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Roberto Ferretti quaranta anni dopo
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2024 @ 02:19 In Cultura,Letture | No Comments
Roberto Ferretti, demologo e pubblicista (Grosseto, 31 marzo 1948-al-Karak, Giordania, 26 dicembre 1984)
CIP
di Paolo Nardini
Piergiorgio Zotti e io, una sera di febbraio del 1988, di ritorno dalla visita per un’intervista a un pastore che aveva fatto la transumanza fino a pochi anni prima fra l’Appennino tosco-emiliano e la Maremma, prendemmo l’impegno reciproco di indirizzare tutti i nostri sforzi, da allora in avanti, a far emergere il lavoro di Roberto Ferretti che era rimasto incompiuto. In fondo c’era solo da tirarlo fuori da cassetti che cominciavano a impolverarsi, renderlo pubblico, valorizzarlo nel modo migliore. Sapevamo che si sarebbe trattato di un impegno gravoso e di lungo respiro, che avremmo incontrato molti ostacoli. Da allora sono passati trentasei anni, e il lavoro non è ancora concluso.
Il tragico evento
Era venerdì 29 dicembre del 1984 quando venne pubblicata la notizia, giunta alla redazione grossetana del quotidiano La Nazione nel pomeriggio del giorno precedente, dell’incidente che Roberto Ferretti aveva avuto durante il soggiorno in Giordania, con la moglie e due amici. Ancora non si aveva certezza della drammaticità dell’evento, ma la scarsità delle informazioni non prometteva niente di buono. Si era appreso solo che si trattava di un incidente, ma se ne ignorava la natura; era accaduto in Giordania, vicino al confine con la Siria, a centocinquanta chilometri da Amman. Era stata la moglie di Ferretti a telefonare ai genitori. Poi più nessuna notizia.
Ferretti era forse una delle persone più conosciute nella sua città, Grosseto, e fra gli studiosi di demo-etno-antropologia si era fatto conoscere e apprezzare in Toscana. Oltre ad alcuni saggi scientifici comparsi nel Bollettino della Società storica Maremmana, aveva curato pubblicazioni che riprendevano i diversi aspetti delle tradizioni popolari della provincia di Grosseto, come quello sulla Focarazza di Santa Caterina, o quello sulle Befanate scritto insieme a Angelo Biondi, il volume di saggi Dire e fare Carnevale, aveva collaborato con Gastone Venturelli al volume Vita in Toscana, per citare solo alcune delle pubblicazioni principali; aveva studiato la storia locale, mettendo a fuoco il movimento giurisdavidico e la figura di Davide Lazzaretti, la compagnia dei flagellanti di Roccatederighi e altri movimenti millenaristici; dal 1977 scriveva articoli (con una media di due al mese) sulla cronaca locale del quotidiano La Nazione.
Intorno all’Archivio delle tradizioni popolari della Maremma grossetana, l’organismo da lui creato nel 1979, ma già attivo sottotraccia da diversi anni con il nome di Circolo Culturale Popolare, aveva raccolto un piccolo gruppo di giovani ricercatori, che guidava nel rilevamento dei fatti legati alla tradizione popolare, inviandoli nelle tante località sperdute della vasta provincia di Grosseto, in occasione di feste, cerimonie e altre iniziative popolari.
Aveva organizzato eventi culturali di rilievo [1], per una città sonnacchiosa, benché nel periodo fra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta anche il capoluogo della Maremma manifestasse una certa vivacità. Ad esempio, negli anni settanta Grosseto aveva avviato l’esperienza del “teatro sperimentale”, del quale lo stesso Ferretti era partecipe. Alberto Lecaldano, uno degli animatori, ci offre uno spaccato di quella iniziativa:
Quella del Teatro Sperimentale fu un’esperienza interessante, innovativa, orientata all’ascolto dell’altro e alla ricerca di un linguaggio che fosse “nuovo”, di rottura con il passato, di un passato esclusivo nei confronti delle masse di operai e di contadini, rendendolo invece inclusivo, aperto all’ascolto, capace di portare sulla scena l’istanza delle masse popolari, fino allora escluse da qualsiasi discorso “culturale”. L’esperienza ha avuto una certa eco, a livello nazionale, e una rivista teatrale [3] ne riportava alcuni tratti:
Ferretti, oltre a partecipare all’organizzazione, ne aveva disegnato il manifesto. In esso si legge che “Il Gruppo 5” del Teatro Sperimentale presenta “Davide Lazzaretti profeta”, una azione teatrale in tre atti sulla vita, le opere, la morte di Lazzaretti, barrocciaio che si era dichiarato “profeta”, fucilato come rivoluzionario per aver scoperto che il mondo è diviso fra sfruttati e sfruttatori».
Si farebbe torto ai grossetani, sia della città che della provincia, se non si citassero almeno le iniziative che, in campo sociale, fra la metà degli anni sessanta e la fine dei settanta, si sono realizzate. Si tratta di elementi di novità nelle forme di comunicazione delle istanze sociali e politiche, di una nuova sensibilità manifestata dagli studenti delle scuole medie superiori. Ciò che accadeva nel mondo, soprattutto in America e nei Paesi dell’Europa dell’est, dal Cile alla Cecoslovacchia, aveva un’eco in questa “piccola città”, dove si susseguivano le manifestazioni di protesta. La provincia era agricola e mineraria. Entrambi i settori conoscevano una profonda crisi alla quale si opponevano gli studenti insieme agli operai, con gli strumenti già utilizzati nel resto d’Italia (scioperi, manifestazioni, occupazione di istituti).
Era partito due giorni prima di Natale, e il ritorno era previsto per il 5 gennaio. Non era la prima volta che Ferretti andava in Medio Oriente; in questo caso era previsto di visitare gli scavi archeologici a sud della Giordania, per poi dirigersi verso Nord, in Siria. Il sabato mattina il quotidiano sul quale aveva scritto fino a pochi giorni prima (l’ultimo suo articolo pubblicato è del 18 dicembre) dà la notizia, secca, cruda:
Biografia
Roberto Ferretti era nato a Grosseto il 31 marzo 1948. Oltre ad aver sviluppato una notevole capacità nella rappresentazione grafico-pittorica [5], era un appassionato studioso di storia locale; si era dedicato poi, con l’approdo all’università “La Sapienza” di Roma, allo studio dell’antropologia e del folklore. A queste attività affiancava quella di operatore culturale e sociale, dal suo luogo di lavoro, che era un ufficio dell’assessorato alla cultura del Comune di Grosseto. Ferretti conobbe anche l’impegno politico, infatti aveva svolto la sua formazione all’interno della sinistra giovanile grossetana, quella più intellettuale e culturalmente attiva. Esprimeva simpatia per i ribelli e i marginali, oltre che per le classi subalterne. Dimostrava interesse per una certa impostazione orientalista (diffusa in quegli anni) e per certi aspetti misteriosi della realtà.
Negli anni settanta aveva conosciuto Gastone Venturelli, che svolgeva ricerche demologiche in Lucchesia e dalla collaborazione con il quale nacquero diverse pubblicazioni su vari aspetti delle tradizioni popolari maremmane, e Pietro Clemente, docente di Letteratura (poi Storia) delle Tradizioni Popolari all’Università di Siena, con cui Ferretti collaborò sia in ambito universitario che per le ricerche territoriali e per numerose iniziative culturali a Grosseto. Ferretti si era laureato a Roma nel 1977 con Diego Carpitella e Aurora Milillo, esperta di fiabistica, con una tesi sui racconti di tradizione orale raccolti nella provincia di Grosseto. La creazione dell’Archivio, e la sua istituzionalizzazione, gli avevano consentito di contornarsi di giovani studiosi e ricercatori: sotto la sua guida iniziarono a svolgere ricerche in ambito demologico, fra gli altri, Nevia Grazzini, che si occupava della tradizione della befana, Gabriella Pizzetti, impegnata in ricerche sulla fiabistica, Pompeo Della Posta, che in quel periodo produsse una ricerca esemplare sulla caccia con insidie nel grossetano [6].
Le narrazioni di tradizione orale, i blasoni popolari, la devozione religiosa, le pratiche scaramantiche rappresentavano nelle ricerche di Roberto Ferretti una chiave di lettura della società. Egli aveva la capacità di osservare fenomeni sommersi, di far emergere memorie lontane, quasi completamente scomparse: la “residua tradizione orale”, secondo la sua stessa definizione. Un aspetto importante della modalità di approccio di Ferretti alla ricerca, è costituito dal particolare rapporto di intimità che egli riusciva a stabilire con i suoi interlocutori. La sua può essere definita come una “partecipazione emotiva” alle loro condizioni di vita. Quella partecipazione rappresentava in realtà il profondo rispetto che Ferretti riservava ai suoi informatori, il suo coinvolgimento nel loro mondo emotivo. Un altro aspetto che Ferretti sembra avesse compreso in anticipo è l’impossibilità, per il ricercatore, di apparire come una entità del tutto neutra e trasparente, come se non facesse parte della scena.
Ferretti ha raccolto una notevole quantità di materiale, con lucidità ha rintracciato le tessere di un mosaico di cui sembra conoscesse a priori il disegno, perfino nei particolari. Nei suoi scritti si individua, nel tempo, un accostarsi progressivo a differenti impostazioni teoriche: i diversi autori con i quali usava dialogare. Negli scritti del primo periodo si nota la tendenza a una interpretazione dei fenomeni folklorici dominata da un’impronta frazeriana. Le figure mitologiche del mondo agricolo costituiscono, nei suoi studi, presenze attive nel territorio; i santi e i martiri cristiani risultano essere mutazioni di divinità pagane preesistenti. Oggetto delle sue ricerche sono le esili tracce di antichi culti e di riti sacrificali, attenuate dal tempo ma non ancora scomparse del tutto, la memoria degli antichi culti degli alberi e delle rocce, le dimore di antichi dèi e di personaggi mitologici.
Un autore cui Ferretti ha fatto riferimento, più o meno esplicito, è Ernesto de Martino [7]. Nei rilevamenti sulle pratiche scaramantiche, Ferretti rinveniva, in Maremma, historiole nelle quali si può riscontrare un’analogia con quelle rilevate in terra lucana. Nei suoi scritti non mancano riferimenti al Ramo d’oro di Frazer, alle Radici storiche dei racconti di fate di Propp, alle Osservazioni sul folklore di Gramsci. Egli cercava di gettare una luce interpretativa su alcuni riti rilevati nel grossetano, più o meno infiltrati da elementi cristiani, come l’usanza di raccogliere l’umidità della notte da determinate piante a scopi augurali, scaramantici e curativi, o la pratica di “legare le febbri” in un luogo lontano dall’abitato, recitando una formula che le avrebbe “imprigionate”, liberandone la comunità degli uomini. Nelle ricerche intorno al fenomeno collettivo del quale è riuscito a rilevare aspetti oppositivi in diverse località del grossetano, come il carnevale, e in altri scritti dedicati al teatro popolare, o ai riti del fuoco, Ferretti sembra dialogare con autori come Jung, Kerenyi, Propp. Di notevole importanza sono i suoi studi sulla fiabistica, di cui ha individuato tipi e motivi che sembrano collocarsi ai margini della “tassonomia” delineata dagli indici di Aarne e Thompson [8].
La ricerca svolta da Roberto Ferretti in Maremma risulta orientata al rilevamento dell’immaginario che sebbene sia riferito a pratiche del fare, esula dalla magia e dalle azioni stregonesche. L’oggetto della ricerca di Ferretti è il sistema delle conoscenze che potremmo definire “puramente intellettuali”, libere dall’agire pratico [9].
In questo ambito, la novità introdotta da Ferretti è stata quella di accedere a un’ampia gamma di materiali di tradizione orale, dalle vere e proprie leggende alle narrazioni sul vissuto, agli aneddoti, mentre gli studi più accreditati si limitavano prevalentemente alla fiabistica classica e ai testi scritti. Per i suoi studi sulla fiabistica, Ferretti ha potuto accedere a un’ampia gamma di materiali di tradizione orale, andando ben oltre l’analisi dei testi scritti. Ferretti ha raccolto materiali eterogenei, ha documentato i differenti aspetti in cui si esprime la cultura popolare, dai residui di antiche pratiche religiose, come quella dei flagellanti, al millenarismo del movimento giurisdavidico amiatino, all’uso del canto e della poesia popolare; dalle fiabe ai balli tradizionali; dal teatro popolare (i bruscelli, la befanata, la maggiolata, o maggio lirico) alle pratiche magiche e scaramantiche, percorrendo il territorio maremmano, studiando i vari aspetti della cultura nelle loro relazioni con lo sviluppo economico e sociale, con le migrazioni di lavoro, l’assetto agricolo, i rapporti di produzione, la relazione urbano-rurale.
Estro giovanile
Era un tipo estroso, il Ferretti, anche da giovane. Aveva delle idee, le metteva in pratica e riusciva già, da studente liceale, ad avere dei seguaci. Ripetente di una classe del blasonato liceo classico grossetano “Carducci-Ricasoli” di via Mazzini, si trovò in classe con Flavio Fusi, che ne ricorda alcuni tratti, parlando di quel periodo in cui i giovani cominciavano a ribellarsi alle norme imposte dall’ambiente borghese dal quale provenivano, fra le quali la regola della continuità professionale fra le generazioni. Già a quell’epoca si manifestava quel suo spirito di animatore e trascinatore di folle (esigui, per la verità). Aveva dato vita a una sorta di confraternita, i cui aderenti avevano l’obbligo quotidiano di compiere almeno un gesto che fosse al di fuori degli schemi. Riferisce Flavio Fusi:
L’Oriente
Roberto Ferretti era stato più volte in Medio Oriente. Una di queste, forse la prima, risale al 1971, quando aveva 23 anni. Il 18 di luglio scriveva da Salkhade, in Siria, all’amico e compagno di partito Silvano; nella busta c’era l’indirizzo della sede grossetana del PSIUP.
Il contesto siriano nel quale si muoveva Ferretti nel 1971, poco più di mezzo secolo fa, sembra lontano secoli rispetto a quello odierno. La Siria faceva parte dell’Impero Ottomano dal 1516. Alla dissoluzione dell’Impero, nel 1922, la Francia ottenne dalla Società delle Nazioni il mandato sulla Siria e sul Libano, mentre il Regno Unito ebbe il mandato sulla Palestina. Nonostante i diversi tentativi di rendersi indipendente, la Siria restò sotto il dominio francese fino al 1946 e quando Ferretti l’ha visitata, nel 1971, si era da poco insediato il governo di Hāfez al-Asad. Attratto da quello che sembrava prospettarsi come un nuovo corso politico del grande Paese martoriato dalla dominazione e dalle lotte interne di potere, Ferretti sembrava affascinato soprattutto da una civiltà millenaria in cui cercava di rintracciare le origini di molti aspetti della cultura dei Paesi delle coste settentrionali del Mediterraneo. O se non le origini, le peculiarità, i tratti caratterizzanti. Alcune narrazioni raccolte da Ferretti in Maremma, ci portano proprio in Medio Oriente, dove finisce la bellissima ragazza rapita dai corsari [11], o dove volano, con un barchino da pesca, le streghe scoperte dall’eroe culturale Peciocco [12]. Ma l’Oriente è anche l’attrazione di molti giovani del suo tempo. Quindi non più solo il luogo mitico perché evocato dalla narrazione fiabistica, ma il luogo mitico anche nella narrazione del «viaggio in India».
Il giornalismo
Il giornalismo di Ferretti è legato ai suoi studi, alla sua sensibilità, alla sua attenzione ai fatti del mondo, visti sempre attraverso la lente del demologo. Incarnava la capacità di interpretare attraverso lo stesso filtro i fenomeni narrati, e in quanto tali parti integranti della vita delle persone, insieme agli avvenimenti dell’attualità. Perché tanto la festa, quanto le narrazioni, il teatro popolare, l’aspirazione dei giovani all’esperienza esotica, la volontà e la necessità dei butteri di tutelare la propria immagine professionale, sono stati per Ferretti aspetti della realtà da prendere sul serio. Ma pareva necessario allontanarsi, vedere le cose da una certa distanza, confrontarle con quelle nuovamente avvicinate, per poterle interpretare. Originale era il suo modo di osservare i fenomeni sociali, la sua capacità interpretativa di una miriade di fatti, racconti, aspetti singoli di feste più complesse, profili di personaggi storici e il millenarismo religioso che essi rappresentavano, e tutto ciò di cui andava raccontando nelle pagine del quotidiano di cui era diventato collaboratore.
Un artista?
Ferretti fu anche un artista? A suo modo, sembra di sì. È questo un aspetto che mette bene in luce Aurora Milillo, sua relatrice di tesi all’università di Roma, in una relazione dal titolo: “Il binocolo e il magico puma”.
Un binocolo, quello di Ferretti, che è il binocolo della demologia, con una lente che avvicina le cose al ricercatore, e lo rende partecipe, lo coinvolge nella narrazione, lo incuriosisce e lo conduce lungo il percorso del suo gusto personale; e l’altra lente che allontana, e che quindi pone una distanza, che consente l’interpretazione, il confronto, la valutazione, il completamento di tabelle tassonomiche.
Ma registrare fiabe e altre forme di narrazione, intervistare su argomenti specifici, rilevare maggi, befanate e bruscelli, interrogare la storia recente, sono solo alcuni aspetti della ricerca di Ferretti. L’immagine proposta da Milillo, del binocolo con lenti a doppia focale, ricorda un libro di Lévi-Strauss: De près et de loin è infatti il titolo dell’intervista di Didier Eribon all’antropologo francese, pubblicata in Francia (Éditions Odile Jacob) nel 1988 (la traduzione italiana presso Rizzoli è dello stesso anno). L’anno di pubblicazione di questo libro, il 1988, è stato significativo, per me, per diverse ragioni: l’impegno citato in incipit, la nascita di mia figlia, la conclusione di una stagione di ricerca che ha costituito l’avvio di molte altre [14].
La prossimità e la distanza sono aspetti oppositivi e complementari, non solo nel modo di Ferretti di “osservare” il mondo, ma sono da adottare anche nell’osservare l’opera ferrettiana, come suggerisce Emilio Guariglia a proposito della sua opera grafica:
A suo modo poeta
Quella di Ferretti è una poesia che non si esprime attraverso le parole, bensì attraverso i disegni che tendevano a rappresentare (non in maniera “documentaria”, ma “poetica”, appunto) il tradizionale fissato nei nastri magnetici, nelle schede, negli appunti. I disegni di Ferretti costituivano la trasposizione dei documenti folklorici in un proprio sogno, in una sua autonoma interpretazione, che lo allontanasse dalla rigidità del documentare. È forse ridisegnando personaggi, ambienti, situazioni che aveva osservato, documentato, di cui aveva raccolto la narrazione, che Ferretti riusciva a proiettare la tradizione in un futuro possibile.
Per Ferretti l’attività del documentare aveva un aspetto basilare: era necessaria ma non sufficiente. Certo che l’aspetto di base, raccogliere e creare documenti, è indispensabile, anche perché costituisce, fin dalle origini della disciplina, la specifica caratteristica della demologia. Più che raccogliere fiabe, per Ferretti era importante raccogliere narrazioni. E soprattutto egli era interessato a narrazioni poco fiabistiche, perché proprio queste rappresentavano per lui l’anima della collettività. Individuava la variante locale atta a dare senso alla unicità periferica delle comunità. Egli riconosceva nelle narrazioni popolari (come anche nella festa, e in tutte le pratiche riferibili alle tradizioni popolari) una resistenza all’omologazione dei tempi moderni, un tentativo di affermare la propria identità e specificità, non come individui ma come gruppo. E accanto a queste forme di resistenza all’omologazione Ferretti riconosceva sincretismi: la presenza di elementi “propri”, “caratterizzanti”, insieme ad acquisizioni omologanti provenienti dall’esterno.
L’immagine ferrettiana delle comunità
Ritengo che Ferretti, se fosse vissuto più a lungo, avrebbe avuto modo di esprimere la sua teoria sull’interpretazione delle comunità, attraverso la tradizione che contraddistingue ciascuna di esse, che la lega al proprio passato, alla propria modalità d’essere. Descrivere qualcosa che sarebbe potuto accadere, ma per qualche ragione non è accaduto, si indica come “storia controfattuale”: è un po’ come ragionare coi “se” e coi “ma”, che la saggezza popolare dice perfettamente inutili. “Coi se e coi ma non si va da nessuna parte”: quante volte lo abbiamo sentito dire. Eppure io credo che sia almeno stimolante provare a tracciare una storia possibile, benché mai avvenuta. E questa storia riguarda ciò che Ferretti avrebbe potuto dire, fare, essere.
Il messaggio che Ferretti non ha avuto il tempo di esprimere più compiutamente, ma che traspare a una lettura attenta della sua intera opera, è che attraverso la tradizione le comunità designano se stesse, si rappresentano sia al loro interno che verso l’esterno. La tradizione costituisce una sorta di “carta di identità” delle comunità: una identità non è cristallizzata, non è data una volta per tutte, ma mutevole e in continua evoluzione. E Ferretti dimostra con i suoi scritti che questa mutevolezza, questa evoluzione, sta in rapporto al mondo, a ciò che muta e si evolve nel mondo.
Se noi non teniamo conto di questo, sembra volerci dire Ferretti, rischiamo di non comprendere e la tradizione, e la comunità, e la società più in generale. La crisi sociale delle città, dei grandi centri, ma anche di un modello di sviluppo che porta all’alienazione, all’anomia, sta tutta in questa problematica del rischio di perdita dell’identità. Ecco quindi le ragioni e lo scopo per cui Ferretti si rivolge alla registrazione di narrazioni, che non sono solo le fiabe classiche, ma sono le varianti locali, le narrazioni di vita quotidiana, il recupero di personaggi storici o comuni, rimodellati secondo l’esigenza della comunità e del momento; o alla riproposizione di feste e di musiche tradizionali, o l’appropriazione di musiche e testi commerciali, ma che le comunità fanno diventare proprie e quindi reinseriscono nella propria tradizione. Quella tradizione che, di nuovo, le identifica e le caratterizza.
Allora il mio invito è quello di considerare che il discorso di Ferretti non è la raccolta di fiabe e documenti folklorici per un gusto antiquario da collezionista, o la ricerca di forme di vita desuete ma suggestive, rappresentate da vecchie e nuove feste tradizionali: è invece la volontà di comprendere il senso profondo delle comunità che esprimono le proprie narrazioni, che esplicano, perpetuano, trasformano le proprie tradizioni, per opporsi alle modalità svilenti e alienanti del mondo contemporaneo, e per vincere il rischio del perdersi in esso.
La rappresentazione della morte nella ricerca di Roberto Ferretti
Nonostante la brevità della sua vita, la produzione di Ferretti è stata copiosa. Quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario della sua morte, e la morte è stato uno degli argomenti che ha affrontato nel corso della sua carriera di ricercatore. Propongo perciò una lettura della morte incontrata da Ferretti nelle sue ricerche su due fenomeni tradizionali rilevati in Maremma, e di seguito alcune considerazioni di approfondimento.
La morte nella festa
La morte è rappresentata, negli scritti di Ferretti, dal Carnevale di Porto Santo Stefano, con le sue “maschere sciornie”, un carnevale che non ha uguali nel resto del territorio grossetano, e di cui troviamo qualche analogia solo in alcune in forme carnevalesche del sud d’Italia.
Un aspetto, quello delle maschere di Porto Santo Stefano «impressionante», come lo definisce Ferretti, tale da generare un senso di angoscia, nel vedere «goffe creature che si muovono disordinatamente o secondo dei criteri incomprensibili». Per i loro spostamenti usa il termine, adeguato per gli insetti, ma che anche in questo caso rende particolarmente bene l’idea, di “sciamare”: «sciamano a gruppi […] si uniscono e si dividono, importunano i passanti». L’identità dei personaggi è completamente celata, sia dagli “indumenti” (chiamiamoli così) che dal parlare solo in un falsetto che simula una voce non propria e impedisce ogni riconoscimento.
La festa e la morte
Il “Carnevale Morto” di Marroneto, villaggio di boscaioli prossimo a Santa Fiora, circondato dal bosco di castagni da cui deriva il nome, è una tradizione interrotta nel secondo dopoguerra e ripresa nei primi anni ottanta, secondo quanto riferisce lo stesso Ferretti [18]. Si tratta di una rappresentazione assai complessa in cui, fra i vari personaggi, la Morte gioca un ruolo importante. I suoi aspetti sono stati ampiamente illustrati da Ferretti nel testo indicato in nota e al quale si rimanda per ogni eventuale approfondimento. Mi limiterò qui a una descrizione sommaria. Si tratta di una vera e propria piece di teatro popolare in cui intervengono personaggi fissi e azioni ripetitive, riprodotte sostanzialmente allo stesso modo di edizione in edizione. Fra i personaggi e le azioni compiute, il Carnevale e l’amico Gaudiente, organizzatore della festa, la Quaresima, il Crumiro, la Compagnia dei Gobbi, il Prete, talvolta accompagnato dal Sagrestano, il Notaio, il Dottore, in alcuni casi accompagnato dall’Infermiera. Prendo dal testo di Ferretti le azioni che si svolgono:
Al di là dell’estremo resoconto delle azioni e dei personaggi, ciò che mi interessa, ai fini di questo scritto, è un’ultima considerazione sulla morte. Scrive Ferretti:
Il Carnevale è simbolo della vita, della gioia, del divertimento. La sua morte è ineludibile a Marroneto, ma è anche la metafora di tutto ciò che è caduco su questa terra. Tutto ha un termine, e soprattutto, ha termine la vita umana. Questa è, a mio avviso, la lezione della Morte del Carnevale di Marroneto (cerimonia che però un tempo aveva una più ampia diffusione, non solo fra i paesi dell’Amiata). E non serve il pianto di Gaudiente, convinto dell’eternità del Carnevale, accompagnato dalla laconica musica dell’orchestrina, le sue promesse e i suoi regali, affinché il Carnevale non muoia. Recita il suo triste canto:
e poi, come in un pianto:
Beni essenziali per la vita, quelli “portati” da Gaudiente, abiti per ripararsi dai rigori del freddo montano, e cibo.
E noi, ora, un po’ ricercatori, un po’ studiosi, un po’ appassionati di tradizioni popolari, di feste e di canti, di piazze, di campanili, di storie raccontate, noi un po’ distaccati e un po’ engaged, vorremmo dire:
Perché hai vissuto?
A quale domanda stavamo rispondendo Piergiorgio Zotti e io, con quella dichiarazione programmatica? La morte di Ferretti aveva lasciato un vuoto nella città di Grosseto, ma in modo particolare precipitava nello sconcerto la piccola comunità che si era formata intorno a lui. Per questo vorrei provare ad analizzare la condizione che si era venuta a creare, aiutato dal ragionamento di Francesco Campione, uno studioso che si occupa proprio delle problematiche della morte e del lutto.
Teorie del superamento della crisi
Si osservano tre fasi nel comportamento di chi ha subìto una grave perdita: dopo una prima ricerca della persona scomparsa, c’è una fase in cui dominano i sentimenti di allarme, rabbia, colpa, depressione, seguiti dall’allentamento dei legami con la persona cara, preludio del formarsi di una nuova identità e dell’istaurarsi di nuovi legami. La psicologia ha formulato tre teorie per l’interpretazione del lutto e del superamento della crisi dovuta alla sopravvenuta assenza di una persona cara: una teoria biologica, una teoria psicoanalitica e una teoria esistenziale.
Secondo la teoria biologica la morte recide il legame e mette a rischio la sopravvivenza del soggetto; il lutto tende a risolvere il problema della sopravvivenza non più assicurata. La persona in lutto si comporterebbe, secondo la teoria biologica, come l’animale che si mette alla ricerca dello scomparso, come per accertarsi della sparizione, cercando però ogni possibile recupero della perdita. Seguirebbe a questo un senso di minaccia e di frustrazione nella sopravvivenza, seguito da una presa di distanza da chi non è più disponibile per gli scopi della sopravvivenza e infine un adattamento alla nuova situazione.
La teoria psicoanalitica invece vede il soggetto alla ricerca della persona scomparsa come la negazione della perdita. Pur nella consapevolezza della perdita, c’è la tendenza alla negazione, la ricerca avrebbe un valore difensivo nei confronti della propria stessa consapevolezza. Come se il soggetto volesse negare a se stesso che sa di aver subìto la perdita. I sentimenti di rabbia, colpa, depressione che subentrano, danno luogo all’individuazione di un bersaglio fuori di sé cui dirigere l’aggressività che ne deriva. La perdita subita, di conseguenza, viene riparata attraverso il far rivivere dentro di sé l’oggetto d’amore perduto, la morte esterna può essere accettata, con l’introiezione della persona cara scomparsa, liberando il soggetto per nuovi investimenti affettivi. «Insomma – afferma Francesco Campione – per la teoria psicoanalitica del lutto, la perdita si supera attraverso la riparazione, quando cioè si fa rivivere dentro di sé […] la persona cara morta» [22].
La teoria esistenziale
Si dice che il dimenticare è opera del tempo, ma, afferma Benedetto Croce, non si può attribuire un’azione a un essere che non esiste. È infatti nel tempo che le azioni si svolgono, ma non è il tempo che le compie. Siamo noi, continua Croce, che dimentichiamo. E tutti viviamo il dolore allo stesso modo. Francesco Campione, dal cui testo prendono spunto queste considerazioni, cita un passo di de Martino, che a sua volta si rifà a Croce:
Nell’ottica esistenziale, al di là del fatto che il rifiuto di prendere atto della morte venga connotato come «follia», lo scopo del lutto è dimenticare, piuttosto che adattarsi a nuovi attaccamenti o ripristinare nell’interiorità ciò che è passato nella realtà esterna. È il senso della vita che entra in crisi con la morte: non la vita intesa in senso biologico, né soggettivo, ma quel concetto di vita fornita di senso, edificata culturalmente con la storia e nella storia.
La morte delle persone care deve passare nel valore, i morti non devono essere fatti vivere in noi, ma fatti morire in noi culturalmente.
La teoria biologica e la teoria psicoanalitica sono appropriate a questo tempo, mentre la teoria esistenziale raffigura quel tempo in cui si sapeva come “far morire” in noi, culturalmente, i nostri cari. Il rapporto fra le prime due teorie e questa terza rappresenta la contraddizione tra una cultura che tende a non comprendere il problema del senso della vita e un individuo che invece deve porselo, se vuol vivere. L’uomo evocato dalla teoria biologica è un uomo che di fronte alla morte non può dimenticare, perché è sul biologico che basa il suo attaccamento, come se non si accorgesse del tempo, della storia; quello evocato dalla teoria psicoanalitica non può ricordare, perché per lui il passato non è mai passato, ma un eterno riviverlo. Questo individuo percepisce i suoi cari estinti come sempre, lì presenti con lui. Per lui sarà terribile pensare al momento del trapasso, come sarà altrettanto cruda la percezione dell’assenza, perché considera l’estinto sempre presente con sé.
Sono sempre più frequenti, afferma Campione, i casi in cui il lutto segue un percorso patologico. In sostanza sono lutti irrisolti. Bisognerebbe dimenticare, ma per questo è necessario un armamentario culturale, perché né biologicamente, né psichicamente, l’uomo è dotato dello strumentario giusto, che invece è culturale. Attraverso la cultura l’uomo dovrebbe ritrovare la condizione non di dimenticare i propri cari, ma di essere nella condizione di poterlo fare, perché i morti non siano più presenti, e possano essere ricordati, cioè collocati nel passato.
Il deserto dello spirito
La ritualità aiuta nella percezione del trapasso, del senso di abbandono che provoca la crisi esistenziale, che si tratti del pianto rituale oppure della mestizia che avvolge il corteo funebre. Questa ritualità ha lo scopo di fissare il punto, di accertare la perdita, ma ha anche un effetto di storicizzazione: fissare l’esistenza di chi è trapassato in un arco temporale, nella storia, prendere atto che si tratta di un tempo. Varie sono le forme di ritualità di fronte alla morte, e si potrebbe dire che ogni comunità adotta la propria: cerimonie religiose si accostano e si oppongono alle cerimonie laiche dei non credenti; mentre in ambito privato, secondo l’interpretazione della teoria psicoanalitica, la conservazione degli oggetti di chi è trapassato o il mantenimento della sua stanza come se ci fosse ancora, pur tendendo a riempire il vuoto lasciato, in realtà perpetua l’assenza, provocando il deserto dello spirito.
Si tratta di strategie per superare il dolore della perdita, per scongiurare il rischio della perdita di se stessi. Plasmare affetti, comportamenti, gratitudine, speranze e certezze che l’estinto mobilitò in noi finché era in vita, o facendo nostra, continuando e accrescendo la tradizione di valori che quello rappresentava.
Ma per dimenticare è necessario un passaggio, una delle tante forme di ritualità possibili. Manipolare gli oggetti che furono i loro, che ci furono lasciati, è una delle modalità, forse la più usata. Completare l’opera, raccogliere l’eredità morale, nella consapevolezza che fra noi superstiti non c’è più il nostro caro, è il passaggio culturale che dà senso alla vita, a quella estinta e a quella che si estinguerà. Affinché ciascuno di noi possa lasciare detto, a chi resta, la ragione per cui ha vissuto [28].
Lo spazio dei morti
Ragionando sugli spazi dedicati ai morti e alla separazione di questi dagli spazi dei vivi, citando Heidegger e Merleau-Ponty, Adriano Favole fissa alcuni punti che mi paiono importanti.
Se il corpo vivo risponde a una “spazialità di situazione”, che è ciò che lo differenzia dagli oggetti, che invece rispondono a una “spazialità di posizione”, il corpo che non è più vivo si pone in una condizione ancora differente, in qualche modo simile a quella del corpo inanimato, dell’oggetto, ma anche con caratteristiche di spazialità di situazione, perché chi è morto non cesserà mai di restare accanto ai vivi, finalmente storicizzato, in un nuovo e sempre mutevole contatto con i vivi. O per meglio dire, i vivi continueranno ad averlo presente. Ci sarà un luogo fisico in cui risiede il corpo, ma ci saranno anche luoghi diversi, fissi o mutevoli, fisici o non fisici, di una presenza ulteriore.
Pare necessario fissare nello spazio ciò che è avvenuto nel tragico istante del trapasso. Le strade (particolarmente le strade secondarie, non le autostrade) che sono un luogo di morte, sono punteggiate di altarini che ricordano l’evento in cui qualcuno ha perso la vita. C’è evidentemente la necessità di rappresentare l’evento infausto nel luogo in cui ciò si è verificato. In caso di morte violenta, e particolarmente se si tratta di incidente stradale, il luogo in cui è avvenuto (benché in alcuni casi la morte sopraggiunga più tardi, in altro luogo, ad esempio in ospedale) viene segnato.
Questo segno corrisponde a un “altarino”, può essere una semplice croce con il nome, talvolta anche nella forma minima di una croce di legno conficcata nel terreno, e progressivamente oggetti più elaborati e duraturi, fino al manufatto in pietra. In alcuni casi si trovano piccole lapidi, anche con la fotografia, talvolta è riprodotto un piccolo tumulo d’inumazione, come a rappresentare la tomba stessa. È raro che questi “altarini” restino privi di un fiore, o che per lungo tempo non ricevano attenzioni e manutenzione, come invece capita talvolta di notare a proposito delle tombe o dei loculi nei cimiteri.
Un altro luogo dei morti è il sogno. Non si tratta di un luogo fisico, in questo caso, ma di un luogo che sta dentro di noi. Nel sogno i morti ci parlano, compiono con noi i gesti della vita quotidiana, “rivivono” se così si può dire, le esperienze passate insieme a noi, risolvono conflitti o li affrontano senza risolverli. L’esperienza onirica è spesso legata alla presenza dei nostri cari trapassati. Se una grossa fetta dell’analisi psicanalitica è basata sull’esperienza onirica, c’è ancora molto da esplorare, dal punto di vista antropologico, sia rispetto al sogno che rispetto alla morte.
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