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Per Consolo. La parola creativa
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2022 @ 01:55 In Cultura,Letture | No Comments
di Sebastiano Burgaretta [*]
La mia presenza qui trova una ragione nel rapporto di amicizia del quale Vincenzo Consolo volle onorarmi per un trentennio circa, fino alla sua morte, e che continuò poi con sua moglie, Caterina Pilenga. Se devo dire da che cosa nacque questa amicizia, a distanza di tanti anni mi rendo conto che essa quasi certamente nacque dal comune amore per la parola, per il lógos, quella parola che crea ponti e relazioni, come spiega l’etimologia greca del termine stesso: paraballo >parabol>paraola>parola. Quella parola con cui si può dare la vita ma, ahimè, anche la morte, la parola che dà nome a cose, piante, animali e uomini, e che col nome conferisce identità e dignità. Parola che in Consolo fluiva in poesia, in questa visceralmente traducendo, fra storia e metafora, i dolori del mondo, quantunque filtrati attraverso il vaglio della Sicilia e dell’Italia; quei dolori che riscontrava anche solidificati nelle tracce materiali lasciate dalla storia e davanti ai quali io l’ho visto una volta versare maltrattenute lacrime, mentre accarezzava dolcemente i conci greci di Eloro.
Consolo, con la sua indefessa, tormentosa ricerca, ha voluto dare nome e dignità a cose e a uomini, specialmente a quanti non hanno parola né di fatto né, peggio ancora, di diritto, consapevole egli com’era che nel nome c’è tutto della persona, c’è la sua identità, c’è la sua storia, col passato e col futuro che questa ingloba e contiene. Ha voluto dare nome ai dolori del mondo. Da qui la sua concezione della letteratura come vigile milizia, come impegno civile, e il deposito storico-memoriale e linguistico come terreno sul quale muoversi nella pagina da scrivere. Da qui il rispetto assoluto che nutriva per la lingua, e il suo distacco, talora anche risentito, nei riguardi degli ammiccamenti che, strumentalizzando la lingua, qualsiasi lingua, vedeva indirizzati a un certo pubblico, al pubblico che egli definiva telestupefatto dei nostri giorni.
La lingua per lui era sacra, e come tale andava rispettata e non vilipesa, dato il peso enorme che essa ha nel contesto storico-antropologico, civile e politico nel quale l’uomo è chiamato a vivere e operare. Per Consolo non si gioca, non si scherza con la lingua. Nessuno deve arrogarsi il diritto di strumentalizzare o ridicolizzare la lingua, attraverso la quale passano il riconoscimento e la sacralizzazione dell’identità, della dignità, della libertà dell’uomo.
Consolo con Sebastiano, Rosa Burgaretta e la moglie Caterina a Palazzolo Acreide (ph. Giuseppe Leone).
Conseguentemente, per Consolo, non si può prescindere dalla nominazione, attraverso la parola, di uomini e cose. Il nome va dato sempre, nonostante tutto, anche andando controcorrente, sfidando, pure a prezzo personale, incomprensioni e soprattutto il perbenismo dilagante in tempi di omologazione culturale e comportamentale, come quelli che stiamo attraversando in questi anni, anche, mi disse una volta, se occorre, «sputando nel piatto in cui si mangia», in nome della libertà. Egli credeva in questo e lo viveva, fin forse all’autolesionismo e al prezzo dell’emarginazione, cui lo si relegava comodamente, se non a buon mercato, da parte di alcuni, prezzo che egli era determinato a pagare per la sua scandalosa unicità.
Tutto il suo impegno di uomo e di letterato si è proteso e speso, in ultima istanza, nel dare nome ai dolori del mondo, con i conseguenti contraccolpi e le delusioni che una società perdutamente omologata gli riservava, talvolta anche malevolmente. Questo egli ha fatto sempre, scavando nella creatività della parola, con una tensione etica vissuta e sofferta sotto un registro che non esito a definire religioso, nel senso ampio, laico del termine, anche se è vero che nel linguaggio biblico il nome contiene, comporta la persona e la sua identità, per cui si crede, per esempio, che nel nome di Cristo c’è la presenza di lui con tutto il suo potere.
Da qui la sofferenza che a Consolo comportava la scrittura, e i tempi lunghi della sua gestazione, da qui l’identificazione, nella sua opera tutta, di pagina e vita, di scrittura e testimonianza civile, con agganci alla sua esperienza esistenziale, umana e familiare, ambiti nei quali credo che si debbano anche orientare nel futuro gli studi su di lui. Etica ed estetica erano tutt’uno in Vincenzo Consolo, come raramente succede di riscontrare in letteratura.
Questo bisogno, questa necessità di nominazione, salvifica per l’uomo, Consolo vive e proietta nel cuore, nella mente e nella bocca di Petro Marano, quando questi, deluso e sconfitto ma non rassegnato, dice a chiusura di Nottetempo casa per casa:
Petro accoglie in sé, perché lo vive nella sua esperienza dal basso, il lasciato “testamentario”, scandalosamente e inaspettatamente proveniente dall’alto della rinnovata coscienza del barone Mandralisca, che nel Sorriso dell’ignoto marinaio, dice:
e poi ancora, rivolto all’Interdonato:
Questo amore per la parola salvifica, contro le imposture della storia scritta dai potenti di ogni rango e classe, e la consequenziale tensione etica verso l’uomo credo che ci abbiano accomunato, perché questo stesso interesse credo abbia intuito in me, dopo che lesse il mio Api e miele in Sicilia, uscito nel 1982. E questo è documentato da decenni di rapporti amicali e di conversazioni in presenza e per telefono, oltre che per corrispondenza epistolare e cartacea. Questo amore per la parola, e la sua capacità di nominazione, risuona chiaramente, direi quasi programmaticamente come in un manifesto ideale, in alcuni specifici luoghi delle sue opere, oltre che in tutto il contesto di esse. Qui, a riprova di quanto sto enucleando, voglio riportare due di questi luoghi, che a me paiono particolarmente significativi. Il primo è preso dal racconto I linguaggi del bosco, compreso nel volume Le pietre di Pantalica:
E ricordo benissimo quella volta in cui mi portò al Bosco della Miraglia, a vedere i resti del casello e a indicarmi i luoghi in cui era vissuto bambino, da zigaga debole e fragile con la selvaggia e forte Amalia.
Il secondo è tratto dall’Olivo e l’olivastro:
Se ne evince un terreno di identificazione, di coincidenze, di consonanza e di comune ricerca di luoghi, di pietre e di piante, d’armonia interiore, cui dare nomi e con ciò stesso vita. Ne è conferma la corrispondenza interna, nello stesso libro, tra queste affermazioni e quelle relative all’accoglienza che Ulisse riceve a Scherìa nella reggia di Alcinoo:
Da questo comune interesse per la vita dell’uomo e per la parola salvifica germogliò un continuo scambio di notizie, di informazioni che io gli davo e che egli mi chiedeva, lungo il tempo, su svariati argomenti e su tanti termini. Non passavano più di dieci giorni, al massimo, che non ci sentissimo al telefono. Ricordo qui, a volo d’uccello, qualcuno di questi termini su cui ci confrontavamo: totano, pupa, quella cioè delle api, la capra Melissa, i lupinari, cioè i lupi mannari, al tempo della scrittura di Nottetempo casa per casa.
Se da lontano comunicavamo per telefono, quando eravamo insieme in qualsiasi posto della Sicilia, si andava in giro a visitare luoghi, siti archeologici, città, monumenti, ed era ogni volta un profluvio di parole e termini, che, pullulando, obbedivano al rito della nominazione di luoghi legati all’archeologia o alla storia, nonché di piante, di fiori. Eloro, Cittadella dei Maccari con le sue rovine e il suo ginepro coccolone, Vendicari col suo sale e i suoi uccelli, Noto Antica, Avola Antica con la masseria del caso Gallo, Cava Grande del Cassibile con le sue orchidee selvatiche, Palazzolo Acreide con la Casa-museo di Antonino Uccello e il teatro greco, e poi Apollonia, Alcara Li Fusi coi suoi grifoni, Capo d’Orlando e tanti altri luoghi in Sicilia ci videro camminare insieme, puntualmente nominando piante e pietre.
Consolo registrava nella sua mente ogni cosa, ogni particolare. Non so come facesse. Aveva una memoria prodigiosa, perché era davvero raro che prendesse qualche appunto per iscritto. Una sola volta, ricordo, mia moglie, forse a Palazzolo Acreide, gli diede un foglietto di taccuino, perché egli aveva bisogno di fermare qualcosa sulla carta. Solitamente immaginavo che, tornato a casa o in albergo, lì si mettesse a scrivere quanto gli avevo comunicato. E devo ammettere che io non ero parco nell’elencare nomi di contrade, di riferimenti storici, di piante, di animali, soprattutto nella versione siciliana. Ero loquace nella continua spiegazione e informazione di dati, descrizione di luoghi, che egli ascoltava e recepiva volentieri con una curiosità e, direi voracità quale ha descritto nel celebre e citatissimo incipit del racconto Comiso pubblicato nelle Pietre di Pantalica:
A me pare che dietro queste parole covi una tensione misticamente religiosa, nel senso di cui ho detto sopra. E come non pensare, a tale proposito, al disperato afflato orante con cui Consolo, proiettandosi ancora una volta in Chino Martinez, chiude Lo Spasimo di Palermo e al tempo stesso la sua carriera di narratore:
con ciò spingendosi oltre il limite davanti al quale si era fermato Sciascia nella chiusura del Cavaliere e la morte:
Ricordo infine, in particolare, con grande piacere le escursioni nelle trazzere della Montagna di Avola, durante le quali egli era curioso di tutto, si soffermava su ogni pianta, officinale o meno, tenendo tra le dita un rametto ora di timo ibleo, ora di rosmarino selvatico, ora di nepitella, e inebriandosi dei loro profumi, mentre chiedeva di ognuna nome e repertorio d’impiego negli usi locali. A tavola poi, ai Làufi, gustava con la gioia di un fanciullo i piatti che preparavamo per lui, la frutta lì appena raccolta, i dolci fatti in casa, dei quali chiedeva nomi locali e procedimenti di preparazione. Di questi bei momenti e della gioia fermata e dipinta nel suo volto conservo varie foto scattate in occasioni diverse. Erano pomeriggi e serate conviviali rallegrate dai sorrisi e dalle barzellette che lo scrittore sapeva elargire agli amici, quando se ne creavano le condizioni; incontri ai quali più volte hanno partecipato vari amici comuni, tra i quali Jean-Paul Manganaro, Paolo Di Stefano, Pino e Gina Di Silvestro, Peppino Leone e altri ancora.
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