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Quella innocente parola
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2024 @ 02:47 In Cultura,Società | No Comments
di Lauso Zagato
Prima di stendere questo intervento mi ero domandato se, considerato il mondo di orrore in cui siamo immersi ogni giorno di più, abbia senso soffermarsi su qualcosa che ha avuto origine da un litigio sul campo tra giocatori di calcio del massimo campionato, cioè tra soggetti appartenenti comunque, siano essi bianchi, neri, o a pois, ad una minoranza privilegiata. Il punto è che da tale, diciamo così, leggerezza originaria dell’evento hanno tratto origine prese di posizione e narrazioni che lasciano esterrefatto il lettore/ascoltatore, soprattutto per la enorme ignoranza brandita come un’arma da supposti opinionisti: nella fattispecie mi riferisco, più che al vacuo cicaleccio dell’umanità da bar sport alle diverse latitudini, agli autori che scrivono i loro elzeviri nel paginone centrale di (più di) un noto quotidiano sportivo. Mi è parso evidente che tenere un comportamento “schizzinoso” avrebbe costituito da parte mia manifestazione di ingiustificato élitismo: userò al contrario il fatto di cronaca del presunto (?) insulto razziale, e del dibattito confuso e a tratti delirante che vi ha fatto seguito, come occasione di approccio al tema, senza soffermarmi in particolare sui personaggi coinvolti. Peraltro la sentenza sportiva, nella sua ambiguità e soprattutto alla luce dei paradossali risvolti del suo esito, imporrà che sull’aspetto concreto della vicenda si torni in conclusione.
Senza girarci attorno: il punto da cui partire è la variante dell’aggettivo nero, variante che scriverò come n*. Sono ben cosciente che ciò fa tanto politically correct, atteggiamento irriso dai nuovi poteri (e ci mancherebbe altro!), al punto da venire brandito come un’accusa da cui intellettuali pavidi pensano di doversi difendere. La consapevolezza di tale situazione impone oggi, al contrario, una ridefinizione/rifondazione in profondità di cosa si debba intendere per politicamente corretto; proprio quella parolina, quella variante dell’aggettivo qualificativo, ci conduce dritti al cuore di questa necessaria rifondazione.
Una volta esploso il caso, siamo stati informati, dalla stampa e dai programmi televisivi (non solo) sportivi, che quella parola costituiva una variante assolutamente normale, e percepita come non insultante fino a poco tempo fa (Ma percepita da chi?), dell’aggettivo (in questo caso sostantivato) nero, salvo appunto assumere, ma solo di recente, una connotazione chiaramente negativa. Quindi n* costituirebbe senz’altro oggi un epiteto insultante, ma ciò solo grazie all’evoluzione dei costumi. Come a dire: per essere peccato è peccato, ma si tratta comunque di peccato veniale, pieno di attenuanti. Del resto ormai nessuno più è razzista in Italia, come ci viene confermato in modo martellante dai pulpiti più improbabili, a nulla valendo i richiami a quanto perpetrato in senso opposto ogni giorno dagli Stati europei, il nostro in prima fila, ai danni delle popolazioni coinvolte nel drammatico movimento esodale in atto: quasi si trattasse di alieni travisati, malcelati quanto improbabili invasori. È il momento di andare alle radici di questa favola.
La sovrapponibilità dei due termini (nero e n*) viene dal latino, come sappiamo: entrambi derivano da niger, e si portano dietro ovviamente il disvalore che nella cultura occidentale accompagna l’oscurità rispetto al bianco, il supporto colore della luce [1]. A poco vale osservare che le popolazioni bianche non sono in effetti tali, e che per converso non esistono etnie “nere” in senso proprio [2]. La definizione nero/n* accompagna e scandisce piuttosto la terribile vicenda della colonizzazione europea dell’Africa negli ultimi secoli [3].
Sul piano linguistico, l’inglese (l’americano nel caso) offre una situazione di partenza diversa, non priva di conseguenze ai fini del nostro discorso. Il corrispettivo del termine nero è black, mentre con la parola nigger, derivata dal latino niger e per suo tramite da n*, si designano «le persone schiavizzate e la loro progenie» [4], di ambo i sessi. Di fronte alla penuria di manodopera nelle campagne del Sud dovuta alla migrazione interna del black people verso le città del centro-nord dopo la Prima guerra mondiale, e alle critiche da parte dei liberal bianchi per il trattamento riservato ai neri, considerato all’origine di tale (parziale peraltro, la vera migrazione di massa essendo ascrivibile al secondo dopoguerra) esodo, la stampa sudista replicava con brutale franchezza che l’economia del Sud non intendeva accogliere assurdità tipo «black ladies and gentlemen» ma aveva bisogno solo ed esclusivamente di niggers [5], che quindi andavano riportati al loro posto con tutti i mezzi necessari (donde l’implicita rivendicazione del carattere politicamente necessario della catena di linciaggi che ebbe, appunto, il suo culmine negli anni ’20 del passato secolo). Resta che negli Stati Uniti il termine Black (quindi Black People, Black Panthers, etc.), passando attraverso la fucina del concetto duboisiano di Darkness, ha potuto essere rivendicato con orgoglio dalle avanguardie afroamericane [6].
Nel linguaggio dei dominatori coloniali europei l’identificazione con il colore della popolazione asservita risulterebbe dunque, a prima vista, più “spontanea” che in quello della società bianca organizzatasi nel Sud degli Stati Uniti sotto la guida dell’élite schiavista. La seconda aveva bisogno, anche per tranquillizzare la massa dei bianchi poveri, di un termine diverso, specifico, chiaramente sub-umanizzante, per riferirsi alla porzione di umanità ridotta in schiavitù [7]: il nigger, il n*, non è uomo di colore scuro meno evoluto, più arretrato, insomma vittima predestinata dell’armamentario ideologico del c.d. darwinismo sociale; è qualcosa di addirittura diverso, un essere bizzarro a metà strada tra l’uomo e le mandrie di animali da fatica [8].
Tuttavia la differenza, nel merito, è più apparente che reale: neppure nella tradizione colonialista europea l’opposizione bianco/niger, che si confonde con quella tra luce e tenebra, ha alcunché di naturale. Non c’è infatti nulla di biologico, il colore altro non è che è una metafora politica della sottomissione fisica degli abitanti di un continente a quelli di un altro. La Repubblica francese, anche dopo l’abolizione della schiavitù, non ha un unico sistema di diritti e doveri in capo ai propri cittadini, o un regime differenziato su base territoriale (alcune regole nelle colonie, regole parzialmente diverse nella c.d. madrepatria, ma valide per tutti): al contrario, due diversi regimi civili e politici accompagnano per tutta la vita i cittadini metropolitani e quelli coloniali (anche se nati nella Francia metropolitana), si trovino essi nella Francia europea o in quella extraeuropea. Il resto è menzogna.
È quanto sperimenta un giovanissimo Frantz Fanon, ragazzo della Martinica di famiglia afrocaraibica, educato a credersi un bianco, che si arruola giovanissimo nell’esercito della Francia libera per combattere per la liberazione di quella che considera la sua patria – rimanendo ferito nella finale battaglia d’Alsazia del ’45, comportamento per il quale gli verrà conferita una medaglia; by the way, ciò fa di Fanon il più giovane medagliato della Seconda guerra mondiale di parte francese, probabilmente in assoluto – ma che alla vigilia dello scontro decisivo scrive amaramente alla famiglia: «se verrete a sapere della mia morte per mano del nemico consolatevi, ma non dite è morto per una buona causa .. mi sono sbagliato» [9]. In Pelle nera, maschera bianca, egli ritornerà sulla questione, che gli (anzi, ci) apre nuovi orizzonti di ricerca [10]: se alle Antille il giovane borghese afrocaraibico che studiava alle superiori poteva sentirsi francese a pieno titolo, e stare quindi dalla parte dei colonizzatori bianchi portatori di civiltà, sarà sufficiente una permanenza di pochi giorni in territorio metropolitano, perché gli precipiti addosso la piena comprensione del suo status naturale agli occhi della società bianca cui credeva di appartenere: quello di n*, niente altro che un n*, per nulla diverso dagli africani che fino a quel momento ha considerato altro (e di minor valore ovviamente) da sè.
Si apre qui (prendo questo appunto a futura memoria) un possibile terreno di indagine volto ad approfondire la diversità del gioco di livelli di umanità/disumanità che la sapienza coloniale euro-occidentale ha saputo costruire attorno alla parola nero e alla sua variante n*, equivocando ad arte sul dato del colore (che è certo un dato obiettivo, ma solo perché legato alle diverse quantità di melanina assimilate dalle generazioni) [11] nel confronto con la diretta ed esplicita affermazione di una condizione sub-umana, una volta per tutte, che si cela dietro all’uso del termine nigger/n* americano. Quello che conta, giova ripetere, è che, in tutti i casi, non c’è proprio niente di naturale, il colore (il niger latino da cui si è cominciato) è stato appiccicato su una parte dell’umanità politicamente, «fissato sui corpi numani dalle catene e dalle fruste» [12]. Si badi: questa natura infamante, offensiva, derisoria, è consustanziale dall’inizio all’utilizzo del termine n* da parte della società bianca, intesa come collettività, oltre che come somma di individui che vi fanno ricorso.
Di fronte alla forza sub-umanizzante della parola, che implica, e a sua volta contribuisce a creare, un fossato tra chi è umano al 100% e chi no, perfino il termine “razzismo” rischia di non risultare del tutto adeguato. L’oggetto del razzismo europeo è stato tradizionalmente il giudeo (altra parola che andrebbe bandita per il suo contenuto dis-umanizzante). Qui il gioco bianco/nero, luce/tenebre appare marcatamente simbolico: non si metteva in dubbio l’aspetto umano di chi ne era oggetto, né la sua intelligenza rispetto a quella dei membri della società bianca. Anzi, è proprio questo che nella narrativa razzista tradizionale rende demoniaco l’ebreo, così come sotto altro profilo il guerriero turco, il cui valore in battaglia viene riconosciuto eguagliare quello del cavaliere franco, combattente dell’Europa cristiana.
Il tradizionale oggetto del razzismo europeo, per riassumere, prima del colonialismo è stato il nemico esterno manifesto (il guerriero saraceno, il turco), in una con colui che viene percepito come nemico interno (il giudeo): del primo non si mette in dubbio il rivaleggiare con l’europeo quanto a coraggio e ad abilità guerriera, del secondo quanto a intelligenza e scaltrezza. Andando avanti su questa via, ci si potrebbe soffermare sul pericolo giallo, che fa la sua comparsa nello scorcio finale del XIX° secolo. Nel caso dell’africano invece non avviene nulla di simile: la non assimilabilità ontologica all’europeo (o all’americano bianco) è affermata, anzi data per scontata dall’inizio, costituisce marchio percepibile icto oculi della sua implicita (nel sistema di riferimenti culturali proprio di una società che non ha mai fatto i conti con il proprio passato – se di passato può parlarsi – colonialista) abiezione e sub-umanità.
Intendo mantener fede al proposito iniziale: è quindi il momento di lasciare i livelli più astratti e drammatici del discorso – tali livelli, è facile profezia, dovranno d’altro canto venire ripresi ed anzi approfonditi a breve, nell’orizzonte vieppiù oscuro in cui ci stiamo immergendo – e ragionare, terra-terra, sulle conseguenze della ricostruzione qui delineata sul caso specifico da cui abbiamo preso le mosse. La conseguenza si presenta paradossale: se l’atleta, diciamo europeo “bianco”, insulta un avversario senza ricorrere, nel caso l’oggetto della sua ira sia un nero, all’espressione n* (o equivalente), egli assume una evidente condotta anti-sportiva, passibile di sanzione a tale titolo. Ma se egli usa il termine n*, il tratto razzista è in re ipsa, come si è visto. E quindi?
I giudici sportivi hanno preso atto del fatto che la nuova normativa esige che il comportamento razzista sia punito in modo esemplare, ma hanno circondato la fattispecie di tali e tanti limiti da renderla difficilmente applicabile, salvo per quanto si dirà. Nel contempo, proprio il fatto che il comportamento comunque in odore di razzismo non possa essere ridotto a manifestazione di mera condotta anti-sportiva, comporta che, ove manchi una dimostrazione oltre ogni ragionevole dubbio dell’intento razzista in capo a chi ha profferito la parolina, quest’ultimo esca dalla vicenda non punito. Alla paradossalità per se di tale conclusione, si somma – e ciò provoca sincera indignazione – la narrazione in termini di “assoluzione” e di “giustizia è fatta” (!) da parte dei media del Paese, che in larga maggioranza, privi di decenza, giungono a vedere in ciò una ri-prova del fatto che nello sport italiano non esiste il razzismo. Non credo da parte mia che i giudici avessero in mente questo esito quando hanno fatto il pasticcio. Qualcuno tra i commentatori da cui ho preso le mosse, mi ha dato invece la (sgradevole) impressione di sì. Si crea in ogni caso uno stallo pericoloso: una campagna contro il razzismo, in ultima analisi meritoria malgrado i suoi limiti, rischia di venire ridotta al ridicolo; l’alternativa appare essere il rischio di un utilizzo discrezionale, addirittura mirato, delle possibilità che la legge concede.
Io peraltro non mi disferei della legge, per i motivi che ora spiegherò. La fattispecie del comportamento razzista, per verificarsi, richiede che al comportamento fattuale sia abbinata la mens rea; deve cioè esistere una correità ideale (meglio dire ideologica) con l’intento di sub-umanizzazione di quel settore dell’umanità cui appartengono gli individui target [13] Esprime quindi una situazione limite, che, nello sport d’élite, soprattutto ove si tratti di sport di squadra, non ha la probabilità di verificarsi spesso, in virtù se non altro del notevole livello di globalizzazione operante in tale contesto. Che io sappia, a livello di sport d’élite vi è solo il caso di un campione croato dello sci, qualche decennio fa, che inneggiava pubblicamente alle SS, nella sconcertante quanto disgustosa passività della federazione sportiva internazionale di riferimento (taciamo di quella nazionale). Ma si trattava di sport individuale, monopolio al tempo di Paesi e regioni in cui la componente per così dire ariana della popolazione sfiorava la totalità. Sappiamo che oggi un simile comportamento sarebbe comunque sanzionato: ciò è positivo, ma si potrebbe osservare che l’assoluta rarità del verificarsi dell’ipotesi renderebbe inutile il gran parlare che si è fatto intorno alle nuove regole introdotte. È davvero così?
Personalmente ho dei dubbi, e per questo la legge andrebbe comunque fatta salva: prima di tutto, anche negli sport di squadra e a livello d’élite, il rapporto tra atleti neri e pubblico degli stadi è talmente intriso di razzismo manifesto da esigere l’introduzione di un deterrente. Purtroppo la situazione non è diversa, anzi peggiore, quando dalla fascia d’élite si scenda nei campionati minori (di calcio in particolare), soprattutto ove si analizzi cosa succede nei campionati e nelle società giovanili: qui – molto spesso sotto la spinta dei genitori dei ragazzi coinvolti – avvengono cose, si ascoltano cori ripetuti, addirittura indescrivibili, talora tanto gravi da spezzare il muro di silenzio che circonda questa turpe dimensione del vivere quotidiano. Orbene, qui la mens rea sub-umanizzante – operante spesso a livello di gruppo/i, e con l’aggravante di avere come target dei ragazzini – è palese, e non può essere passata sotto silenzio. Ritengo insomma che esista un vasto sottobosco in relazione al quale, magari con qualche ritocco, la legge che punisce duramente il razzismo nello sport potrebbe davvero rivelarsi utile.
E l’ipotesi dell’insulto tra sportivi professionisti, da cui si è partiti? Si tratta di affermazioni pronunciate per lo più nella perdita di controllo causata dallo sforzo fisico, che troppo spesso presentano però il preciso ancoraggio al profilo razziale come disvalore. Lungi dal lasciarle come terreno di nessuno, area grigia tendenzialmente impunita, meglio sarebbe forse sanzionare tali comportamenti, quando non sufficientemente qualificati dalla partecipazione ideologica, nell’ambito del comportamento antisportivo, inserendo magari in quest’ultimo un profilo aggravante ad hoc, che ponga in risalto la perversità (la cattiveria) dell’insulto pronunciato. Più che un passo indietro mi sembra un modo di evitare che il sacrosanto rigore teorico del divieto si trasformi, nel concreto, in un boomerang, utilizzato lucidamente da subdoli maestri della manipolazione di massa.
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