essere sottoposte, nel caso in cui fossero state arrestate. Da Millicent Fawcett, fondatrice della National Union of Women’s Suffrage Societies (NUWSS) a Emmeline Pankhrust, leader della Women’s Social and Political Union (WSPU), gli interventi femminili nell’ambito del riconoscimento del diritto di voto sono emersi nella loro rilevanza, a partire già dalla National American Woman Suffrage Association (NAWSA), istituita nel 1869 ad opera di Susan B. Anthony e Elizabeth Cady Stanton (Persano 2016: 49).
Dal 1848, data che ha segnato l’inizio del femminismo con la convenzione di Seneca Falls a New York, le azioni femministe si sono incentrate sul miglioramento della condizione sociale, economica e professionale delle donne e in particolare, nell’incrocio con le idee marxiste, hanno iniziato a focalizzarsi sulla questione del lavoro e dei diritti delle operaie e degli operai come soggetti oppressi da interessi economici di produzione capitalista. In tal senso, il percorso femminista della rivendicazione, propriamente, si connette sia al femminismo borghese che alle linee teoriche del marxismo e del socialismo, nel riferimento alle rivendicazioni per il salario e per il diritto alla maternità.
Secondo Teresa Labriola (Labriola 1992), l’esperienza emancipazionista si è esplicata dunque, nella richiesta di nuovi diritti, muovendosi nel tratto di una coscienza femminile, per la quale è necessario dare una impronta rivendicazionista, soprattutto per le generazioni future; peraltro, per il femminismo suffragista, lo sviluppo della personalità e della dignità femminile costituiscono gli obiettivi principali da realizzare (Labriola 1992: 22). L’aspetto sul quale è necessario focalizzarsi allora, è quello volto all’estensione del suffragio, esigenza, che nelle intenzioni delle militanti femministe, inevitabilmente, si contrappone alle teorie giusfilosofiche di matrice patriarcale, oltre che alle dicotomie di genere sedimentate nel tessuto culturale dell’epoca. In questo orizzonte complessivo, la campagna per il voto venne osteggiata per il timore di vedere alterato lo status politico consolidato nella configurazione gerarchica dominazione-oppressione, giacché la preoccupazione di perdere lo status quo condusse a demonizzare il potenziale ingresso delle donne nella vita politica attiva, categorizzando la loro posizione, unicamente, nello spazio della “domesticità”.
Dal 1909, tale ghettizzazione venne in un certo qual modo capovolta, grazie ad un’azione energica e propulsiva che ha condotto alla realizzazione di alcune tappe significative del femminismo suffragista, come il Midsummer’s Day, importante manifestazione di massa e la Women’s Freedom League (WFL) con base nel Regno Unito, dando così slancio alla battaglia per il suffragio e per l’uguaglianza sessuale.
In particolare, gli obiettivi delle suffragette appartenenti alla Women’s Freedom League, fondata nel 1907, in precedenza membri della Women’s Social and Political Union (WSPU), come Alice Schofield, Charlotte Despard e Margaret Nevinson, era quello di riformare il governo e modificare la situazione di sudditanza femminile, adoperando una forma pacifica di protesta.
All’interno di questo contesto, si snoda l’azione di ben due organizzazioni suffragiste: la Conservative and Unionist Women’s Franchise Association, formata da donne che provenivano dall’area politica conservatrice; l’altra, la Women’s Liberal Federation, la quale aveva uno stretto riferimento con il partito liberale britannico. Su questo piano, le azioni suffragiste si muovevano nella linea di una contrapposizione nei confronti di quelle categorie storiche e sessuali radicate culturalmente, in un’epoca, quella tra Ottocento e Novecento, nella quale l’idea di una emancipazione femminile non solo non venne accettata con favore ma diede luogo a reazioni misogine.
Proprio, in relazione agli effetti sociali prodotti dalla militanza suffragista, in particolare quella britannica, June Purvis – studiosa di Storia delle donne – osserva che la campagna per il suffragio femminile è stata caratterizzata da una sottile critica agli approcci “maschili” della politica, adoperando il dibattito e la discussione quali possibili criteri per una costruttiva trasformazione di idee e prospettive (Purvis 2013: 576-590). L’impegno femminile per la rivendicazione sociale e giuridica si pone in stretta connessione con la rivendicazione dell’identità politica, nel momento in cui il processo dell’emancipazione ha la necessità di concretizzarsi, in primo luogo, mediante il corpo. In quest’ottica, il corpo emerge come dimensione “processuale” dell’azione di protesta, attraverso cui determinare, in senso performativo, un cambiamento sostanziale degli eventi.
Ed è la filosofa Judith Butler che evidenzia la connotazione propriamente politica insita nell’espressione “corpi che contano” (Butler 1996: 13), allorché il corpo rispetto ad una sua omologazione alle norme regolative imposte socialmente, può assumere invece una decisiva importanza quando, attraverso di esso, si può ri-delineare la propria soggettività e, quindi, affermarsi come “differenza” identitaria e sessuata, all’interno di un sistema che pretende di adattare qualsiasi ruolo ad un canone normativo prestabilito. In tal modo, la prassi politica definita attraverso il corpo, ha caratterizzato la critica suffragista alle istanze patriarcali, per la quale il corpo ha acquisito il valore profondo della performance “oppositiva”, ovvero, in relazione ad una ri-appropriazione pubblica del ruolo sociale delle donne, giacché, per la causa suffragista, mettere in discussione la presunta legittimità del potere maschile, necessariamente doveva passare attraverso il corpo, come espressione di una contestazione pubblica e radicale. Pertanto, la mobilitazione suffragista, chiaramente convergeva con la pubblicizzazione delle attività di assistenza e solidarietà, ragion per cui, l’azione e l’esperienza corporea definita specificatamente nella protesta, per impattare nelle coscienze aveva la necessità di essere pubblicizzata e politicizzata (Green 1997: 6).
La carica simbolica della protesta femminile per il suffragio è indiscutibile; del resto, l’estensione del diritto di voto femminile nella storia, gradualmente, ha condotto oltre che all’introduzione di nuove leggi, anche ad un effettivo miglioramento della vita delle donne, le quali, grazie alla possibilità di votare, hanno potuto “travalicare” tutti quei settori tradizionalmente orientati ‘al maschile’. In tal modo, l’attivismo suffragista connotato da azioni concrete come proteste, comizi e anche dall’associazionismo femminile [2], aveva il fine di riappropriarsi dello spazio politico (Rossi Doria 2007: 66; Stanley Holton 1986: 3).
Il contributo femminista al suffragio ha condotto alla ridefinizione della dicotomia “spazio pubblico-spazio privato”, in funzione di una nuova rappresentazione del femminile, così articolata nell’ambito di una contrapposizione che prevedeva di revisionare l’erronea raffigurazione della donna come soggetto deviato, isterico, degenerato e de-femminilizzato (Arcara 2018: 47). In questa prospettiva, la battaglia per il voto assunse un significato ampio e non rivolto esclusivamente all’emancipazione (ivi: 48). Infatti, il diritto di voto per le militanti suffragette era qualcosa di molto più grande: il voto costituiva il simbolo della stessa azione militante, azione rivolta alla modifica sostanziale dello status subalterno delle donne nella sua interezza (ibidem). Per questo obiettivo, le azioni femministe dovevano necessariamente essere eclatanti, laddove le proteste pubbliche e pubblicizzate, si definivano come un attacco al potere maschile.
L’opposizione alla polarizzazione della sfera politica collocava la militanza suffragista in uno spazio di riconquista sociale, che aveva la propria espressione nella stampa, nella letteratura, nell’associazionismo e, in generale, nelle riunioni femminili dei clubs, già presenti in epoca vittoriana. Peraltro, il movimento del club femminista, nei suoi esordi, ha trovato ambiente fertile negli Stati Uniti, dove questa tipologia di associazione vedeva il coinvolgimento dapprima di donne bianche e borghesi, in seguito delle donne afro-americane, sino a diventare una vera e propria organizzazione progressista, fondamentale per la discussione sulle riforme legislative, sui problemi sociali e razziali. Proprio l’impegno femminista in attività assistenziali e filantropiche ha avuto lo scopo prioritario di destare le donne dal loro torpore “domestico”, facendo comprendere come il ruolo femminile nella società fosse invece, essenziale sul piano organizzativo e gestionale.
In Gran Bretagna, per esempio, si svilupparono molteplici associazioni incentrate sull’assistenza a ragazze e donne in condizioni di povertà o di prostituzione. Tra il 1901 e il 1902, le azioni del Council of Jewish Women con sede negli Stati Uniti e della Union of Jewish Women in Gran Bretagna, si sono rivelate determinanti per le loro attività contro la tratta, lo sfruttamento sessuale e la prostituzione.
Dalla spettacolarizzazione delle azioni di protesta, la militanza suffragista inizia a muoversi su due traiettorie: da una parte, quella della rivendicazione politica che ha il suo apogeo nel diritto di voto, dall’altra, quella del diritto all’autodeterminazione sessuale, laddove l’intimità e la libera scelta delle donne su procreazione e maternità diventano fattori esplicativi della protesta femminista, in quanto convergenti con il progetto di emancipazione mediante il voto. Per le militanti, accedere liberamente al voto aveva il significato della lotta comune contro l’assoggettamento maschile.
Da sottolineare, che le donne che si sono unite alla battaglia suffragista, non provenivano soltanto da ambienti sociali medi e bassi, ma soprattutto dalla classe borghese; le donne, in questo modo, avevano la possibilità di impegnarsi concretamente in attività politiche e di associazione, riappropriandosi così dello spazio politico.
Come, più avanti, osserverà Carla Lonzi, scrittrice, femminista e promotrice del gruppo Rivolta Femminile, da lei istituito nel 1970, il lungo percorso della emancipazione è sempre stato connesso alla pratica politica femminile del «percepirsi soggettività autonoma» e questa esigenza viene a convergere, con quella che Lonzi definisce come “autocoscienza”, ossia scoperta, ricerca e riconoscimento per la donna della propria identità sessuata. In questi termini, la pratica dell’autocoscienza – all’interno della dicotomia soggettività-potere – è da intendere come una pratica trasformativa, in cui la sessualità viene elaborata e ripensata nel modo di una ri-appropriazione delle donne sul proprio corpo. «La donna non va definita in rapporto all’uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà» (Lonzi 1974: 11).
Va detto che all’interno degli avvenimenti della prima “ondata” del femminismo, le donne, anche se appartenenti a diverse aree politiche, si dimostrarono grandi sostenitrici della causa suffragista e dell’emancipazione, causa che è riuscita ad inglobare nei suoi principi di libertà, coscienza e autodeterminazione, sia donne dell’alta borghesia che donne della classe operaia, nel momento in cui la battaglia per il diritto di voto ha iniziato ad allinearsi con quella contro la proprietà e i privilegi economici di cui gli uomini erano gli unici detentori (Dubois 1991: 31). Tant’è che per le donne di area socialista, la questione dell’estensione del voto si collegava all’oppressione economica derivante dal sistema di produzione capitalista, e si riteneva propedeutico al cambiamento sociale, professionale e di status, al possibile affrancamento della situazione economica e lavorativa delle donne, in particolare per quelle operaie, stigmatizzata all’interno di un sistema salariale, sostanzialmente sessista e oppressivo (ivi: 32).
Inoltre, nella linea comune alla lotta femminista per il voto e l’uguaglianza, il legame tra militanza britannica e statunitense era molto stretto, in particolare sul piano della concordanza storica e della comunicazione. Infatti, mentre nel 1918 il Parlamento inglese approvava la proposta di estensione del voto alle donne, con più di 30 anni e sposate[3], negli Stati Uniti, il percorso per l’approvazione e per l’estensione di voto alle donne, invece, era connotato da una lotta durissima contro l’inerzia politica e l’indifferenza della maggioranza maschile dell’opinione pubblica.
In questo caso, la militanza di alcune femministe, le cui idee si sono richiamate al movimento delle suffragette inglese, di fatto, ha contribuito a cambiare la situazione di subalternità sociale e politica delle donne. In tal senso, vale la pena ricordare Alice Paul, femminista e suffragista americana, le cui idee egualitarie provenivano dal quaccherismo, la quale, in gioventù, venne stimolata dalla madre Tacie nello studio e alla partecipazione alle riunioni del movimento suffragista. Dopo un periodo trascorso nelle università di Birmingham e Londra, Paul riuscì ad entrare in contatto proprio con Christabel Pankhurst, figlia della famosa Emmeline e quindi, al suo ritorno negli Stati Uniti, concentrò tutte le sue forze in favore dell’approvazione di un emendamento federale sul suffragio.
Nel 1912, Alice Paul divenne presidente della National American Woman Suffrage Association, per poi allontanarsene e fondare nel 1913, grazie al sostegno di altre femministe (tra cui Lucy Burns e Inez Milholland), la Congressional Union for Woman Suffrage, organizzazione che nel 1917 venne unita al Woman’s Party, dando così forma al National Woman’s Party [4]. Eletta nel 1942 come presidente del National Woman’s Party, la militanza di Alice Paul non si limitò alla causa suffragista, ma si estese alla battaglia per i diritti delle donne e all’uguaglianza di genere, temi presenti nel Preambolo della Carta delle Nazioni Unite e nel Civil Rights Act del 1964, legge federale nella quale le disparità razziali e di genere nelle elezioni, nelle scuole, nel lavoro e nel settore pubblico furono dichiarate illegali.
Anche le azioni giudiziarie intraprese contro le suffragette ebbero un ruolo decisivo nel successo della lotta e, in generale, le mobilitazioni che queste donne coraggiose attuavano presso i giudici federali, a causa delle numerose risposte negative alla loro richiesta di potersi iscrivere liberamente nelle liste elettorali, cominciarono ad avere un riscontro positivo sul piano pubblico. Gradualmente, la battaglia per il voto, grazie alla popolarità delle suffragette è quindi riuscita ad ottenere un certo successo, se pur non immediato, arrivando in California e, mediante referendum, alla conquista del diritto di voto nel 1911, vittoria proseguita l’anno successivo in Oregon, Kansas e Arizona, successivamente sancita il 10 gennaio 1918, con un emendamento costituzionale votato prima alla Camera dei Rappresentanti, poi nel Senato e infine, con l’approvazione al Congresso il 18 agosto 1920.
In tale quadro, il tema di una militanza attiva, che aveva l’intento di impattare sulle coscienze attraverso la protesta, la rivendicazione femminista dell’emancipazione e l’uguaglianza giuridica, si posero come elemento in radicale contrapposizione rispetto ad una forma “convenzionale” di femminilità, giacché il comportamento delle suffragette si definiva in una posizione assolutamente non corrispondente a quella accettata socialmente, esprimendo con forza una condotta trasgressiva deliberatamente esibita nelle strade, nelle piazze come nelle carceri. La suffragetta britannica Emmeline Pankhrust, leader della Women’s Social and Political Union (WSPU), per esempio, durante uno dei comizi a cui stava presenziando, decise di circondarsi di una trentina di donne allenate nelle arti marziali (Vicinus 1985: 279), questo perché, secondo Emmeline, le donne “nuove” per accedere al voto dovevano dimostrarsi sicure nel carattere, senza, tuttavia, presentarsi in modo mascolino; pertanto, per le suffragette era necessario vestirsi con abiti raffinati ed eleganti.
Come viene evidenziato in Sex, Suffrage and the Stage di Leslie Hills (Hills 2018), le suffragette, con il loro comportamento e l’esibizione del corpo “attivo” e “militante”, al dì fuori degli schemi sociali e di genere precostituiti, senza dubbio hanno fornito uno stimolo “performativo” alla comunicazione, se non addirittura artistico, laddove alcune militanti come Ruza Wenclawska, Cicely Hamilton e Fania Mindell erano state attrici, scrittrici, poetesse e artiste, prima di essere impegnate e coinvolte nella causa suffragista.
Da questo punto di vista, la rivendicazione femminista doveva avvenire tramite il corpo e l’azione militante, congiuntamente; in tal senso la performance si richiamava al valore squisitamente politico del corpo come “luogo” di contrapposizione e di resistenza, contro le rappresentazioni stigmatizzanti della femminilità. Come viene sottolineato in Prisons and Prisoners, autobiografia della suffragetta e scrittrice Constance Lytton (Lytton 1914), sul piano della performance corporea, anche l’esperienza della prigionia concorreva a formare un senso intimo di comunità tra le donne recluse, esprimendo in una chiave performativa e comunicazionale la forza e il coraggio di cui le suffragette sono state capaci per la grande resistenza, l’ardimento e l’eroismo da esse dimostrato costantemente nella causa a favore del suffragio elettorale femminile.
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