di Francesca Riggi
“No more wall” è un reportage fotografico sui migranti realizzato nel 2015 per seguirne il flusso a Lampedusa, Calais e Palermo. Centoquaranta scatti per raccontare una grande storia umana, fatta di uomini, donne e bambini che affrontano il rischio di attraversare il Mare Mediterraneo su imbarcazioni fatiscenti per sfuggire dalla persecuzione, morte, fame e violenza.
A Lampedusa ho documentato l’arrivo di migranti dopo essere stati soccorsi dalla Guardia di finanza italiana, vicino alle coste della Libia. Li ho voluto fotografare, soprattutto i visi che più di ogni parola comunicavano sofferenza, paura, ma anche tanta speranza. A Calais ho partecipato ad una protesta contro la costruzione del muro di filo spinato decisa dal governo francese con la collaborazione di quello britannico, per evitare che i migranti potessero attraversare l’autostrada e la Manica e raggiungere la Gran Bretagna.
Questo “muro” non ha comunque evitato la morte di alcuni migranti nel pericoloso tentativo di attraversarlo. A Calais ho visitato anche “The Jungle”, il campo dove vivevano circa semila migranti, provenienti da Afghanistan, Eritrea e Siria, in condizioni disumane con nessun tipo di aiuto da parte del governo francese. In questo campo, nel dicembre del 2015, il grande interprete della street art Bansky dipinse Steve Jobs, cofondatore della Apple, professore e inventore, di padre siriano. Il messaggio era esplicito. Se l’America non lo avesse accolto, probabilmente non avremmo goduto delle invenzioni di questo grande genio.
Nel porto di Palermo ho fotografato l’arrivo di centinaia di migranti, soccorsi da una nave Frontex, insieme con un container con 51 cadaveri naufragati durante l’attraversamento del Mediterraneo.
Il reportage termina con una manifestazione che ha avuto luogo a Palermo, chiamata “La marcia degli scalzi” e che ha visto la partecipazione di cittadini, associazioni e politici per rivendicare la violazione dei diritti umani nei confronti dei migranti.
È il 2015. Sono quotidiane le notizie di migranti che attraversano la rotta balcanica o del Mediterraneo, affrontando viaggi pericolosi. Non posso guardare questa grande umanità in fuga solo attraverso il filtro dei mass media. Voglio vedere con i miei occhi e raccontare attraverso la mia compagna di viaggio, la macchina fotografica.
Trenta aprile. Prendo l’aereo per Lampedusa. Solo un’ora e mi trovo sull’isola. Chiedo a Salvatore, il tassista che mi porta all’albergo, se con gli sbarchi dei migranti qualcosa è cambiato. Mi risponde che gli arrivi sono ben gestiti. È piacevole conversare con lui. Spiego che sono lì per fotografare gli arrivi. Mi risponde che ogni qualvolta avesse avvistato navi soccorso in arrivo al Molo Favaloro, mi avrebbe chiamato.
Sento squillare il telefono, è Salvatore. Una nave soccorso della Guardia di Finanza era appena attraccata. Il molo Favaloro è a pochi passi dall’hotel. Un cancello chiuso non permette l’accesso ai non addetti ai lavori. Accanto al cancello un murales con la scritta “Proteggere le persone e non i confini”.
Da anni i lampedusani hanno capito ciò che i politici europei faticano a capire. Nessuno può fermare questa marea di popoli in fuga. Quel cancello non impedisce di vedere cosa succede durante il trasbordo dalla nave al pullman che porterà i migranti al Centro di Primo Soccorso e Accoglienza in contrada Imbriacola. Vedo uomini, donne scendere dalla nave scalzi, trascinando il loro corpo stanco con l’aiuto degli operatori. Solo quando il pullman esce dal cancello riesco ad incrociare i lori sguardi. Alcuni impauriti, altri stanchi, altri ancora accennano un saluto e sorridono con occhi pieni di speranza.
Saprò in seguito che molti di loro non avevano idea del luogo in cui si trovavano. Vedo Salvatore. chiedo se può accompagnarmi vicino al Centro dove non mi è possibile entrare. Mi porta su una collinetta. Alcuni migranti camminano in un cortiletto. Tutt’intorno cancelli e muri di filo spinato.
Salvatore mi riaccompagna in hotel. Nel breve tragitto mi racconta dei primi arrivi dei migranti. Non c’era l’accoglienza organizzata di adesso. Arrivavano con imbarcazioni fatiscenti, si assiepavano esausti sulle spiagge, mentre i lampedusani li soccorrevano portando loro cibo e coperte.
Lampedusa, una piccola isola con un grande cuore. Guardo fuori dal finestrino i colori del tramonto. Guardo Salvatore e le tante conchiglie sul cruscotto del suo taxi. Come è stata intensa quella giornata!
Cinque agosto, partenza per Parigi. Una città dove torno volentieri. Mi piace passeggiare fra i suoi viali e respirare aria di libertà, eleganza, bellezza. Quella volta, però, Parigi non è la sola meta del viaggio. Prendo il treno alla Gare de Paris Nord e in due ore mi ritrovo a Calais. È sabato 8 agosto.
Calais è una rinomata località balneare nel nord della Francia e si affaccia nel punto più stretto della Manica. C’è il campo migranti, detto “The Jungle”, motivo per cui mi trovo lì. Chiedo se è possibile raggiungere a piedi il campo. Mi dicono che dista circa 1 km e mezzo dal centro abitato.
Prendo un taxi. Man mano lascio alle mie spalle le belle ed eleganti villette, comincio a vedere, sulla mia sinistra, l’autostrada che permette di raggiungere il tunnel della Manica.
L’autostrada da pochi mesi, è costeggiata da un alto “muro” di filo spinato, guardato a vista da soldati e, proprio accanto, si trova l’accampamento dei migranti e rifugiati, per lo più afghani, siriani, eritrei. Con mia grande sorpresa vedo che fuori dal campo c’è una grande folla di migranti, giornalisti, volontari, semplici cittadini per iniziare una marcia di protesta.
Il corteo attraversa il centro città gridando “No more wall” “No borders for immigrants”. Diversi striscioni con scritto “Nous voulons vivre” colorano il corteo.
Poco tempo prima, alcuni migranti erano morti, travolti da auto e camion, nel tentativo di raggiungere l’Inghilterra. Durante la marcia riesco a parlare con alcuni giovanissimi migranti. Molti avevano attraversato a piedi la rotta balcanica e raccontavano di morti violente di familiari e tentativi di raggiungere altri familiari o amici in alcuni Paesi europei tra cui l’Inghilterra. Una protesta che termina su un pontile del porto da cui vengono lanciate in mare barchette di carta e fiori.
Accanto a me un fotografo della BBC stava riprendendo un gruppo di giovani profughi insieme a giovani del posto. Sapevo che non era necessaria nessuna autorizzazione per entrare, ma non sapevo se poteva essere rischioso farlo da sola. Percependo le mie perplessità, il fotografo mi spiega che l’indomani lui con la sua troupe televisiva avrebbero effettuato un servizio dentro il campo e mi invita ad unirmi a loro. Felice accetto l’invito.
Non avevo prenotato nessuna camera d’albergo, avendo programmato di tornare in giornata a Parigi. Finalmente, è quasi sera, trovo una camera in un piccolo ma accogliente albergo. Stanca, faccio una doccia, mi metto a letto e crollo in una profonda dormita. L’indomani raggiungo il fotografo nei pressi del campo.
Insieme alla sua troupe entriamo nell’accampamento. Una immensa distesa di baracche, di indumenti stesi sulle siepi, di donne, uomini, bambini che mostrano grande dignità. Penso che queste persone hanno, probabilmente, un passato da cancellare, un presente molto precario, e un futuro difficile da prevedere. Vivono in un limbo fisicamente e metaforicamente.
È quasi buio. È il momento di lasciare l’accampamento. Saluto con gratitudine il fotografo e riprendo il treno per Parigi. Mi fanno compagnia i tanti visi e i tanti sguardi incrociati in quei due giorni a Calais.
Porto di Palermo, 27 agosto. Avevo appreso dell’ennesima operazione di soccorso di migranti. Questa volta la nave svedese Poseidon sarebbe approdata al porto di Palermo, portando in salvo 571 migranti e anche, purtroppo, un container con 52 cadaveri, trovati dentro la stiva di una barca nel Canale di Sicilia, morti a causa del gas di scarico dei motori dell’imbarcazione.
È un pomeriggio assolato. Al porto trovo tutto pronto per le operazioni di accoglienza. Ci sono le forze dell’ordine, operatori della Croce rossa, Caritas, Protezione civile, Medici senza frontiere. Chiedo ad un poliziotto di potere entrare. Mi indica delle transenne dove giornalisti, fotografi possono lavorare senza ostacolare le operazioni di soccorso.
Si fa sera. Arriva la Poseidon. Scendono uomini, donne, bambini. Una catena umana provvede ai controlli medici, a fornire acqua e cibo. Una ragazza della Croce rossa abbraccia e dona giocattoli ai bambini che guardano smarriti e sorpresi. Mi colpisce il sorriso pieno di gioia di un uomo, probabilmente felice di essere sopravvissuto. Scendono tutti i migranti.
La banchina è libera per fare spazio ad una gru. Un grande camion frigo si avvicina all’imbarcazione. Alcune persone indossano una mascherina. La gru preleva il container e lo depone nel camion frigo. È allora che comincio a sentire l’odore dei cadaveri.
È stata lunga quella notte. Sulla strada del ritorno a casa penso che per un po’ metterò da parte la mia macchina fotografica.
Palermo. La marcia degli scalzi, 10 settembre. Si apre un corteo in piazza Verdi. In migliaia chiedono l’apertura di canali umanitari e un’Europa senza muri. Sono scalzi, come i migranti quando scendono dalle navi. La marcia nasce dall’appello di un gruppo di artisti alla Mostra internazionale di Venezia e a Palermo è promossa dal forum antirazzista. Una marcia silenziosa che termina al porto, dove un gruppo di giovani di nazionalità diverse comincia a danzare al suono di percussioni. Un simbolo di speranza per una umanità più giusta.
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
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Francesca Riggi, vive a Palermo, dove lavora come docente di lingua inglese. Laureata in Lingue e Letterature straniere, è perito esperta traduttrice ed interprete di lingua inglese e coltiva una profonda passione per la fotografia e i viaggi. Autodidatta approfondisce la sua formazione frequentando corsi tecnici a Milano negli anni ’90. Ha all’attivo diverse mostre personali e la pubblicazione di libri fotografici su temi ispirati alla vita quotidiana ed estemporanea. Si considera soprattutto una “fotografa di strada” ed è particolarmente attenta a ciò che rimane spesso occultato, non la straordinarietà dell’accadimento eclatante, ma la grandezza e la bellezza della gente, dei volti e delle cose di tutti i giorni.
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