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Sardità e cliché: il caso de “L’uomo che comprò la luna”.
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2021 @ 02:01 In Cultura,Letture | No Comments
Il processo di adozione di tecniche narrative che dalla letteratura traslano al cinema rappresenta un meccanismo di presa in prestito e restituzione su cui si basa il reciproco condizionamento tra pellicole e lettere. Nonostante l’avvio della Commedia all’italiana, sopravvive la linea pre-neorealistica della regionalità di colore in cui s’impone il desiderio di riscatto socioeconomico delle classi meno abbienti. Lingua italiana, dialetti, italiani regionali si alternano, si incrociano, si mischiano per tutta la storia filmica italiana e in tutti i generi cinematografici: ogni qualvolta si ponga il problema della lingua, fioccano volitive riflessioni sulla marginalità sociale e scaturiscono interessanti considerazioni sui dispositivi mediatici, il modus operandi e le effettive chances di immortalare in toto una specifica realtà (Patota-Rossi, 2017: 29), esaltandone l’espressività, talvolta anche velata, ma soprattutto l’impiego di quei registri artefatti volti a propagandarla, frutto della semiologia naturale (Pasolini, 1972: 232).
A partire dagli anni Cinquanta si possono distinguere due principali rami linguistici nella produzione cinematografica d’Italia: l’italiano impeccabile e l’italiano regionale, entro cui vengono fissati stereotipi espressivi che determinano, nell’immaginario collettivo, una corrispondenza tra dialetto e caratura dei personaggi. La riscoperta dei dialetti e l’impiego di tutti gli italiani regionali, da quelli settentrionali a quelli meridionali ed isolani, sembra essere la cifra stilistica e linguistica della nuova generazione di registi, sensibile alla rappresentazione realistica delle ingarbugliate maglie del tessuto sociale e dei problemi di un’Italia in continuo divenire.
Fino agli anni Settanta del secolo scorso la rappresentazione delle varietà dialettali con un certo realismo è piuttosto scarsa [1]: i progressi in ambito tecnologico consentono un maggior realismo e la possibilità di mantenere inalterate le voci e le inflessioni dialettali degli attori, garantendo maggior immedesimazione da parte dello spettatore. All’interno di questa nuova generazione di autori trovano posto i sardi G. Columbu, G. Cabiddu e S. Mereu, antesignani di un nuovo “modo di fare cinema” in Sardegna, sensibile ai cambiamenti sociali e al sempre più intricato rapporto fra tradizione e modernità: le loro creazioni offrono un’occasione di riflessione sulla nuova emergente consapevolezza linguistica e sull’impiego della lingua sarda nel cinema.
Nel 1899 la Sardegna conosce i primi filmati che riproducono immagini in movimento: tema principale è la visita dei Reali, Umberto I e la consorte Margherita. In pochi minuti è ricompresa la cronistoria dell’inaugurazione sassarese del monumento di Vittorio Emanuele, nonché la visita ad una miniera e la storica cavalcata in costume. L’episodio viene immortalato dai Lumière nel documentario dal titolo “Voyage du Roi Humbert Ier en Sardaigne”, il primo mai ideato in Sardegna, di cui si genera una copia, successivamente consegnata alla Cineteca Sarda. La visita dei sovrani rappresenta non solo il primo viaggio di un re in Sardegna, ma soprattutto un simbolo di benevolenza e continuità nei confronti dell’Isola e del Regno di Sardegna. I filmati mostrano una terra remota, selvaggia, ma al tempo stesso civile ed austera, impregnata di tradizioni religiose e folkloristiche.
Dopo questo primo cortometraggio, la Sardegna comparirà sullo schermo nei primi anni del XX secolo, in documentari oramai perduti, di cui conserviamo solo i titoli: “La Sardegna: usi e costumi”, “Piccoli mestieri del mare”, “Briganti in Sardegna”. Dagli anni Venti si moltiplicheranno le occasioni di visite di reali e le inaugurazioni di opere pubbliche come le grandi bonifiche agrarie e la fondazione di nuove città, che verranno immortalate in documentari come Mussolinia (1932), incentrati sulla fondazione della nuova città in provincia di Oristano, in seguito all’edificazione di una grande diga nel bacino del fiume Tirso [2].
Nel primo periodo il cinema sardo è muto e popolato da film tratti da romanzi e novelle della Deledda, prototipi in cui l’Isola può esaltare al meglio i propri usi e costumi, i paesaggi e le tematiche: il cinema deleddiano annoverava l’Isola tra le periferie italiane degne di essere esplorate con la macchina da presa. Nonostante ciò, la mancanza di una vasta e alta filmografia ci induce a classificare gran parte delle trasposizioni deleddiane come “minori” nell’ambito del cinema italiano di matrice letteraria (Mereu, 2005: 260). All’interno di tale panorama culturale, le opere della Deledda si rivelano interpreti della cosiddetta “vera Sardegna” (Edwardes, 2000: 72): la zona barbaricina, considerata la più pericolosa, chiusa e arretrata, la quale forniva un’ampia silloge di personaggi e situazioni che corroboravano l’icona di una terra fuori dal tempo e dalla storia, dominata da una stirpe barbarica assimilabile allo stereotipo del primitivismo meridionale (Olla, 2008: 21), entità ignota ed incognita misteriosa, attraversata dal forte senso dell’onore e della vendetta, ben distante dagli standard della civiltà europea, ma con un grande rispetto per l’ospitalità (Urban, 2011: 51) [3]. «Chi avesse osato avventurarsi nel cuore dell’Isola, si sarebbe trovato di fronte un paesaggio ancora vergine, ricoperto da montagne meravigliose, popolate però da banditi feroci saldamente trincerati fra le rupi scoscese e impossibili da stanare» (ivi: 52) in cui precostituite caratteristiche venivano associate a specifici tratti genetici degli indigeni che ne confermavano il topos.
La geografia è, dunque, l’allegorica chiave di lettura del mondo sardo: gli abitanti sono l’incarnazione di un’umanità alla stregua della primitività e ferinità [4]. Rispetto alle altre regioni meridionali la Sardegna è nettamente separata dal resto del territorio italiano, fattore che conferma la convinzione dell’esistenza di due realtà opposte e inconciliabili: l’Isola e lo stivale, emblema della dicotomia Nord-Sud che genera una serie di concetti antitetici, come antico e moderno, primitivo e progredito che ne connotano stilemi distonici e stranianti. I luoghi comuni proseguono fino agli anni Sessanta, in cui monta l’attenzione cinematografica nei confronti dell’Isola, specie in ambito socio-antropologico [5] laddove il mondo arcaico ed incontaminato trae forza dalla grande sensibilità delle immagini evocative nel ritrarre un paesaggio naturale ed umano.
L’arco temporale che va dai primi anni Novanta sino ai giorni nostri, è caratterizzato da un susseguirsi di fenomeni innovativi, che conducono la Sardegna ad un grande successo, tanto nella letteratura contemporanea, quanto nello scenario cinematografico. L’aspetto rilevante è l’emergere di un gruppo di autori e cineasti, espressione della realtà locale, che raccontano, per la prima volta, la Sardegna attraverso uno sguardo interno, scevro da pregiudizi: in seguito a decenni in cui è stata oggetto di processi di annientamento e depotenziamento, la lingua sarda inizia ad essere utilizzata come veicolo del DNA.
La nuova stagione cinematografica è caratterizzata da una forte esigenza di autorappresentazione, tangente che chiarisce determinate scelte registiche ed implica un approccio ricco ma difficile all’universo da rappresentare. La Sardegna riconquista, così, la propria dimensione geografico-culturale, come proprio dei loci amoeni: nuovi fronti di interesse, nuovi espedienti narrativi mirano a rivitalizzare spazi ormai dimenticati [6], pronti ad essere raccontati cinematograficamente in prima persona, dopo essere passati, per anni, nelle mani di altri.
Il nuovo fenomeno cinematografico esordisce con due importanti lungometraggi: “Visos” (1984) di G. Columbu e “Tempus de baristas” (1993) del regista etnografo D. MacDougall, che inaugurano il periodo della dialettalità espressiva e riflessa. Entrambi presentano elementi innovativi per l’epoca: il titolo in sardo, l’uso di varietà locali sarde da parte di attori non professionisti e il proposito di avvalorare la fisionomia di realtà sociali e culturali in fieri. Si comincia a respirare l’atmosfera della Nouvelle vague [7], un boom letterario, una sardinian wave, un Rinascimento sardo, con cui si profila l’ultima generazione di autori, intellettuali o artisti di varia provenienza, i quali inaugurano una fertile produzione culturale destinata a coinvolgere l’intera Isola. Gli autori, manifestano una maggiore sensibilità verso tematiche e realtà precedentemente minimizzate, con la consapevolezza di voler rappresentare la propria terra, oltrepassando i limiti degli stereotipi e riscontrando un sorprendente entusiasmo del pubblico nazionale.
E, se è vero che i sardi hanno lasciato una traccia nel campo architettonico o pittorico, ma mai in quello della scrittura e creazione letteraria (Marci, 1991: 9), tale considerazione ha condotto ad ulteriori osservazioni circa l’ermeneutica dell’aggettivo “Nouvelle”: da un lato è da intendersi come conseguenza dell’eclatante successo ottenuto dagli autori sardi sulla scena nazionale (fenomeno commerciale ed editoriale), dall’altro si configura come aggettivo contrapposto ad un ipotetico, vecchio e superato passato oscuro. Si mostra una grande cura per l’origine isolana, soprattutto cagliaritana, muovendo i primi passi dall’entroterra alle coste del mare, per lungo tempo trascurate: il ritrovato interesse per l’orizzonte marino e per la città di Cagliari, non si può interpretare, anche in questo caso, come autentico elemento di novità: S. Atzeni è l’autore che, attraverso “Bellas Mariposas” e “Il quinto passo è l’addio”, incentra la sua narrazione sulla meravigliosa città natale, con una descrizione dettagliata dei suoi quartieri, lo spirito che anima il suo popolo e il respiro del suo mare.
L’aspetto linguistico della “Nouvelle vague” costituisce un’ulteriore tappa nell’evoluzione della narrativa sarda in termini espressivi, con un particolare focus sul mélange sardo/italiano. La spiegazione del successo, riscosso dall’impiego di diverse varietà dialettali, si potrebbe ricondurre ad un calo dei pregiudizi su di esse, in un contesto in cui il dialetto non è più un delitto [8]. Si tratta, piuttosto, di una spia che illumina la maggiore sicurezza e disinvoltura linguistica raggiunta, una riproduzione nella scrittura letteraria, trasformata in tessuto linguistico cardine delle condizioni di vita sociolinguistica dei dialetti, spesso impiegati nel parlato in un continuo mixing che annulla le linee di demarcazione tra italiano, italiano regionale e dialetto (Lavinio, 2005: 157).
“L’Uomo che comprò la luna” è l’ultimo punto di arrivo del viaggio attraverso gli stereotipi sulla sardità, smussati e demonizzati, ammantando un vernacolare ritratto del popolo sardo, inanellato, come in un serico arazzo, con un profondo ed intrinseco movente, disvelato solo nel finale. Il film è un onirico road movie uscito nelle sale cinematografiche il 4 aprile 2019 con la distribuzione di Indigo Film, sviluppato tramite un ragionato susseguirsi ed accavallarsi di generi, dalla commedia al dramma, dal realistico al fantastico, dall’intrigo al western.
Il ruolo principale è affidato a J. Cullin che impersona un soldato dal bislacco nome Kevin dalla marcata cadenza milanese che cela la propria identità sarda: in realtà si chiama, infatti, Gavino Zoccheddu e porta la Sardegna nel suo cuore, anche se, inizialmente, lo ignora. Nel cast, con il ruolo di Badore, troviamo anche uno dei volti comici sardi più noti, B. Urgu, una figura significativa nella storia della commedia sarda che domina tutta la prima parte del girato con una interpretazione magistrale della personalità sarda [10] durante le lezioni di sardità allo spaesato Kevin.
S. Fresi e F. Pannofino, rispettivamente con i nomi di Pino e Dino, interpretano una coppia di agenti segreti che ricevono una soffiata sull’apparente furto della luna che pare qualcuno abbia confiscato, scatenando le ire dei legittimi proprietari americani, forti dell’allunaggio nell’estate del ’69. Il film è un vernacolare viaggio immerso in una serie di avventure picaresche, in una Sardegna rurale sui generis, tra capre, pecore e pastori, tra reticenze e misantropia, un’opera omaggio che il regista P. Zucca ha voluto sintetizzare nell’originalità: il suo impianto drammaturgico ricalca le strutture del romanzo di formazione, in cui si racconta la crescita interiore di un eroe picaresco [11], verso la scoperta e la riappropriazione di una cultura, di una storia e di un sistema di valori “altri”.
Si tratta, dunque, di un viaggio fisico, in grado, però, di cambiare gli orizzonti interiori, metafora emblematica di un cambiamento emotivo. Il regista cagliaritano, già autore del film “L’arbitro”, conferma di conoscere bene la sua terra, quella di Eleonora D’Arborea e di Gramsci, guidando lo spettatore lungo le grandi distese di roccia calcarea bianchissima e piena di crateri, proprio come la luna, che si trovano sulle coste sarde con una storia semplice e fantastica, surreale e poetica, per aspera ad astra o, forse, per aspera ad lunam. La superficie lunare appare come una visione mistica, aleatoria, abitata dai più grandi eroi che hanno solcato la storia della Sardegna, come ideato dalle co-sceneggiatrici B. Alberti e G. Cucciari.
Nei diversi scambi dialogici del film, si riscontra una commistione di tratti logudoresi e campidanesi, le due macro-varietà regionali della Sardegna, con le quali i personaggi vengono connotati: Badore usa tendenzialmente il logudorese e anche Gavino, talvolta, sembra alternare le due varietà, anche se gli scambi sono così brevi che risulta difficile riconoscere una precisa varietà. Gavino utilizza l’interiezione “Emmo” (‘Come no!’), tipicamente centro-settentrionale, dal significato affermativo e rafforzativo; Badore domanda al suo allievo quale sia la sua “zenìa”, cioè provenienza, parentela; Gavino dice di provenire dal “Continente”, cioè da una regione diversa dalla Sardegna [13]. La lingua assume il forte valore identitario che contraddistingue i nativi di Sardegna ed è utilizzato in momenti topici del film come nel gioco de sa murra [14] in cui gli attori pronunciano i numeri marcatamente in sardo:
La lingua locale entra laddove è impossibile impiegare altri codici: nel gioco della murra è abitudine usare il dialetto (uso della lingua obbligato dal contesto) ma sono comunque presenti le agevolazioni per la comprensione dei dialoghi mediante traduzione italiana nei sottotitoli [17].
Un ulteriore caso di studio è il turpiloquio, mezzo adibito a cristallizzare il dialogato sardo in maniera stereotipica: da una parte tale rappresentazione conferma quanto messo in luce in alcune indagini sociolinguistiche condotte in Sardegna, nelle quali è emerso che nelle situazioni comunicative meno controllate o più “emotive” le parlate locali vengono spesso adoperate anche in città, almeno fra le persone non molto istruite; d’altra parte, però, all’interno del film sembra che si voglia fornire l’immagine stereotipata del duro maschio sardo per il quale è quasi normale rivolgersi così tra pari: è il classico modo del contrapporsi tra straniero e sardo che culmina in un fastidio verso gli “altri”, evocando sia l’atteggiamento patriottico che il frazionamento campanilistico.
Tra i principali caratteri dell’italiano parlato in Sardegna si evidenziano i fenomeni linguistici reperibili nelle principali varietà di sardo, trasferiti di peso nell’italiano regionale: a questi fenomeni si possono ascrivere, sul piano fonetico, cadenze o intonazioni, abitudini articolatorie relative alla realizzazione di determinati fonemi dell’italiano. Sul piano grammaticale, si può ricordare l’uso esteso del gerundio nelle forme perifrastiche (sto leggendo) che, nell’italiano regionale popolare, assumono l’ausiliare essere (sono scrivendo) [18]. Sul piano lessicale, si possono citare alcune interiezioni caratteristiche quali “aiò”, incitativa per ‘dai, andiamo’; “mih”, per attirare l’attenzione su qualcuno o qualcosa; “bah!”, spesso alla fine di una frase, per accrescerne la forza illocutiva; “hi”, per esprimere stupore; l’iterazione “ohi ohi”, per esprimere noia o fastidio [19].
Nella conclusiva scena sulla luna tra tutti gli eroi che hanno meritato di stare lì, Gavino incontra suo nonno:
L’uso dell’allocutivo tronco Gavi’ entra nell’italiano regionale di Sardegna, fenomeno molto comune sia in logudorese che campidanese ma non esclusivo dell’Isola in quanto comprovato anche nei dialetti centro-meridionali (romano, pugliese, napoletano) ed insulari (siciliano):il fenomeno è ampiamente documentato dagli autori sardi, in particolare nel dialogato. Il sardo predomina anche nell’onomastica e toponomastica: di grande interesse è il nome di Badore (Salvatore) in quanto il suo significato potrebbe, qui, ricondursi al valore della missione che gli è stata affidata e che, attraverso una disamina più attenta, avrebbe come obiettivo ultimo quello di proteggere la Sardegna dall’attacco americano, qualora non si scoprisse il proprietario della luna.
Badore, mentore di Gavino/Kevin, è colui che può salvare la sua amata terra attraverso preziosi insegnamenti destinati a plasmare il finto soldato milanese in un sardo “doc” che porterà a termine una duplice missione, scoprire il proprietario della luna [21] e preservarne la custodia. Altro nome interessante è quello del suo alunno, Gavino, che conosciamo come Kevin per la scelta particolarmente alla moda, qui ridicolizzata, di ricorrere a nomi inglesi: l’abilità che mostra il regista nel riflettere sull’onomastica si può osservare nel passaggio Gavino > Kevin [22].
Per quanto concerne la toponomastica, le riprese del film si sono svolte in diverse città e località reali della Sardegna tra le quali Cagliari, Santu Lussurgiu, S’Archittu e San Salvatore di Sinis. Non mancano, però, toponimi fittizi, come il paese in cui si svolge la missione del soldato, Cuccurumalu [23], paesino sopra cui aleggia un’atmosfera sinistra, risultante della visione statunitense.
In definitiva, il film vuole insegnare ai sardi a non essere vittima di sé stessi, dei propri complessi di inferiorità, attraverso uno sguardo fanciullesco, che distingue il giusto dall’ingiusto senza filtri e sovrastrutture, uno sguardo che consente di ironizzare e giocare sul tema della sardità, senza che questo risulti offensivo per lo spettatore “diretto interessato”, per farsi beffe della propria stessa leggenda identitaria.
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