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Sopravvivere alla resilienza: il caso dei rifugiati siriani in Libano
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2020 @ 01:19 In Migrazioni,Politica | No Comments
di Lisa Riccio
Ad oggi, circa 5.6 milioni di siriani hanno lasciato il loro Paese e si sono registrati presso l’UNHCR in diversi Paesi del mondo[1]. Al 31 gennaio 2020, nel solo Libano, erano presenti 910.256 rifugiati siriani[2]. I numeri reali, tuttavia, sono ben più alti e raggiungono una cifra di 1.5 milioni, rendendolo il Paese con la più alta densità di rifugiati per numero di abitanti al mondo [3]. La risposta a quella che sarebbe diventata la più grave crisi umanitaria dalla Seconda Guerra Mondiale[4], può essere suddivisa in due fasi principali: una prima fase copre il periodo tra il 2011 e il 2014 e la seconda il periodo dal 2014 ad oggi.
Alla fine del 2013, infatti, tanto la risposta a livello regionale quanto la politica nazionale libanese tenteranno di prendere atto della natura protratta della crisi umanitaria adottando un approccio a lungo termine basato sulla nozione di resilienza, sul ruolo di leadership delle autorità libanesi e sulla fondamentale integrazione della comunità d’accoglienza quale destinatario di questo nuovo approccio. Quest’ultimo – presentato in più occasioni come a «UN first» o «a parading shift in the response to the crisis» [5] – rifiuta il carattere palliativo e a breve termine dell’aiuto umanitario classico e si caratterizza piuttosto per l’estrema responsabilizzazione dello stato d’accoglienza, per un focus sul rafforzamento della capacità di risposta nazionale alla crisi e per l’idea della piena integrazione della popolazione rifugiata nella fabbrica sociale ed economica del Paese d’accoglienza.
Tuttavia, se ad un primo sguardo quest’evoluzione del ruolo e degli obiettivi della risposta risulta essere più compatibile con la nuova normalità delle odierne crisi umanitarie, ad uno scrutinio più attento che prende in considerazione le specificità del contesto libanese, emerge come l’affidamento a sistemi di fornitura di servizi integrati piuttosto che paralleli e l’estrema enfatizzazione dell’agency degli attori locali può in realtà portare a ciò che Dorothea Hilhorst chiama “Politica di abbandono delle popolazioni rifugiate” [6].
Sino al 2013, tanto gli attori nazionali quanto quelli internazionali interpretarono la realtà della crisi umanitaria libanese come un fenomeno destinato a terminare con la fine del conflitto siriano. In linea con l’aspettativa di un’imminente caduta del regime di Bashar al-Asad[7], il fenomeno migratorio nei Paesi limitrofi era letto come a breve termine, contenuto e da approcciare come tale. In linea con questa visione dominante, sia le autorità nazionali che gli attori umanitari internazionali a partire dall’UNHCR, sottostimarono non solo la portata del fenomeno ma anche e soprattutto le conseguenze a lungo termine sul piano sociale, economico e politico.
In quest’ottica, il sistema umanitario internazionale diede vita ad una risposta a carattere puramente umanitario limitata al soddisfacimento dei bisogni e necessità della sola popolazione siriana, mentre le autorità nazionali libanesi optarono per una quasi totale astensione dalla sua gestione dando vita a ciò che la critica chiama “the policy of no policy”[8]. Nei tre anni successivi all’inizio del conflitto siriano, infatti, la politica libanese sembra sia stata caratterizzata da una cosciente scelta di non agire e non gestire. Con le parole di Betts, «the government was seen to be burying its head in the sand labelling Syrians as ‘displaced’ and refusing to call them ‘refugees’»[9]. Sino al 2014, strategia libanese venne strutturata su tre pilastri fondamentali: l’open door policy, la no camp policy, ed il sistematico rifiuto di istituire un regime di protezione per i rifugiati siriani.
La politica dei confini aperti permise il libero flusso di persone senza limiti e controlli e soprattutto senza alcuno sforzo d’identificazione delle ragioni alla base della decisione di migrare in Libano[10]. Il che equivaleva a non riconoscere la natura forzata della migrazione siriana e le cause che rendevano possibile l’attribuzione dello status di rifugiato. Anche la no policy relativa all’assenza di un regime di protezione e la no-camp policy – politica lodata dagli attori umanitari internazionali e usata per descrivere il Libano come «a model for dealing with refugees»[11] – possono esser lette nell’ottica di una sua negazione e depoliticizzazione. La prima rendendo legalmente invisibili i rifugiati e non riconoscendone i loro conseguenti diritti [12], la seconda impedendo la loro manifestazione più visibile, i campi.
In altri termini, ciò che ha caratterizzato tale politica è principalmente la sua volontà di non fornire alcun tipo di soluzione che avrebbe potuto incentivare la permanenza della popolazione siriana sul territorio nazionale e disincentivare altre soluzioni come il reinsediamento in patria o in un Paese terzo. Tuttavia, tale volontà di guardare al fenomeno come temporaneo e di intervenire tramite una politica ad hoc, si sarebbe ben presto scontrata con la sua natura protratta e le conseguenze a lungo termine in costi economici e sociali. La totale mancanza di una risposta coerente ed integrata e l’assenza di soluzioni abitative tradizionali come i campi, hanno fatto sì che la popolazione rifugiata si integrasse nella realtà urbana e rurale del Paese disperdendosi in oltre 1.700 località e concentrandosi in due delle sue zone più povere, ossia la regione dell’Akkar e la Valle del Beqaa[13]. Tale integrazione avrebbe rappresentato un grosso fardello per le già povere comunità ospitanti aumentando la competitività per le risorse, aggravando le vulnerabilità e i problemi strutturali di lunga data ed esacerbando le tensioni intercomunitarie[14].
La portata e la natura urbana del fenomeno migratorio, infatti, hanno radicalizzato le conseguenze di due tipi di shock, uno demografico e l’altro economico derivanti dal conflitto[15]. A differenza di crisi passate in cui un tale flusso era stato gestito tramite l’istituzionalizzazione di sistemi di welfare parallelo gestiti principalmente dalle organizzazioni internazionali nei campi profughi, nel caso libanese l’impressionante crescita demografica indotta dal conflitto siriano si è tradotta: in un profondo cambiamento dell’equilibrio tra cittadini e rifugiati e soprattutto in un’accelerazione della crescita urbana che, tuttavia, non è stata accompagnata da una maggiore capacità nella fornitura di servizi di base, da uno sviluppo delle infrastrutture e, soprattutto, da un’accresciuta capacità di assorbimento del mercato del lavoro locale[16].
Mappa relativa al numero dei rifugiati siriani registrati presso l’UNHCR in Libano dal 2012 al 2014, anno di adozione del 3RP
L’impressionante aumento di popolazione ha significato una crescita esponenziale della domanda nei servizi pubblici di base e, ovviamente, nel mercato del lavoro che, a loro volta, hanno messo a dura prova le già ridotte finanze pubbliche libanesi[17]. Alle devastanti conseguenze dello shock demografico si aggiungevano inoltre quelle derivanti dal peggioramento della crisi economica. Il debito pubblico avrebbe raggiunto nel 2013 il 141%[18] del PIL, mentre la crescita di quest’ultimo si sarebbe ridotta da una media dell’8% tra il 2007-2010 ad un esiguo 1.4% nel 2012[19], per poi scendere ancora tra il 2013 e il 2014 per effetto dell’impatto del conflitto siriano su settori come il turismo, il settore immobiliare ed il commercio[20]. Come risultato, nel 2013 la Banca Mondiale stimava che per il 2014 il numero di cittadini libanesi poveri sarebbe aumentato di 170 mila persone andando a colpire due terzi della popolazione[21].
Emerge chiaramente dunque come la situazione rappresentasse una bomba ad orologeria che stava mettendo sempre di più a dura prova non solo la resilienza economica del Paese ma anche e soprattutto la sua stabilità. Agli shock economico e demografico, iniziavano dunque ad aggiungersi quello sociale derivante dal peggioramento delle condizioni di vita della popolazione libanese. Ciò nonostante, mentre la popolazione rifugiata, sotto i piani di risposta umanitaria formulati sino al 2013, era intitolata all’assistenza fornita dal sistema umanitario internazionale a guida UNHCR, le fasce più povere e vulnerabili della comunità d’accoglienza ne erano escluse[22]. Sino a quell’anno, infatti, la risposta umanitaria internazionale – gestita tramite cinque successivi Regional Response Plan (RRP) – si era caratterizzata per l’adozione di un approccio classico e a breve termine, volto alla fornitura di un’assistenza d’emergenza per i rifugiati siriani, per il ruolo ridotto delle autorità nazionali e per la mancanza di focus sulle comunità d’accoglienza[23]. I cinque RRP che si sono susseguiti dal 2011 sino alla fine del 2013 non solo si basavano su un ruolo di leadership delle agenzie umanitarie internazionali [24] e su un debole coinvolgimento degli attori locali, ma si limitavano a soddisfare «the needs for protection and assistance of refugees fleeing from the Syrian Arab Republic»[25].
Questo tipo di risposta umanitaria avrebbe alimentato la percezione della popolazione libanese per cui i rifugiati siriani fossero intitolati ad un aiuto che loro non riuscivano a ricevere nemmeno dal governo[26]. In linea con l’adozione di un approccio classico all’assistenza, questo tipo di aiuto non solo si rivelava completamente insufficiente e inadeguato allo sviluppo del Paese ma anche e soprattutto nocivo in termini di stabilità e coesione sociale. Fu proprio il riconoscimento della dimensione socio-economica della crisi a spingere la comunità internazionale a formulare un nuovo tipo di risposta che abbandonava il suo carattere puramente umanitario per adottare un’ottica più a lungo termine[27].
A fine 2013, il R-UNDG (Regional United Nation Development Group) adottò un documento di posizione, intitolato “A Resilience-based Development Response to the Syrian Crisis”, in cui si affermava chiaramente che «current life-saving humanitarian funding and programming are neither sufficient nor sustainable»[28]. Tale documento programmatico avrebbe fornito il quadro operativo necessario alla formulazione di un nuovo e coerente piano regionale di risposta alla crisi siriana per il 2015 e 2016, il Regional Refugee and Resilience Plan (3RP)[29]. In coerenza con le riflessioni e le nuove politiche umanitarie emerse sotto l’ombrello concettuale della resilienza [30] il 3RP è definito come il primo e fondamentale esempio di come l’aiuto internazionale ha realizzato il retoricamente vecchio humanitarian-development Nexus[31]. Aldilà delle misure ‘tecniche’ prese per migliorare il coordinamento e l’armoniosità dei diversi funding streams [32], infatti, il 3RP si fonda sul fondamentale principio di national ownership della risposta alla crisi e attribuisce un ruolo centrale alle autorità nazionali in tutte le fasi della risposta: pianificazione (decisione delle priorità del piano), coordinamento e supervisione.
Ciò implica che la risposta umanitaria deve evitare la creazione di «parallel or fragmented systems of service delivery» e anzi «use and reinforce existing systems»[33]. Coerentemente con il principio di sostenibilità – che non a caso è uno dei princìpi guida enunciati nel “Resilience-Development Approach to the Syrian Crisis” – il piano impone il supporto e l’utilizzo dei sistemi di governance esistenti nei singoli Paesi quali primi vettori di veicolazione dell’aiuto[34]. In altri termini, l’aiuto internazionale viene concepito principalmente come supporto e canalizzato attraverso le istituzioni nazionali e locali esistenti[35]. Tuttavia, il principio di national ownership non implica solo una maggiore responsabilità, ma (conseguentemente) anche un maggior potere decisionale delle autorità nazionali circa il modo in cui gli ambiziosi obiettivi del 3RP si traducono a livello nazionale nel LCRP. È qui che emerge uno dei primi rischi derivanti dall’adozione di un approccio basato sul concetto di resilienza in un contesto caratterizzato da grave crisi economica e finanziaria e dalla palese mancanza della volontà politica necessaria alla formulazione di obiettivi che vadano a beneficio tanto alla popolazione d’accoglienza quanto a quella rifugiata.
Va da sé infatti che la responsabilizzazione dello stato d’accoglienza e la discrezionalità conseguente nel fissare le priorità del piano a livello nazionale potrebbe tradursi in un focus sulla prima e non certo sulla seconda. Al fine di indagare l’aderenza del LCRP al framework regionale risulta dunque necessario enunciarne, seppur brevemente, gli obiettivi. Questi ultimi possono essere riassunti in due macro categorie che a loro volta si riflettono nelle due interconnesse componenti attorno alle quali si struttura il 3RP: la “Refugee Component” (a guida UNHCR) e la “Resilience and Stabilisation Component” (a guida UNDP)[36]. La Refugee Component mira ad assicurare la protezione e l’assistenza umanitaria sia per i rifugiati che fuggono il conflitto siriano che per le fasce più vulnerabili della popolazione d’accoglienza e contemporaneamente a promuovere il loro accesso ai mezzi di sussistenza al fine di creare le condizioni necessarie affinché essi abbiano l’opportunità di diventare quanto più possibile autosufficienti[37].
Tanto i rifugiati quanto le comunità più colpite dagli effetti della crisi smettono di essere raffigurati come vittime passive e vengono piuttosto descritti come «active and creative agents»[38] e per questo l’obiettivo «is to create a viable path away from the need for direct assistance and toward self-sufficiency and sustainable human development»[39]. L’autonomia e l’autosufficienza di coloro che nel paradigma classico dell’aiuto umanitario erano visti come destinatari diretti dell’assistenza passano, nel 3RP, per la loro piena integrazione all’interno delle strutture economiche e di welfare dei Paesi d’accoglienza. Tuttavia perché ciò sia possibile, di fondamentale importanza risulta il perseguimento del secondo obiettivo del 3RP. La seconda componente del piano, infatti, ha quale scopo principale quello di promuovere la stabilità e la resilienza dei cinque Paesi coinvolti tramite il supporto e il rafforzamento delle capacità dei loro sistemi di fornitura di servizi nazionali perché possano assorbire lo shock derivante principalmente dall’aumento demografico[40]. Il primo obiettivo, la fornitura di assistenza umanitaria e protezione passa dunque per i sistemi di governance decentralizzati a livello nazionale e locale che, a loro volta, verranno rafforzati al fine di potenziarne la resilienza sul lungo periodo. È chiaro come i macro obiettivi contenuti nel 3RP risultano molti ambiziosi e presuppongono una forte volontà politica da parte dei Paesi di accoglienza in ragione delle nuove responsabilità loro attribuite. Perché il 3RP possa rappresentare un vero cambiamento di paradigma nel modo in cui si risponde alla crisi, è necessario che i diversi piani nazionali riflettano fedelmente tanto i suoi ideali quanto i suoi obiettivi.
Degli uomini smantellano gli insediamenti informali nella città di Arsal, Libano 2019 (Human Rights Watch 2019)
Il principio di national ownership sembra però aver implicato inevitabilmente una componente di discrezionalità, o meglio di negoziabilità, nella traduzione dei contenuti del 3RP a livello nazionale. In effetti, il LCRP presenta diverse differenze con il grande quadro regionale sia a livello di forma e linguaggio che di contenuti. Innanzitutto, esso riprende la retorica negazionista della non-politica libanese riaffermando con decisione che «Lebanon is neither a country of asylum, nor a final destination for refugees[41] e, in conseguenza di ciò, il LCRP utilizza una terminologia ambigua alternando “Persons displaced from Syria”, “Persons Registered with UNHCR as refugees” e “de facto Refugees”[42]. Sempre da un punto di vista retorico, significativo è il rifiuto delle autorità libanesi di utilizzare la parola resilienza nel proprio piano nazionale in ragione, ancora una volta, delle percezioni a lungo termine che la nozione risulta evocare in termini di responsabilità dello Stato d’accoglienza[43]. Il LCRP non solo utilizza il termine “stabilisation” e non “resilience” ma non riprende nemmeno la suddivisione in “refugee Component” e “resilience/stabilisation component” su cui si struttura il 3RP. Il LCRP sembra piuttosto optare per una coerenza formale nella misura in cui i suoi tre obiettivi strategici fanno riferimento al rafforzamento delle tre capacità/abilità alla base della nozione di resilienza così come definita nel 3RP, ossia le capacità di “coping”, “recovering” e “sustaining/transforming” [44].
A guardar bene, da un punto di vista contenutistico, il piano sembra focalizzarsi sulla stabilità e le necessità libanesi e non su quelle della popolazione rifugiata. Il LCRP si suddivide in tre aree di intervento a cui corrispondono i suoi tre obiettivi strategici. La prima si pone quale obiettivo quello di supportare le capacità di resistenza e reazione (coping) delle comunità più vulnerabili tramite la fornitura di assistenza umanitaria sia ai “de facto refugees” che alle fasce più povere della popolazione libanese. Anche l’aiuto d’emergenza è qui visto in un’ottica a lungo termine e deve essere canalizzato «through public institutions to the greatest possible extent ensuring that humanitarian assistance continues to strengthen national capacities and benefit Lebanese communities»[45]. La seconda area d’intervento, in linea con il focus sul Libano, si concentra unicamente sul rafforzamento delle capacità di ripresa (recovering) dei sistemi di fornitura di servizi pubblici libanesi – nello specifico il sistema educativo, la sanità, i servizi idrici ed igienico-sanitari – al fine di ampliare l’accesso e la qualità dei servizi pubblici[46] e contemporaneamente assicurare che «humanitarian response in itself does not aggravate inequalities and tensions»[47]. Infine la terza area d’intervento, che rappresenta l’elemento “sviluppista” del piano, non si focalizza più sulla fornitura di assistenza umanitaria ma piuttosto sulla creazione di un ambiente economico più fertile che possa a sua volta garantire una maggiore stabilità ed inclusione socio-economica[48].
Nessun riferimento esplicito è fatto in questa sezione all’inclusione economica della popolazione rifugiata[49] e anzi viene specificato come gli interventi in questo settore dovranno essere in accordo con le leggi e le regolamentazioni sul lavoro libanesi che, come vedremo a breve, impongono dei limiti severi al diritto e alla possibilità per i rifugiati siriani di lavorare nel Paese. Il LCRP sembra dunque coerente con il 3RP nella misura in cui tenta di garantire maggior importanza alla resilienza della popolazione d’accoglienza e alla stabilità dell’intero sistema di welfare statale rispetto alle vecchie risposte umanitarie. Tuttavia, nel grande quadro regionale, di altrettanta importanza erano gli interventi volti alla piena integrazione dei rifugiati nella fabbrica economica e sociale del Paese. Il LCRP non sembra però accordare tale importanza e l’autosufficienza e l’autonomia preconizzate nel 3RP quale risultato della piena integrazione dei rifugiati nel sistema d’accoglienza, sembra semplicemente tradursi nella possibilità di accesso dei rifugiati all’assistenza umanitaria, ai servizi pubblici di base e all’uso di soluzioni orientate al mercato quali la programmazione di cash-transfer.
Nonostante la terza area di intervento del piano si focalizzi esplicitamente sul rafforzamento della capacità di assorbimento del mercato del lavoro libanese, infatti, le leggi e i regolamenti entrati in vigore il 5 gennaio 2015 – paradossalmente il primo anno del LCRP – annullano di fatto i potenziali effetti positivi che tali interventi potevano comportare per la popolazione rifugiata in termini di autonomia e autosufficienza. Come anticipato infatti, a fine 2014 e precisamente lo stesso giorno in cui il governo approvò il LCRP (23 ottobre 2014), venne inaugurata la cosiddetta Politica di Ottobre[50]. Quest’ultima, non solo restringeva l’accesso al lavoro a tre soli settori (edilizia, agricoltura e pulizie) ma imponeva inoltre che i siriani registrati presso l’UNHCR dovessero firmare un “pledge not work”, ossia un accordo vincolante con il quale il rifugiato si impegna a non perseguire opportunità lavorative in Libano[51].
Di fatto dunque il riconoscimento dello status di rifugiato presso l’UNHCR (status non riconosciuto dalla legislazione nazionale) precludeva anche la sola possibilità per i rifugiati siriani di accedere legalmente al mercato del lavoro nei soli tre settori consentiti e, dunque, di poter accedere agli unici mezzi di sostentamento che potenzialmente avrebbero potuto garantire una maggiore autonomia e autosufficienza finanziaria. In assenza di una volontà politica tale da garantire l’integrazione della popolazione rifugiata nella realtà economica del Paese, risulta chiaro come l’attuabilità degli ambiziosi obiettivi del 3RP, nonché del nuovo approccio basato sulla resilienza siano lesi alle loro stessa fondamenta. Ciò dovrebbe far riflettere su un aspetto in particolare: attribuire maggiori responsabilità allo stato di accoglienza in tutte le fasi della risposta implica inevitabilmente un maggior potere decisionale che si riflette a sua volta nella maggiore importanza accordata agli interventi che possono andare a vantaggio del Paese piuttosto che alla popolazione rifugiata. Qui risiede a mio avviso il primo rischio di abbandono della popolazione rifugiata siriana nel Paese.
Questo rischio tuttavia emerge anche da un altro punto di vista: nel momento in cui ci si affida ai sistemi di governance nazionali nella gestione della risposta e ai sistemi di welfare del Paese nella fornitura di assistenza, si presume non solo che questi ultimi abbiano già le capacità di portata e coordinamento necessarie ma anche che le popolazioni rifugiate abbiano una reale (e non potenziale) capacità d’accesso a questi stessi servizi. Per quanto riguarda il primo aspetto, Culberston sottolinea come una volta creata tale struttura di governance sotto il LCRP, la maggior parte degli attori coinvolti sono convenuti sul fatto che «government of Lebanon lacks the capacity to take over full leadership of coordination in all sectors»[52]. Per quanto riguarda il secondo aspetto, un’altra importante assunzione alla base del 3RP e del paradigma a cui esso si ispira, è relativa alle capacità di portata sul breve e medio termine del sistema di servizi pubblici su cui, in teoria, dovrebbe poter fare affidamento la popolazione rifugiata nel Paese in assenza di un sistema parallelo di fornitura di servizi.
Si intuisce che difficilmente si può individuare una capacità sul breve termine tale da garantire un reale accesso ai servizi pubblici nel momento in cui due dei settori chiave, sanità e istruzione, sono altamente privatizzati e i cui alti costi escludono di fatto dai propri servizi tanto la popolazione siriana rifugiata quanto le fasce più povere della società libanese[53]. Come anticipato, tuttavia, a queste considerazioni se ne aggiunge una terza. L’idea della piena integrazione della popolazione rifugiata in Libano si traduce nel LCRP essenzialmente nella possibilità di accesso per i rifugiati siriani ai servizi nel Paese. Di fondamentale importanza è allora che essi abbiano una reale capacità di accedervi. Una capacità peraltro fortemente indebolita dalla condizione di illegalità derivante dalle nuove politiche dell’ottobre 2014, che hanno introdotto l’obbligo di un visto per entrare nel Paese, hanno richiesto all’UNHCR di cessare la registrazione dei rifugiati se non con previa approvazione del MoSA e hanno di fatto posto fine al rinnovo gratuito del visto per chi era già presente sul territorio[54]. Da qui il drastico aumento (ratio dal 9% al 73%) dei rifugiati senza alcun tipo di status legale nel Paese [55].
Un murales dell’artista siriano Aziz al Asmar che, contro il razzismo nei confronti della popolazione rifugiata, recita: “Get Syrians out! Hey, hey, phoenix bird, be kind to those who welcomed you in Tammuz” (Tammuz, riferito alla guerra del 2006 in Libano).
Risulta chiaro allora come ciò rappresenti il principale ostacolo all’attuazione di un piano che in teoria dovrebbe garantire un effettivo accesso della popolazione rifugiata a tutti i servizi garantiti nel Paese. D’altronde lo scopo del rafforzamento dei suoi sistemi di welfare era in principio finalizzato all’inclusione di un maggior numero di persone derivante dal flusso migratorio. La politica di ottobre limita proprio tale inclusione confinando la popolazione rifugiata ad uno status d’illegalità, «that strips refugees of fundamental rights and poses difficulties for them to access basic services and state provision such as hospitalisation and schooling»[56], proprio quei servizi a cui il LCRP dichiara di garantire l’accesso. Qui risiede, dal mio punto di vista, il secondo rischio di abbandono della popolazione rifugiata nel Paese: nel momento in cui ci si affida ai sistemi di fornitura statali e non a sistemi paralleli di welfare per garantire l’accesso ad un’assistenza di base e alla protezione, si presume almeno che in questo stesso Paese essi possano godere di uno status tale da garantire loro una reale e non solo potenziale capacità di accesso. Nonostante in teoria coloro che sono sprovvisti di un visto valido possano accedere ai servizi di base, in realtà è stato ampiamente dimostrato come la mancanza di un visto legale esponga i rifugiati ad un costante rischio di sfratto, arresto e detenzione ed espulsione. Per minimizzare tale rischio i siriani in Libano limitano al massimo i propri spostamenti e si autoimpongono dei coprifuoco, di fatto rinunciando ai servizi e all’assistenza a cui in principio potrebbero e dovrebbero aver accesso[57].
Alla luce di queste riflessioni, emerge chiaramente come la difficoltà dell’adozione di un approccio basato sulla resilienza sta proprio nel fatto che l’assunzione per cui ci sia una volontà politica capace di assumersi le responsabilità preconizzate, viene spesso a mancare in contesti altamente politicizzati e caratterizzati da grave crisi economica e finanziaria. Nell’arena libanese, tale sua assenza viene esplicitata, da un lato, dalla mancanza di coerenza tra il 3RP ed il LCRP, e, dall’altro, nel riuscito tentativo da parte del governo libanese di limitare quanto più possibile le poche finestre lasciate aperte dal LCRP tramite tutta una serie di leggi che, di fatto, annullano qualsiasi tentativo di integrazione. La risposta alla crisi rifugiati in Libano sembra certo far propri alcuni principi di base del 3RP: l’uso delle normali istituzioni di welfare e di governance nazionali e il loro rafforzamento sono un pilastro fondamentale del LCRP.
Tuttavia perché l’aiuto non si risolva semplicemente in un sostegno alla stabilità e resilienza del Paese d’accoglienza ma tenti anche di soddisfare le necessità e i bisogni sul breve e lungo periodo della popolazione rifugiata, è necessario che in questo stesso Paese vi siano una volontà politica e una capacità tali da poter tener fede a questo impegno. In Libano, tanto per ragioni storiche quanto economiche e sociali dell’era presente, queste due precondizioni sono assenti e le idee di self-reliance e self-sufficiency insite nella nozione di resilienza si dimostrano essere degli status irraggiungibili in una condizione d’illegalità e marginalità. È in questo senso che la risposta alla crisi dei rifugiati nel Paese, lungi dal porre le basi per un più efficace approccio all’azione umanitaria, sembrerebbe essersi focalizzata unicamente sulla stabilità del Paese ospitante. Qualora ciò risultasse confermato da più approfondite analisi e ricerche sul campo, le politiche messe in atto col fine di realizzare una più efficiente e più ampia azione umanitaria, risulterebbero paradossalmente aver girato le spalle proprio alla popolazione e agli individui rifugiati che erano l’obiettivo primario per cui sono state implementate.
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