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Scotellaro. Una eredità incorporata
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2023 @ 02:57 In Cultura,Letture | No Comments
Quanta strada insieme
Nei primi anni 70, Scotellaro diventò per me un compagno di strada. Insegnavo Storia delle Tradizioni Popolari all’Università di Siena in un clima ancora vivo di impegno politico. Raccolsi con altri colleghi una serie di scritti e ne feci una dispensa in cui si metteva in scena l’epica delle lotte sociali del secondo dopoguerra [1] e dove si mostrava una via per studiare la storia delle tradizioni popolari non come nostalgia del passato, né come filologia o classificazione di tipologie, ma nel nesso con la storia sociale. Mi nutrivo e imparavo dagli scritti di Gramsci, di Cirese, di De Martino e in modo particolare di Scotellaro. Erano passati poco più di vent’anni dalla sua morte avvenuta quando aveva da poco superato la trentina.
Con Scotellaro ho avuto un rapporto intellettuale di natura non solo critica e storiografica ma di forte condivisione. Lo ho incontrato studiando i suoi scritti e tramite la memoria di Alberto Cirese, mio maestro di studi demo-etno-antropologici. Cirese non l’aveva conosciuto direttamente ma ne aveva capito la personalità al convegno di Matera del 1955 a lui dedicato. Cirese e Gianni Bosio, legati allora a Raniero Panzieri e a Lelio Basso, facevano parte di una sinistra radicale e socialista. Di Rocco condividevano la tradizione socialista oltre che l’importanza data alla ricerca sociale. In quegli anni l’area socialista era in competizione, a volte anche in conflitto, con lo stile e il centralismo del PCI. Con Cirese ho condiviso una parte del percorso nel PSIUP [2], per poi confluire, staccandomi da lui, nel Movimento studentesco e nella sinistra extraparlamentare.
Scotellaro era per entrambi, il mio maestro ed io, emblema di un’altra idea di sinistra. Priva di retorica, solidale, basata sull’iniziativa e l’autonomia delle classi subalterne. Al sopracitato Convegno di Matera, l’analisi di Franco Fortini (da me letta molti anni dopo) mi aveva molto colpito perché aveva analizzato Scotellaro con grande sincerità. Non aveva detto che era un grande poeta e aveva usato parole forti come ‘piccoli e tenaci roditori contadini’. La sinistra radicale di allora era severa, piena di ragioni critiche. Non era una sinistra identitaria in cui venivano esaltati i propri componenti e sminuiti [3] gli altri. La poesia non poteva essere da meno nella ricerca della verità. Infatti:
Credo che a queste parole Rocco avrebbe applaudito [5]. Molte poesie di Scotellaro hanno una densità spiccata tra linguaggi poetici del Novecento italiano e critica e antagonismo politico, oltre che una grande forza riflessiva e una costante ironia. Ho attinto molto dagli scritti sulla poesia di Fortini che era mio collega a Siena in quegli anni ’70 ancora carichi di lotte e di storia vicina.
Contadini del Sud [6] fu una scoperta: era un’opera che stava al centro del mio Olimpo di studi e di politica culturale del quale facevano parte Danilo Montaldi, Gianni Bosio, Franco Cagnetta e Danilo Dolci. La sua conoscenza mi fu trasmessa da Cirese che aveva compreso che l’opera conteneva in modo originale la vivace dimensione culturale dei subalterni (come si diceva allora), dava la voce alle culture altre, nasceva dall’ascolto. Mi sentivo molto in sintonia con quel modo di fare ricerca e col mondo col quale si metteva in contatto.
E poi. E poi mia madre era nata in Lucania, a Rionero in Vulture, anche se si trasferì a Portici [7] da bambina. Così la Lucania mi pareva una mia terra, anche se poco vista ma assai letta [8].
In questa dimensione, Cristo si è fermato ad Eboli di Levi [9] rappresentò per me una sorta di ricerca sul campo raccontata da un non antropologo, ma certo degna di avere un posto di primo piano in un manuale di antropologia. La sua ricerca fu particolarmente utile per la rinascita e la trasformazione degli studi italiani DEA [10] nel secondo dopoguerra. Al centro dell’opera di Levi spiccava il tema della autonomia delle culture e di quella contadina in particolare. Il pensiero di Levi era diverso dal ‘centralismo democratico’ del PCI e dall’idea che la classe rivoluzionaria fosse rappresentata solo dal proletariato mentre i contadini, pur se alleati, non avevano prospettiva di futuro. All’epoca sembrava che il futuro fosse prerogativa soltanto della classe operaia.
Tutto questo mi faceva essere ‘con’ Scotellaro, dentro il suo modo di sentire ed esprimere ansie, sentimenti, attese di un mondo contadino e paesano. Mondo che non appariva mai semplificato e acritico ma sempre rappresentato nelle varietà, nei disagi, nelle proteste senza speranza, negli anarchismi, nei millenarismi, negli individualismi.
Non posso dire di essere stato uno studioso di Scotellaro. I miei pochi scritti su di lui risentono molto del clima degli anni ’70. Clima che è difficile per ora capire interamente, ex post, e che percepisco come una frattura nella mia storia e in quella collettiva, un tempo in cui le autobiografie si spezzano, e ancora oggi i ricordi si confondono: tra le grandi assemblee liberatorie negli Ospedali Psichiatrici e il settarismo dei gruppi ultramilitanti, tra la scuola aperta ai genitori e il terrorismo. Resta per me una frattura traumatica la visione del corpo di Aldo Moro nel bagagliaio di una R4. È difficile riconnettermi col me stesso di allora. Così vado un po’ a tentoni.
Di Rocco sono stato un ammiratore, un lettore che si lasciava guidare: il mio approccio allo studio delle storie di vita è stato ispirato al suo esempio di ricerca delle diversità, alla scoperta dei racconti come chiave per capire la complessità e la ricchezza della società e della vita, rifuggendo da storie fittizie e imbellite con uno scopo politico precostituito,
Più volte ne ho riletto i racconti e le poesie, fino a che qualche frammento delle sue parole non è diventato quasi un mantra interiore per me:
o la figura di Ramorra e quel distrarsi al bivio, o anche
Versi che mi sono entrati nella memoria fino ad essere figure del mio stesso pensare e rappresentare le emozioni. Così come mi sono entrati dentro come esempi e come riferimenti negli studi sulle biografie le persone che animano il libro Contadini del Sud: il figlio del tricolore, il bufalaro, l’assessore socialista che si sposò tre volte, il De Grazia e la sua scelta religiosa come forma di cambiamento progressista.
L’Uva puttanella, testo autobiografico originalissimo anche per la scrittura, parla di un percorso da casa verso la vigna, e tutte le volte che lo rileggo ho l’impressione di compiere anche io lo stesso viaggio, tanto è significativo della dimensione sociale della riflessività e della memoria soggettiva. È un testo inquieto e privo di certezze che non segna l’immedesimazione nella prospettiva dei contadini. Scotellaro se ne distanzia ma anche per questo il suo impegno si fa più responsabile e insieme faticoso nel ricercare punti comuni e per alimentare il suo spirito di servizio verso di loro. Spesso ‘ i piccoli tenaci roditori contadini’ sono seccanti e noiosi e riescono a mettere in discussione il suo stesso equilibrio. Le pagine dedicate a coloro che con lui condividevano il carcere sono momenti riflessivi, allo stesso tempo di distanza e di vicinanza, di interpretazione mescolata ad un sentimento di pietas, di tattica della relazione e di tecnica della comprensione, di una socievolezza sempre impegnata sui confini della moralità.
Anche se da tempo non ho più scritto su Scotellaro, lui ha continuato a germogliare dentro di me. Pensare a Rocco mi chiede di ritrovare giovinezze remote di quando, almeno nei miei desideri, l’azione politica era sorella del sogno [13].
Ogni volta che sono a Matera vado a Palazzo Lanfranchi per vedere il grande murale che Carlo Levi ha realizzato per il funerale di Rocco Scotellaro. Il dipinto mi commuove e ogni volta lo fotografo. La prima volta che, quasi in pellegrinaggio, andai a Tricarico, fui deluso di trovare che la memoria di Rocco era quasi del tutto assente. Era tempo di dimenticanza. Era comunque presente un Centro Scotellaro la cui direttrice Maria Bisceglia incontrai in seguito grazie a Ferdinando Mirizzi.
Voglio ricordare che Cirese [14] ha scritto, in polemica con De Martino [15], un testo molto intenso su Scotellaro. Lo ha fatto nel suo ‘stile tardo’ [16]. In questo lavoro critica De Martino per l’atteggiamento dell’intellettuale che viene da fuori e che approfitta delle culture e delle personalità locali, le sintetizza nella ‘linea’ nazionale del partito [17], ma non le riconosce nella loro specificità, diversità, autonomia perché contrarie al verbo del centralismo democratico comunista. Il testo di Cirese è pieno di memoria di quel che Scotellaro significò per la cultura di sinistra degli anni ‘50 e ’60 [18] e di dolorosa delusione verso De Martino, non tanto e non solo per il suo ‘storicismo’ legato a Croce, ma per un ingiusto comportamento verso Scotellaro e la sua poesia.
Sono lontanissimo dal volere aprire polemiche e dare giudizi; sono un allievo di Cirese che deve molto a De Martino. Sono molto critico verso alcuni aspetti del pensiero e delle ricerche di De Martino, ma gli sono debitore di riferimenti importanti, la mia formazione intellettuale di antropologo passa attraverso le sue opere da cui ho appreso tanto e che sono in sintonia con i temi che mi hanno avvicinato a Scotellaro. Di De Martino ho fatto mia la formula che indica i caratteri morali della ricerca:
È una sorta di giuramento di fondazione, che Scotellaro attualizza per la prima volta nella forma di ‘libro di etnografia’ proprio con i Contadini del Sud e L’uva puttanella. De Martino ne aveva colto i principi e il metodo. E le sue Note lucane, dentro le pagine di Furore, simbolo e valore [20] sono state per me un punto centrale di riferimento. Le incomprensioni e i conflitti tra i due grandi dei nostri studi sono un episodio a sé della storia di quegli anni, ed è giusto che siano stati trattarli a parte.
Aggiornarsi
Dopo questa topografia di memorie personali e di luoghi simbolici che nel tempo mi hanno legato a Scotellaro, mi riaffaccio su di lui in occasione del centenario della sua nascita. Lo rivedo oggi, con occhi nuovi, attraverso la lettura di studi e contributi aggiornati. Nel suo centenario, la memoria di Rocco risulta un po’ sbiadita per lontananza, se confrontata con i centenari di Lorenzo Milani, Italo Calvino, Saverio Tutino. Altri centenari che sono incastonati nella mia storia personale. La morte di Rocco, davvero prematura, è del 1953 quella di Don Milani del 1967, di Calvino del 1985 e di Tutino del 2011.
Ma forse una vita più breve contiene una carica di senso compressa, dotata di grande potenzialità espansiva, che la distanza nel tempo modifica e carica di nuove significazioni purché non venga seppellita nell’ oblio. Sul web ho trovato qualche riga sull’incuria della sua tomba, e sulla chiusura del Centro Scotellaro di Tricarico. Non sono segnali confortanti. I sindaci hanno poca memoria in generale, ed è più grave quando si confrontano con una figura forte ed esemplare di sindaco come fu Scotellaro.
Ma ho registrato una traccia in controtendenza: il 17 marzo scorso infatti l’Associazione dei Lucani di Siena ha promosso, nell’Aula Magna del Rettorato dell’Università, un convegno dedicato a Rocco con la presenza di due relatori antropologi (Fabio Mugnaini ed io). In quella occasione ho avuto modo di tornare sulla figura di Scotellaro, fare i conti con le tensioni intellettuali ed emotive che ancora mi suscita. Ma anche con l’abisso che mi separa dai nuovi studi. In quell’incontro, come anche in questo testo, ho scelto di raccontare la storia del mio sodalizio con Rocco e, nel narrarla, ho avuto la percezione che ancora oggi si senta attuale il nesso tra cultura e politica e che, anche negli scenari mutati, ci siano dei nodi ‘metodologici’ che sono ancora vivi. Perché anche oggi siamo interessati al nesso tra poesia, governo di un paese, militanza controcorrente, ricerca e capacità di far parlare, ascoltare, leggere le voci della gente. Fabio Mugnaini, che con e come me in quella occasione parlava di Scotellaro, ha preferito riflettere sulla Basilicata contemporanea, sconosciuta a Rocco, ma carica di nuove disuguaglianze, una sorta di aggiornamento del senso che la sua storia ci ha lasciato. Questa ricerca del senso e del valore della poetica di Rocco nel presente è la dimensione più rilevante, l’unica che non lo veda relegato soltanto al passato.
Riprendere le fila di tanti studi, di documenti nuovi, di lettere, di fotografie che negli anni ‘70 non erano stati pubblicati e quindi non erano disponibili per me, ha aperto nuovi campi e modi di vedere Scotellaro. Modi sempre più lontani dal mito leviano del poeta contadino ma tesi invece a potenziare la figura dell’intellettuale, della ricerca dei suoi contatti, dei rapporti con altre figure del panorama intellettuale di quel tempo (Levi, Rossi Doria, Fiore, Mazzarone). Il rapporto con Mazzarone non era a me noto negli anni ’70. Mi ci ha iniziato il racconto e gli scritti [21] di Ferdinando Mirizzi, collega antropologo dell’Università della Basilicata. Ma sono stati soprattutto gli scritti di Marco Gatto e, in specie il suo volume [22] uscito per il centenario, ad aiutarmi a superare il gap di memoria e di conoscenza della nuova letteratura su Rocco. La nuova raccolta di foto – prima ci si riferiva a poche immagini che ne accentuavano il carattere leggendario – aiuta a vederne la pluralità di momenti, di incontri, di orientamenti. Già in un articolo del 2022 Gatto aveva suggerito una attenta lettura del catalogo e delle sue immagini [23].
Rocco viene proposto quasi come un emblema di un inizio perduto la cui forza simbolica resta non logorata, adatta a ritrovare un percorso dentro il nodo della questione meridionale e del fallimento del Sud in una prospettiva di rinascita e di politica nuova.
Riferendosi in particolare ad uno scritto di Leogrande [24], Gatto indica Scotellaro come punto di riferimento rispetto alla domanda di nuovi percorsi e si domanda chi siano oggi i nuovi “contadini del sud”, le cui storie raccogliere perché si possa progettare la fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti, io che cercavo e loro che ritrovavo. Per Leogrande, i nuovi contadini sono i braccianti agricoli del nuovo mondo migratorio, anche se questa scelta mette in risalto conflitti potenziali con i contadini rimasti sul territorio, per lo più ostili al nuovo bracciantato. Auspica che questa ostilità possa essere superata per conquistare una nuova alleanza tra i locali e i migranti, i marginali, gli ultimi.
Nella mia mente torna forte il nesso tra Scotellaro e la figura di un altro sindaco Mimmo Lucano, già sindaco di Riace. Come successe a Rocco Scotellaro, anche Lucano è stato aggredito dalle istituzioni e dalla politica conservatrice mentre cercava in modo creativo ed originale di trovare un nesso tra nuove migrazioni, sviluppo ed eredità della cultura locale. Lucano vive oggi da emarginato dentro l’iter del lungo processo, con una condanna a sette anni di carcere e il ricorso in appello ancora in corso. Nel quadro delle iniziative dell’Associazione Riabitare l’Italia, di cui faccio parte da qualche anno, lo ho incontrato in un’aula strapiena e solidale dell’Università della Calabria. Lucano parlava con un tono quasi visionario, quasi religioso, in modo meno riflessivo e ironico di Scotellaro, ma era simile nel sentire il peso della responsabilità, la consapevolezza di non potersi sottrarre a quella lotta e di ritenere inevitabile quel suo destino. Forse a Carlo Levi sarebbe sembrato una reincarnazione di Rocco.
Sul piano della progettualità torna in scena, nel nesso che cerco tra Scotellaro e gli studi successivi, la storia intera dalla Basilicata che negli anni del dopoguerra la resero quasi una regione laboratorio per la presenza sul suo territorio di studi antropologici internazionali e italiani, ma anche letterari ed artistici. Nella introduzione al suo volume di ricerca sul campo a Scanzano Ionico, l’antropologa Maria Minicuci [25] ricorda i nomi di tanti studiosi anglosassoni impegnati su quel territorio: a partire dalla tesi dottorale di Robert Banfield da cui scaturì la nozione di ‘familismo amorale’ (nozione che poi fu ripresa da Paul Ginsborg che la estese a tutta l’Italia e non solo ai ceti popolari) fino a John Davis critico verso la tradizione anglosassone di ricerca. Ma fu laboratorio anche per i tanti intellettuali che vi sperimentarono il domicilio coatto, da Levi a Rossi Doria e a tanti altri. Maria Minicuci, descrivendo il mondo dei contadini imprenditori del presente, sottolinea. attraverso la casistica descritta, la difficoltà di unire il loro mondo con quello delle culture estensive, del bracciantato straniero e del caporalato. Negli studi degli anni ’50 si usava erroneamente il concetto di progresso incentrato sullo sviluppo industriale, perdendo così di vista tanta parte della specificità del Sud. Il maggiore paradosso è quello dei Sassi di Matera passati da essere vergogna nazionale a patrimonio dell’Umanità Unesco.
Ed è proprio nel clima degli anni ’50 che De Martino descriveva così Tricarico [26]:
La poesia
Anche la poesia ha una dimensione antropologica. Quella di Scotellaro continua a parlami, come se, con il trascorrere del tempo, non perdesse mai il senso anzi si rinnovasse. Più in generale sono convinto che si può definire utilmente una dimensione antropologica della poesia, perché essa, nella sua scrittura ambigua, potente ed evocativa, riesce ad aprire – indipendentemente da quando è stata scritta – immaginazioni del possibile, antropologie del domani [27]. Nel dialogo con la nostra soggettività essa non ha bisogno di contesti storici, non ci viene chiesta una filologia letteraria, quando ne siamo colpiti, Così come questi versi di Baudelaire rimbalzati da Fortini su Scotellaro e da qui su di me.
Andrò via soddisfatto da un mondo ove l’azione non è sorella del sogno
Si è in presenza di un dialogo diretto tra soggettività ed esperienza vitale e morale. Le poesie (lo diceva già Fortini nel 1955) non sono da adottare per una militanza, ma per una interrogazione di sé che quella militanza costantemente rimette in questione. Tante poesie potrebbero essere rilette oggi con un nuovo senso e una nuova libertà. Penso che per ‘ripoliticizzare Scotellaro’ potrebbe essere utile fare questo percorso per vedere il rapporto tra un mondo cambiato e un intellettuale scomparso troppo presto che ci ha lasciato però dei modi di guardare – fatti di parole – che possono rivelarsi strumenti per scoprire il presente.
Exempla: contadini, migranti, lucani
Voglio segnalare tre possibili modelli di pensabilità attuale di Rocco.
Tricarico, al cimitero presso la tomba di Rocco Scotellaro, la madre Francesca Armento, Carlo Levi e amici. 1960
3. Nelle recenti considerazioni su Scotellaro sembra prevalere l’ipotesi di una sua presa con il mondo degli ultimi, con un progetto di civiltà che incorpori la nuova domanda di lavoro e di asilo. Una frontiera di una nuova cultura di mescolanza. È uno dei temi che emergono dal dibattito che ho più sopra riportato. Il nuovo bracciantato agricolo che è uno dei mondi di maggiore sfruttamento, di povertà e di precarietà dellavita e del futuro, può essere alla base di un ripensamento del Sud agricolo contro forme di agricoltura estensiva e per lo più anticontadina. È un secondo modo di riferirsi a Rocco e alla sua attenzione, alla sua pazienza, alla sua pietas, come modo di costruire condizioni di vita e di futuro nuove come quell’alba ‘sempre nuova’ della sua poesia più nota. Tra il primo e il secondo modello si giocano anche la coscienza di classe e la coscienza di luogo: è una difficile scommessa farle alleare.
Leggendo sul web i commenti sulla ricorrenza del centenario, mi pare che Scotellaro possa anche essere assunto a patrono della Basilicata contemporanea come regione marginale che vuole affermare la propria identità (la ‘lucanità’, la cui traccia sta già nel titolo de L’uva puttanella) [30]. Un approccio identitario che può essere del tutto positivo visto che Scotellaro non si presta a mitologie turistiche, ma può forse offuscare le grandi potenzialità sociali della memoria scotellariana, sui temi delle diseguaglianze, includendola in una prospettiva giocata sul passato e tendente a non evidenziare lo stato attuale della Basilicata e le sue innovazioni e contraddizioni.
Questi tre modelli esemplari – i nuovi contadini, i migranti, l’identità regionale – possono anche intrecciarsi e assumere così grande forza. Non ne sono sicuro ma, secondo me, il modo di ridare contemporaneità a Scotellaro è solo all’inizio.
Finisco – per non farmi illusioni – con una testimonianza recente che ho trovato sul web:
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