- Dialoghi Mediterranei - http://www.istitutoeuroarabo.it/DM -
Una poesia vi seppellirà. Rap, migrazioni e periferie, tra New York e la banlieue francese
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2023 @ 02:43 In Cultura,Migrazioni | No Comments
di Flavia Schiavo [*]
New York City e le origini del Rap: potere al ritmo, potere alla parola
L’11 agosto del 1973, il Day One del Rap, a New York City, al 1520 di Sedgwick Avenue, nel South Bronx, Kool Herc (Clive Campbell), un giovanissimo DJ di origine giamaicana, organizzò il primo “block party” sancendo l’inizio di una tra le “pratiche” di un’innovativa forma contro-culturale “nera”, l’Hip Hop, che stava nascendo in quegli anni. Il Rap, sorto durante quelle feste organizzate nelle strade del quartiere o negli spazi comuni dei condomini, e poi in numerosi locali, era infatti parte costitutiva di questa nuova cultura, che comprendeva oltre al mc’ing (il Rap) anche il writing, il b-boyng cioè la breakdance, il djing (il mixare i dischi) cui andava aggiunta la knowledge (la conoscenza alla base del processo di innovazione, relativa al passato musicale cui ispirarsi). Matrici di tale espressione musicale furono, infatti, il R&B, il Soul, il Funk e il Jazz, e i grandi artisti neri, tra cui James Brown [1].
Il Rap, però, oltre a caratterizzarsi come una forma espressiva eminentemente nera, operava una doppia rivoluzione:
- da un lato agendo come una tattica e una “pratica” interna a una cultura svantaggiata e popolare (in quella fase in rivolta e reazione), modificava i rapporti di potere e il ruolo dei gruppi più emarginati, costruendo sia comunità, prima più disgregate, poi più resilienti, dotate di una specifica “voce” reattiva, sia uno spazio fisico e simbolico diverso, e quindi ri-territorializzando i luoghi;
- dall’altro facendo musica senza strumenti, grazie all’uso coordinato di due vinili che, fatti suonare su due piatti, attraverso lo “scratch”, e l’utilizzo del mixer, di doppi amplificatori e di speciali drum machine come la Ronald TR-808, producevano una base che sfruttava soprattutto la ritmica del basso e della batteria.
Su questa base ritmica, spesso in loop, i DJ scoprirono che era possibile parlare, lasciando in seguito ai cosiddetti MC (Master of Ceremonies) la parola che, in breve, dopo esser stata utilizzata per incitare le persone alla danza e alla partecipazione, divenne una arte ritmica, chiamata appunto Rap che, in certi casi, oltre a incitare alla danza, veicolava narrazioni specifiche e contenuti denotativi del quotidiano vissuto dagli abitanti dei quartieri disagiati.
In quegli anni, tra il ’60 e i ’70, la cultura musicale stava producendo due forme differenziate, entrambe urbane che, in un certo senso, avevano origini comuni. Ambedue di protesta, caratterizzarono la scena culturale a NYC. Da un lato il Rap fortemente radicato al territorio e alla cultura nera locale, dall’altro la Disco music. La prima, parte sostanziale della cultura urbana nera situata nel Bronx, l’altra più patinata e legata alla compagine bianca, a partire dalle sperimentazioni di David Mancuso, un DJ che può essere considerato il padre fondatore della “disco” in America, nata ne The Loft, all’inizio degli anni ‘70, un club privato, al n. 647 della Broadway, a Manhattan.
Tra i ’60 e i ’70 l’onda lunga dello schiavismo, abrogato da più di un secolo (1865), segnava ancora tutta l’America. Anche le città più progressiste, come New York, erano fortemente contrassegnate da politiche e comportamenti discriminatori nei confronti dei neri. Le azioni coordinate, di grande rilievo, portate avanti dal movimento del Black Power, si scontravano non solo con tali comportamenti espressi nel quotidiano, ma con le scelte urbane e sociali dei governi locali, che prevedevano incentivi, trasformazioni e progetti tesi a produrre effetti tutt’altro che egualitari: favorendo la popolazione bianca e svantaggiando la popolazione afroamericana, di fatto gravata da macro e micro disparità in ambito sociale e lavorativo e riguardo al “diritto alla città” che, come H. Lefebvre aveva lucidamente scritto, prevedeva la partecipazione e il diretto intervento dei singoli e delle comunità, produttrici di spazio e riequilibrartici delle dinamiche del capitale.
Il movimento Black Power, termine coniato nel 1966 da Kwame Ture, nato nel 1941, noto come Stokely Carmichael [2], attivista trinidadiano-statunitense, ebbe il suo apice proprio tra gli anni ‘60 e i ’70. In quella stagione, in cui era assai poco sviluppato ogni dialogo interculturale, si stavano mettendo in discussione alcuni principi, come quelli dell’integrazione razziale, criticata anche per gli aspetti omologanti, mentre alcuni leader del movimento dei diritti civili degli afroamericani, come Martin Luther King, si battevano per i diritti dei neri, promuovendo una protesta organizzata e non-violenta. Il pastore protestante e attivista, assassinato il 4 aprile 1968, ebbe un ruolo fondamentale nella formazione delle pratiche di disobbedienza civile e di resistenza attiva dei neri americani [3].
Già a metà degli anni ’50 tali pratiche concrete, che puntavano anche a una rivendicazione delle culture di origine e di quella cultura afroamericana generatasi dalla contaminazione con il contesto statunitense, iniziarono ad avere seguito e risonanza mediatica su scala mondiale. Tra esse alcune ebbero grande ripercussione ed effetto: nel 1955 Rosa Parks (poi arrestata), rifiutò di cedere il proprio posto sull’autobus a un giovane bianco, dando vita a Montgomery (capitale dell’Alabama) al boicottaggio dei bus e mettendo in evidenza quanto non solo le scelte governative ma i comportamenti quotidiani cancellassero i diritti di una porzione enorme di cittadine e cittadini americani. Nel 1960, in concomitanza della formazione del movimento studentesco, a Joseph Mcneill, studente afroamericano di un college del Carolina del Nord, fu rifiutato il servizio alla tavola calda, scatenando una protesta diffusasi in circa cinquanta città degli States. Nel 1968, ai Giochi Olimpici di Città del Messico, Tommie Smith vincitore dei 200 metri piani (segnando il record mondiale) insieme al suo connazionale John Carlos (terzo classificato), alzarono un pugno chiuso guantato di nero per protesta contro il razzismo perpetrato dai bianchi.
Questi episodi, che rappresentano solo una piccolissima parte di una lotta capillare condotta in quegli anni, nonostante le reazioni violente e repressive, danno la misura della capacità di aggregazione e coordinamento della Black Community, unitamente alle azioni promosse da Martin Luther King o da Malcom X, anch’esso grande leader degli afroamericani. Nonostante le azioni organizzate dal movimento le città americane erano però teatro di segregazione, di conflitti non del tutto “esternalizzati” e di forti sperequazioni dovute a fattori storici, a condizioni esogene e a scelte di gestione urbana. Tra le questioni sociali e organizzative rilevanti si denunciavano: la mancanza di accesso ai servizi sanitari e scolastici per le popolazioni con reddito inferiore (tra essi molti afroamericani), la mancanza di efficaci “ascensori sociali”, la carenza di finanziamenti alle scuole pubbliche, la mancata realizzazione di servizi urbani, comunque pressoché inaccessibili ai neri, la ghettizzazione intenzionale, come si dirà più avanti, di alcuni ambiti cittadini. Tra essi il Bronx a NYC e il South Bronx, in particolare, gravato da difficili condizioni esito di scelte e di politiche complesse e strutturate nel tempo.
Anche alcuni intellettuali bianchi, come Marshall Berman [4], nativo del Bronx, misero in evidenza vari eventi critici, tra cui la realizzazione di una grande autostrada urbana che sventrò il quartiere, parte dei progetti che, secondo gli amministratori newyorchesi, avrebbero dovuto modernizzare il distretto e connettere NYC al resto del Paese. Per comprendere l’impatto di quella profonda lacerazione, non solo nel South Bronx, va sottolineato che i sistemi di collegamento furono, insieme alla proprietà immobiliare, uno strumento cardine della trasformazione nazionale anche prima dei provvedimenti che il pianificatore “haussmanniano” Robert Moses aveva promosso, tra cui il Cross Bronx Expressway, una imponente highway. Tra gli interventi precedenti nel distretto va citato, infatti, il Grand Boulevard and Concourse, un’arteria lunga 8.4 km che attraversa numerosi quartieri, tra cui Bedford Park, Concourse, Highbridge, Fordham, Mott Haven, Norwood e Tremont. Inizialmente progettato da Louis Aloys Risse, il boulevard fu costruito tra il 1894 e il 1909, e poi ampliato nel 1927, contestualmente alla costruzione di condomini sui lati della Avenue che nel 1939 fu chiamata “la Park Avenue della middle class del Bronx”, prima dell’inizio della suburbanizzazione e della fuga della classe media dal distretto.
Il Cross Bronx Expressway fu, come già anticipato, uno specifico intervento del “governo urbano Moses”. Porzione dell’Interstate 95, il Cross Bronx inizia dall’Alexander Hamilton Bridge sul fiume Harlem, dove la Trans-Manhattan Expressway prosegue a Ovest attraverso Upper Manhattan fino al George Washington Bridge. Concepita da Moses e costruita tra il 1948 e il 1972, con un finanziamento di 40 mln di dollari, è stata la prima highway sita in un’area urbana densa negli Stati Uniti.
Tale opera di trasformazione, era adeguata allo schema socio-ideologico, formale e funzionale di amministratori come Roger Starr, oltre che di Robert Moses[5] l’amministratore che dagli anni ’30 circa aveva acquisito sempre maggior potere gestionale e burocratico. Oltre a modificare interi ambiti urbani, la highway cancellò sia molte piccole imprese locali, che alcune tra le reti delle comunità del distretto, il quale, da luogo di residenza “mista”, (middle class e working class), divenne un ghetto marginale in degrado, caratterizzato da enormi e reiterati tenements e, in seguito, da isolati ridotti in rottami e detriti causati dall’abbandono e dai numerosi roghi, di cui si dirà più avanti. Moses, con la highway del Bronx, aveva portato a compimento le politiche federali che dal 1956 videro l’emanazione del Federal Aid Highway Act, firmato da Dwight D. Eisenhower e sponsorizzato da membri del Congresso, tra cui il democratico George Hyde Fallon.
L’atto, noto come National Interstate and Defense Highways Act, fu finanziato da 25 miliardi di dollari, un ingente importo prelevato da fondi destinati alla difesa, emanati durante il decennio successivo. In quella fase si costruirono circa 41.000 miglia (circa 66 mila km) di strade a grande traffico che, dopo la costruzione della rete ferroviaria (dal 1860 circa al 1890), rappresentarono la più grande opera pubblica nordamericana edificata fino allora [6]. La rete stradale, oltre a segnare l’intera nazione, collegava la maggior parte delle basi aeronautiche (assicurando una pronta risposta nel caso di guerre convenzionali o nucleari e accorciando enormemente i tempi di percorrenza tra gli Stati). Il budget fu gestito grazie a un fondo fiduciario federale che garantì il 90% dei costi, lasciando ai singoli Stati solo il 10% degli importi da erogare prevedendo che, grazie ai pedaggi, alle tasse sul carburante, sulle nuove automobili e sui camion e all’indotto economico connesso, si sarebbero non solo recuperati enormi proventi, ma si sarebbero messi in circolo ingenti quantità di danaro, attivando nuovi posti di lavoro.
La gigantesca rete autostradale incentivò ulteriormente la dispersione insediativa che stava crescendo, soprattutto nella fascia atlantica, descritta da Jean Gottmann nel 1961. Tale suburbanizzazione [7], promossa da politiche generali (es. da R. Nixon, latore di uno specifico soft power, come si dirà più avanti) era caratterizzata da vaste aree a bassa densità, costituite da case unifamiliari circondate da piccoli giardini privati dove si insediava la middle class prevalentemente bianca [8] che aveva, tra l’altro, facile accesso ai mutui erogati dalle banche, sostanzialmente preclusi ai neri.
Il suburbio, simbolo ed effetto del soft power americano fu favorito, infatti, anche da facilitazioni indirizzate alla classe media bianca. Furono quelli gli anni della segregazione residenziale [9] e dei cosiddetti redline e redlining, pratica governativa quest’ultima attraverso cui si negavano mutui contratti soprattutto in alcuni ambiti urbani. Ciò provocò effetti pesanti su alcune fasce più fragili e disagiate della popolazione residente, per il razionamento del credito, non accessibile, a causa delle redline che circoscrivevano specifici ambiti (segnati appunto in rosso) dove le banche non concedevano i prestiti.
Il soft power (termine coniato nel 1990 da un professore di Harvard, di indirizzo liberale, J. Nye), indica il potere di attori nazionali o internazionali applicato non unicamente sulle risorse materiali, ma anche su quelle immateriali e sulla capacità di indirizzare comportamenti. Attraverso la seduzione sottile e penetrante di alcuni modelli culturali, e attraverso le pratiche o le scelte politiche.
Funzionale all’interconnessione delle grandi città, il sistema delle autostrade fu pensato, in alcuni casi (es. a New York) contestualmente ad alcune opere di pianificazione anche precedenti [10], a una rete intra-urbana che facilitasse il traffico veicolare veloce e inducesse un incremento nell’acquisto di autovetture [11], assecondando le trasformazioni interne dei quartieri e la suburbanizzazione. A New York, tale prassi generava una struttura urbana opposta a quella prodotta sino a quel momento, e un diverso modello abitativo e culturale, mentre anche i settori pubblicitari promuovevano l’automobile, portando avanti il progetto di Henry Ford (un’auto per ogni americano), concepito ai tempi della mitica Model T.
Se in aree extraurbane sorgevano estesi ambiti residenziali abitati dai bianchi, in altri ambiti interni alle città nascevano quartieri voluti da pianificatori come il già citato Roger Starr, l’influente e oscurantista assessore al social housing, promotore di numerose politiche che puntavano sia a edificare case popolari (ghetti di bassa qualità architettonica, solo in termini formali ispirati ai modelli del Movimento Moderno), sia ad abbandonare aree problematiche come il South Bronx, estromettendole attraverso specifici tagli finanziari e l’abolizione di alcune linee della metropolitana. Gli interventi di social housing [12], costituiti spesso da “superblocks” o da condomini multipiano tutti uguali tendevano, ulteriormente, a segregare gli abitanti in enclave chiuse, isolandoli economicamente e socialmente.
Se da un lato le soluzioni proposte da Starr puntavano a rimuovere le questioni urgenti con il Planning Shrinkage (ritiro programmato), isolando quartieri come il Bronx, dall’altro ulteriori soluzioni pensate a livello governativo producevano progetti generali mirati a un rinnovamento tutt’altro che etico: Robert Caro [13] ci racconta, infatti, che già nel 1948 Moses incontrò un suo ex compagno a Yale, il senatore repubblicano Robert A. Taft, con cui discusse i dettagli di un nuovo programma federale di “slum clearance”, orientato al rinnovamento urbano di alcuni quartieri, come il Bronx, considerati da Moses “baraccopoli”. Prima che il Congresso approvasse, l’anno seguente [14], un Atto per affrontare la questione del public housing, il sindaco di NYC, William O’Dwyer aveva nominato un comitato per risolvere in termini assolutamente unilaterali il problema degli slums, affidando a Moses il ruolo di presidente. Attraverso quel comitato, Robert Moses controllava il rinnovamento urbano a New York, attuando un programma più esteso che in qualsiasi altra città americana. Che tra l’altro ebbe effetti rovinosi sulla Black Community, cui Moses era profondamente avverso [15].
Gli slums newyorchesi erano presenti sia in aree centrali (es. a Manhattan, a Lower East Side), sia in vasti ambiti tra cui il Bronx e il South Bronx, costituiti da interi complessi di tenements (edifici multipiano a torre). Autori come l’iconico scrittore nero James Baldwin affermarono a chiare lettere in qual misura il rinnovamento urbano, condotto da Moses, coincidesse con la rimozione dei neri dai luoghi di residenza, sostenendo quanto: «Urban Renewal means Negro Removal» [16]. La politica dello slum clearance di Moses, infatti, puntava a mandare via la comunità nera per poi demolire interi slums, riqualificando solo in apparenza, attivando pesanti dinamiche di gentrification, espungendo le comunità afroamericane e quelle più povere dai quartieri di residenza, mentre si cancellavano tessuti sociali e fisici storici, come era stato fatto con l’autostrada urbana del Bronx.
Un documentario di Matt Tyrnauer, Citizen Jane: Battle for the City, rende più chiara la questione, mostrando esempi di quartieri nati negli Stati Uniti, tra essi Pruitt-Igoe, un enorme complesso costruito tra il 1954 e il 1955 a Saint Louis, nel Missouri, progettato dell’architetto Minoru Yamasaki, autore delle torri del World Trade Center a New York City. Dopo la conclusione dei lavori, le condizioni del quartiere iniziarono a decadere, mentre si manifestava una preoccupante crescita della micro-criminalità. Nel 1972 un primo edificio del complesso fu demolito mentre i restanti trentadue furono rasi al suolo nei due anni successivi. Tale emblematico fallimento provocò un intenso e sofferto dibattito in campo internazionale, ponendo sotto esame il modello residenziale e le politiche urbane che avevano generato siffatto esito.
Gli edifici dei quartieri ghetto (come Pruitt-Igoe) erano strutturati in superblocks, grandi isolati che necessitavano dell’uso dell’auto, sulla cui ipertrofia si concentrava la critica di autrici come Jane Jacobs che, con la sua opera e con il suo costante attivismo, contrastò efficacemente il “modello Moses”. L’urbanista, infatti, sosteneva che l’eccessiva presenza delle automobili, delle highways intra-urbane, e degli spazi privatizzati in città avrebbe snaturato i luoghi allontanando le persone dagli spazi pubblici, intesi come spazi sociali di aggregazione.
I quartieri come il South Bronx, dunque, erano in quegli anni caratterizzati da forti e contraddittorie dinamiche endogene ed esogene. Il crollo economico del distretto, collegato pure alla crisi industriale del settore manifatturiero, fu attribuibile anche al transito alla produzione basata sulla tecnologia, e vide il trasferimento di numerosi comparti industriali, come ad esempio, quello relativo alla produzione di giocattoli, prima localizzata per il 40% nel Bronx. Questo settore altamente produttivo, così come altri, già dagli anni ’70, si erano trasferiti altrove.
Le politiche di Starr, in particolare con il già citato Planning Shrinkage, miravano nel Bronx a ridurre i servizi di base, a chiudere le scuole, tagliando l’illuminazione pubblica in aree già degradate spingendo, così, all’abbandono e facilitando lo slum clearance di Moses. Tali politiche interrelate a numerosi altri fattori, avevano trasformato il distretto in un luogo spettrale dove molti giovani erano impossibilitati a raggiungere le scuole, troppo lontane per la riduzione o abolizione delle corse dei bus e della metro. Nel contempo lo squarcio della Cross Bronx Expressway aveva provocato la distruzione di circa 60 mila edifici, mentre circa 170 mila abitanti erano stati sfrattati e ricollocati in aree prive di servizi e reti fognarie. Le vecchie abitazioni avevano subìto un deprezzamento a danno anche dei vecchi proprietari, mentre il South Bronx veniva occupato dai nuovi immigrati che in gran parte avevano lavorato alla costruzione della autostrada urbana.
In quella fase, fine anni ’60, numerosi conflitti interetnici tra gang giovanili segnavano le strade, mentre gli interventi della polizia locale esprimevano intransigenza e durezza nei confronti non solo dei neri. Le gang in guerra reciproca, fortemente territorializzate e in una certa misura gregarie delle famiglie, controllavano i singoli isolati. Intorno al 1971 l’escalation della violenza spinse i capi delle bande a organizzare The Hoe Avenue Peace Gangs Meeting, avvenuto l’8 dicembre 1971 al Boys Club. Dopo questa azione gli scontri diminuirono, mentre crescevano sia alcune forme di protesta, come il graffitismo (prima utilizzato per marcare i confini territoriali di pertinenza delle bande, poi trasformato in un movimento di espressione [17] e di rottura con le ideologie delle categorie forti e degli stakeholders, e in seguito con il mercato tradizionale dell’arte), sia una coscienza collettiva rispetto alle condizioni di vita estremamente problematiche e contraddistinte, peraltro, dalla diffusione di droghe pesanti e letali, come il crack. In quella stagione, difficile per l’intera città di NY in crisi fiscale e quasi in bancarotta nel 1975, il Bronx era conosciuto come “ghettos of ghettos”, “the stain”, “the cancer”, “the city of despair”, uno stigma che la classe politica più reazionaria e alcuni film confermavano pianamente [18].
Lo stigma [19], screditante, attivo a livello internazionale, e la retorica negativa sul Bronx venivano confermati non solo dalle scelte politiche, ma dalla diffusione mediatica di notizie parziali e dai fittizi interventi dei governanti. Nel 1977 ad esempio Jimmy Carter visitò il distretto e nel 1980 Ronald Reagan, candidato alla Casa Bianca, competitor e vincitore nella battaglia elettorale con lo stesso Carter, si recò nel quartiere rimarcando gli errori e i programmi, a suo parere fallaci, che la porzione progressista aveva proposto per opporsi al declino del distretto.
La fase degli anni ‘70, nota come “Decade of fire” fu, peraltro, contrassegnata da continui incendi che contribuirono a gentrificare quasi 250 mila persone cresciute tra le macerie, devastando l’80% circa dell’intera area urbana. Il messaggio mediatico puntava ad attribuire le colpe dei roghi agli abitanti, come se gli incendi fossero meri atti vandalici compiuti per ottenere l’assegnazione di case popolari. Essi, invece, nascevano dall’intersezione e dagli effetti incrociati tra le condizioni reali del distretto, gli eventi storicizzati, le politiche locali e le scelte federali. E quasi sempre erano appiccati da ragazzini pagati pochi dollari dai proprietari che, riscuotendo affitti deprezzati e non investendo più in opere di manutenzione, optavano per tali scellerate soluzioni, destinate a consentire l’incasso del premio dell’assicurazione. Sin quando le compagnie assicurative cambiarono le condizioni contrattuali, non pagando più gli indennizzi per i danni causati dalle fiamme.
Gli incendi, quindi – solo nel 1974 ve ne furono più di 10 mila – non erano frutto di singole scelte, ma erano il precipitato di una serie di fattori co-agenti, che influenzavano le decisioni individuali. Sia sui proprietari delle case sia sui cosiddetti piromani. Nel volume South Bronx Rising. The Rise, the Fall, and Resurrection of American City[20], sono raccolte alcune testimonianze dalle quali si evince quanto tali incendi fossero programmati, per le ragioni già espresse, facendo leva sul desiderio degli abitanti di poter accedere all’housing sociale. Lo stesso stigma alimentato dall’incremento della criminalità, dalla diffusione del crack, dagli incendi, divenne poi un mezzo utile all’establishment per ignorare le proprie responsabilità e per evitare di agire in modo sistemico. Soprattutto durante e dopo la crisi finanziaria del 1975, si iniziarono a tagliare i servizi antincendio in zone dove questi sarebbero stati indispensabili. Roger Starr si espresse chiaramente affermando che l’unica possibilità perseguibile era l’abbandono di quei quartieri ritenuti da lui irrecuperabili. Se, come è noto, numerosi studi testimoniano che l’offerta e l’efficienza dei servizi condizionino l’andamento e i movimenti demografici, appare chiaro, quindi, che tagliare i servizi di base, secondo la logica di Starr, equivaleva ad attivare fenomeni indotti che Starr stesso definiva “spontanei” e che avrebbero condotto allo svuotamento dei quartieri, perseguendo lo slum clearance caldeggiato e promosso da Moses.
In questo scenario post bellico abitavano afroamericani, alcuni portoricani (più stabilmente presenti a Brooklyn e, soprattutto, ad Harlem) e giamaicani. Interi ambiti furono via via distrutti, tra essi Charlotte Street o il quartiere di Soundview, che nel 1970 contava più di ottocento edifici, ma all’inizio degli anni ’80 ne annoverava in piedi solo nove.
Il DJ Kool Herc (Clive Campbell), con la sua famiglia, faceva parte dell’ultima ondata di migranti, prima insediatisi nel Western Bronx. Di origine giamaicana, i Campbell erano arrivati nell’America del Nord nel 1967 e si erano appunto insediati in un tenement di Sedgwick Avenue al 1520, molto vicini alla Cross Bronx Expressway, in prossimità dello Yankee Stadium. Clive frequentava una High School, praticava il writing, molto diffuso dopo il meeting di pacificazione dell’8 dicembre 1971. Numerosi gruppi in quel momento operavano, sui muri, sui vagoni della metro, e Clive faceva parte di una importante crew, quella degli ExValdals, guidata da Dino Nod e da altri esponenti di rilievo del writing: Wicked Gary, Kings of Kools, Wicked Wesley, Conrad is Bad, Flin, Big Time Glass-Top, cui si aggregò anche Phase 2 [21] (Michael Lawrence Marrow), un afroamericano nativo del Bronx tra i fondatori del wild style, insieme a Tracy 168.
Phase 2 fu un artista iconico, writer, rapper e b-boy. Iniziò a dipingere nel 1971. Nel 1974 fondò un collettivo di writer, la United Graffiti Artists, ed ebbe un ruolo fondamentale nella formazione della cultura Hip Hop, ispirando numerosi rapper e partecipando a spettacoli, tra cui uno organizzato dalla promoter Kool Lady Blue, nel 1982. L’evento fu tenuto a Chelsea (a Manhattan) quando l’intera scena mondiale aveva oramai riconosciuto sia il Rap che l’Hip Hop; in questa, come in occasioni simili, i writer, oltre a produrre graffiti e street art, curavano la grafica dei volantini e si esibivano sul palco. Sempre nel 1982, Phase 2, con altri artisti del Roxy NCY, un locale di Chelsea dove si era tenuto il concerto del 1982, pubblicò due singoli: Beach Boy, con Barry Michael Cooper, poi parte della colonna sonora del film New Jack City [22], e The Roxy, con Material, e con il DJ Grand Mixer DXT.
Gli anni in cui la famiglia di Kool Herc arrivò a NYC la musica giamaicana non era ancora esplosa sulla scena mondiale, Bob Marley infatti irromperà nel 1975 sul mercato internazionale. Inizialmente i giovani arrivati da Kingston furono attratti dai musicisti neri come il già citato James Brown, dai brani funk o R&B e, abitando al Bronx o in altre enclave nere come Harlem (a Manhattan), frequentavano i block e gli house party che la comunità nera organizzava, per strada o negli spazi comuni dei condomini, non potendo frequentare i club dove si ballava la disco, nata in origine in seno alla comunità gay (più abbiente). Come nel Rap anche nel caso della disco music i brani, mixati dai DJ, producevano un continuum musicale senza interruzioni. V. Aletti, un giornalista dell’importante magazine «Rolling Stone», nel 1973, ne scrisse, mentre nel 1977 il regista J. Badham girò un film di enorme successo, La febbre del sabato sera, (Saturday Night Fever [23]) che, oltre a lanciare J. Travolta, mostrava la vita dei giovani bianchi americani, molti di origine italiana, nelle discoteche dove non entravano i neri, sia i ragazzi che le ragazze.
La festa dell’11 agosto, un “back to school party”, fu allestita oltre che da Kool Herc, dalla sorella del DJ, Cindy [24]. Kool, assiduo frequentatore delle feste organizzate dai portoricani (es., i Ghetto Brothers), aveva potuto notare che il break, cioè la parte strumentale delle percussioni, era quella più amata dal pubblico. Battezzata come “the get-down party” fu da Kool Herc isolata e suonata a ripetizione, utilizzando un’altra copia del disco su un altro piatto, facendo andare in loop la serie ritmica delle percussioni.
Quel giorno di agosto, The Day One, Kool Herc coinvolse Coke La Rock, come MC, Master of Cerimony, una specifica figura che animava la festa, parlando ritmicamente sulla musica, mentre frasi come “You rock and you don’t stop”, incitavano i ballerini a non fermarsi, mentre i b-boy, cioè i dancer di breakdance si esibivano. Quel party fu l’inizio di una lunga e intensa stagione, ma dal 1974 circa le feste iniziarono a svolgersi, contando oramai tanti partecipanti, per strada, ad esempio a Cedar Park, nel Bronx o in alcuni locali, come il Twilight Zone o l’Hevalo dove Kool Herc promosse brani cult, come Apache, della Incredible Bongo Band [25]. Quel brano era utilizzato dal DJ come incipit del cosiddetto Merry-Go-Round [26] (la giostra) che in origine impiegò un altro pezzo cult, di J. Brown, Give it up or turnit a loose (con il suo refren, “Now clap your hands! Stomp your feet!”). La tecnica del Merry-Go-Round, influenzò altri DJ, tra cui Grand Master Flash o Grand Wizard Theodore, che svilupparono ulteriori capacità, tra cui il turntables con il cutting, lo scratch e il beat juggling.
Oltre alla appropriazione dei luoghi, in una fase in cui il Bronx andava letteralmente a fuoco, ridotto in macerie e abbandonato dagli amministratori, l’Hip Hop configurava una identità collettiva che, partendo dalle condizioni urbane e sociali vissute nella città, utilizzava la città stessa come luogo cardine dell’espressione e come teatro della stessa. Esisteva, infatti, un doppio legame tra i luoghi, ri-territorializzati e la nascente controcultura. La Comunità urbana dei giovani neri, al Bronx, aveva inventato una maniera per esprimersi. Con il tempo, grazie all’azione di altri pionieri, come il già citato Gran Wizard Theodore (noto per essere considerato l’inventore dello scratch [27]) e in virtù dell’esplosione del fenomeno e di gruppi che ebbero successo sul mercato internazionale, come i Run DMC (fusione tra Rap e Hard rock) o soprattutto i Public Enemy (testi forti e grande attenzione ai temi politici e alla Comunità afroamericana) Rap e Hip Hop divennero mainstream. Una serie di documentari canadesi, distribuita da Netflix, Hip Hop Evolution, e inizialmente rilasciata su HBO Canada, narra, attraverso la voce del rapper Shad, l’evoluzione del fenomeno culturale, dai suoi esordi durante gli anni ’70.
La cultura Hip Hop visse un incremento in coincidenza con il lungo blackout del 13 luglio del 1977. Durante quella notte senza luce furono saccheggiati negozi e centri commerciali, e uno tra i più influenti DJ, Granmaster Caz, disse che dopo quella lunga interruzione aumentarono i gruppi di DJ che organizzavano feste o rappavano, probabilmente per la maggiore disponibilità di attrezzatura tra cui piatti, casse, amplificatori, giradischi e drum machine.
Già in quella fase il Rap [28], un potente strumento di riscatto, era diviso in due movimenti, uno ludico [29], legato al ballo e al divertimento, l’altro più “politico”[30], ispiratore di una feconda compagine successiva e focalizzato a sviluppare stile e contenuti sociali con gruppi come i Grandmaster Flash [31] o Africa Bambataa, inserito da «Life» nel 1990 nel novero degli americani più importanti del XX secolo. Già nel 1973 Bambataa fondò la Bronx River Organization (poi Zulu Nation) che, in alternativa alle gang, promuoveva “Peace and Unity”, slogan della organizzazione stessa che caldeggiava pacifismo e orgoglio nero, anche con i testi dei brani. I messaggi veicolati erano di grande rilevanza, infatti i membri della Zulu Nation non potevano vendere droga o drogarsi (in quella stagione NYC e il Bronx in particolare erano luogo di consumo di crack [32] una pericolosa sostanza che come già accennato mieteva vittime).
Una interessante Serie The Get Down, distribuita da Netflix, dal 2016, e prodotta e diretta da Buz Luhrmann e Stephen Adly Guirgis, racconta l’esordio dell’Hip Hop nel South Bronx. Certi protagonisti, come il giovane poeta Ezekiel che riceve lezioni di musica da Granmaster Flash, rimandano ad alcuni personaggi reali, come Kool Herc. Nella storia di Ezekiel [33] riecheggiano, infatti, vicende vissute dai primi rapper nativi del Bronx, le loro contraddizioni e la spinta a controbilanciare, con la forza eversiva e rivoluzionaria dell’Hip Hop, l’abbandono e il disagio esistenziale e sociale del loro quotidiano.
La Banlieue francese e il Rap franco-maghrebino, la rabbia e la poesia, tra Marsiglia e Parigi
Pur non essendoci legami troppo diretti tra il Rap delle origini e quello franco-maghrebino, in entrambi i casi tali espressioni controculturali nascono dalla tensione tra le forme organizzative socio-spaziali del potere e la condizione di vita, non sempre vissute passivamente, dei migranti o di altre categorie fragili o svantaggiate.
La banlieue materiale e immateriale, sociale e simbolica, di numerose città francesi, tra esse Parigi e Marsiglia, è stata ed è, oltre che un luogo concepito in base a una visione discriminante e coloniale, un ambito di produzione di una forma peculiare, diffusasi anche in altre parti della Francia urbana: il Rap franco-maghrebino, nato a Marsiglia circa trent’anni fa, indipendente, popolare e in alcuni casi di successo, prodotto da giovani originari del Nord Africa, figli dell’immigrazione dal Maghreb. Questi autori e queste autrici (le rapper sono poche rispetto agli uomini), alla stessa stregua dei giovani abitanti del Bronx, possono essere definiti “cittadini e cittadine incompleti”. Discendenti di una vasta compagine di migranti che giunsero in Francia, questi giovani possono essere intesi come visibili contro interpreti di una lunga storia contraddistinta dall’invisibilità dei loro genitori. I rapper, in tal senso, sono importanti attori che esprimono: da un lato la domanda di riconoscimento dei diritti concreti e non teorici di cittadinanza, dall’altro il duplice sentimento della rabbia e dell’acredine ormai incarnato nel loro difficile quotidiano.
I testi, la dura poesia, la stessa rabbia, i video che raccontano impietosamente la banlieue, sono una trama fondamentale per riflettere sulla segregazione, e per evidenziare, confrontandole, le differenti narrazioni, quella mediatica e predominante che edifica lo stigma e lo stereotipo di categoria, e quella che proviene dai rapper stessi, singolari romanzieri del romanzo della vita nella banlieue. Dai testi e nei video dei rapper, infatti, emerge la realtà autentica di una comunità tartassata, il disagio di un vissuto quotidiano sfiduciato, consumato per strada e caratterizzato da perdite, assenze, carenze e mancanza di opportunità. I brani oltre a dichiarare rabbia e rivendicazioni, hanno il potere di costruire comunità che si riconoscono nella narrazione condivisa. Spesso tale rabbia – che appare il sentire dominante, insieme allo sconforto – si configura come risposta “politica” e rivoluzionaria, riguardo allo spazio-ghetto della periferia e rispetto a due parametri basilari, il potere e lo status, rappresentativi dell’esistenza dolente dei cittadini francesi di origine maghrebina.
Il Rap franco-maghrebino non aiuta solo a ricostruire la parte in ombra delle storie di vita dei migranti, ma a ragionare sulle forme dello “spazio assegnato” [34] dalle politiche e dalle scelte di governo, spazio in cui i migranti sono costretti a vivere. Nodo trattato da numerosi brani, in profonda analogia con quanto accadeva al Bronx, dai rapper che negli anni ’70 privilegiavano i contenuti politici e sociali. A tal proposito è utile citare il pezzo, Le quartier dei Fonky Family [35] che raffigura il quartiere come l’unico possibile teatro di esistenze stentate, tra padri spesso assenti, madri a servizio, droga, arresti, ragazze incinte prematuramente.
Occorre specificare che, riferendosi alla “cittadinanza incompleta”, si richiama uno status concreto, un corpus di politiche, e la condizione dei migranti, destinatari di azioni (pressoché impossibilitati a rispondere in termini civici) e raccontati dal potere istituzionale e dai media in modo ambiguo, ma sempre espunti: nel contempo “cittadini” teorici e “oggetti” stranieri, da criticare e soggiogare. In tale contesto i rapper, quasi tutti nativi delle banlieue o dei sobborghi, tutti “banlieusards” [36], in prevalenza abitano i Grands ensembles (gli HLM, habitations à loyer modéré, estesi quartieri costituiti da macro isolati, spesso location delle clip) siti nelle cosiddette ZUS, Zones Urbaine Sensibles, a forte presenza e densità abitativa nordafricana. Luoghi problematici, rappresentati da moltissimi rapper, tra cui Kery James [37] che, in Banlieusards, descrive la condizione marginale e contraddittoria di chi, pur padroneggiando la “lingua di Moliere”, rimane irriducibilmente escluso.
Gli IAM [38], uno dei gruppi storici della Nord Africana Marsiglia, dove su un milione di abitanti vi sono quasi 250 mila musulmani, in Les Raisons De La Colère, mettono in evidenza quanto l’incidenza della descrizione dei media dei migranti sia una delle “ragioni” della rabbia espressa. Ed è in tal senso che il Rap può essere considerato come uno dei modi di azione collettiva dei giovani che vivono nelle banlieue, una voce da ascoltare per costruire strumenti non impositivi che possano innescare nuovi percorsi per migliorare le condizioni, favorendo anche forme partecipative e di autorganizzazione.
Dai brani emerge la volontà di ribaltare le colpe attribuite ai migranti dallo Stato, come pure le responsabilità delle istituzioni, come notano i Fonky Family in Haute tension o i Supreme NTM [39] in Odeurs de soufre, la mancanza di politiche sociali, e quell’individualismo che contribuisce a disegnare l’“inferno” delle banlieue.
Le ZUS, dove sorgono i quartieri ghetto, identificate con la legge 96-987/1996, sono assai numerose: delle 751 inizialmente identificate, 718 erano in ambito metropolitano. La Legge, definendo tali zone, attesta che esse siano oggetto di aiuti ed esenzioni. Abolite nel 2015 e sostituite dai distretti prioritari (quartiers prioritaires), rappresentano una porzione di un più ampio contesto, infra urbano o periferico, interessato solo in parte da contratti urbani mirati alla coesione sociale. Successive leggi, nel 2003 e nel 2005 hanno affrontato, con programmi di rinnovamento urbano sempre in modo sostanzialmente debole o autocrate, la ristrutturazione dei quartieri caratterizzati dalla presenza dei Grands ensembles, dove vivono altissime quantità di residenti.
La genesi della periferia-ghetto e la sua modificazione, lenta e stratificata, vanno ricondotte alla interrelazione tra scelte politiche e fenomeni migratori, e possono essere esplorate anche tramite le “fonti non convenzionali” [40], tra cui cinema e letteratura che mostrano l’abitare marginalizzato, le culture presenti, le identità in rapporto ai fenomeni storici, urbani, spaziali e di potere.
La formazione degli insediamenti periferici in Francia (le cosiddette “cités”) – interconnesse al processo di “ridefinizione” delle baraccopoli dove inizialmente abitavano i migranti – ha radici alla fine dell’Ottocento (1880 circa) quando, post e durante la fase di esordio dello sviluppo industriale (1850-1918), iniziarono a giungere in Francia milioni di persone dal Maghreb. Intorno al 1910, infatti, nelle fabbriche francesi vennero assoldati numerosi lavoratori algerini, concentrati a Parigi, Marsiglia o nella Regione del Pas-de-Calais [41].
Con la Prima Guerra mondiale, e poi dal 1921 al 1955, la migrazione maghrebina, a dominante algerina, aumentò ulteriormente. Dapprima i “lavoratori coloniali” sostituirono nelle fabbriche i francesi in guerra, ma già dal 1916 fu reclutato circa un milione di migranti, di cui i tre quinti furono impiegati nell’esercito, molti di essi morirono, mentre la maggioranza dei sopravvissuti fu rimpatriata nel primo dopoguerra. Un fenomeno analogo si riscontrò anche durante il Secondo Conflitto mondiale. In seguito, quasi 3 milioni (nel 1962, circa 5,2 milioni) di migranti arrivarono in Francia dalle ex colonie [42], attratti da incentivi e politiche del Governo. Dal 1954 al 1975 si registrò, nonostante un maggiore controllo sull’immigrazione, un aumento demografico, macroscopico nelle cinture urbane esterne abitate dai migranti (già nettamente caratterizzate dai Grands ensemble).
Quando negli anni ‘50 la grande onda migratoria rese più impellente la costruzione di abitazioni, le politiche francesi governative, soprattutto dal 1953 al 1960 e sino al ’75, iniziarono a pianificare i quartieri residenziali che, secondo le teorie espresse, avrebbero dovuto risolvere il disagio abitativo dell’enorme mole di coloro che già dimorava nelle bidonville. I Grands ensemble – edificati a basso costo, una distorsione esasperata del modello “Le Corbusier” – che avrebbero dovuto rimpiazzare le baraccopoli, si configurarono, invece, come vere e proprie città alienanti che manifestavano e producevano, ab origine, segni di deterioramento sociale e fisico. Localizzati in varie città industriali, a Parigi a Est e Nord, e in alcune aree Est più centrali, oltre che nelle corone periferiche, ancor oggi rendono evidente la difformità interna dell’immensa banlieue parigina (L’Area metropolitana è costituita da 780 comuni).
La banlieue contemporanea, a Parigi già in parte “tratteggiata” durante la fase haussmanniana, e a Marsiglia (soprattutto nei quartieri a Nord, dove vivono i musulmani del Maghreb e quelli originari delle Comores; o nel Vecchio porto) connessa soprattutto allo sviluppo industriale e dei cantieri navali, registra ancor oggi una crescita demografica (soprattutto a Parigi “centro” vi è un trend inverso) e non è omogenea. Nella Capitale è costituita da molteplici ambiti dove vivono e lavorano i benestanti definiti Français de souche (“Francesi dalle radici”, con riferimento alla discendenza e all’etnia caucasica) e da un ampio contesto degradato e fatiscente caratterizzato da disoccupazione (ben oltre il 50-70%) [43], uso e traffico di droga [44], dispersione e abbandono scolastico, carenza di servizi e spazi pubblici, criminalità.
Luogo di malessere sociale, di proteste (dal 1968, quando erano definite “Banlieues rouge”, fino ai giorni nostri), le banlieue, sono e furono un epicentro in cui prevalsero da un lato terribili misure repressive (es. il “massacro di Parigi” del 1961) e dall’altro, inizialmente, alcune rivolte pacifiche, come la Marche puor l’égalité et contre le racisme (“la marche des Beurs”) [45], del 1983, da Marsiglia, definita da Harlem Désir, fondatore di Sos Racisme e dal 2012 segretario del Partito socialista francese come «l’irruzione nel dibattito politico dei figli dell’immigrazione» [46].
Alle forme di protesta sociale poco organizzate, soprattutto per l’atteggiamento governativo rigido e non incline a costruire un dialogo peer to peer, a seguito della grande disillusione collettiva dei giovani consapevoli di essere “cittadini incompleti”, prevalsero azioni come quelle del 1995 e del 2005, culminate nei roghi e nelle rivolte iniziate a Clichy-sous-Bois [47] e poi diffuse in molte aree urbane. Episodi raccontati in alcuni pezzi, es. Banlieusard di Kery James o in Niquer le système di Sniper [48], dove si afferma: «La France accueille à bras ouverts (…) Mon coeur abrite la souffrance des colonies».
È quindi proprio nei testi dei rapper che si legge con chiarezza, oltre alla rabbia, il racconto di tale disinganno, come afferma Youssoupha [49] in À force de le dire [50], per ribadire la propria storia di vita e la propria collera, il disincanto rabbioso oramai cronicizzato dall’assenza di azioni, dallo sfruttamento, dalle derive del consumismo, dalla lunga storia di vessazioni, e soprattutto dell’organizzazione capitalista, dalla diseguaglianza come condizione ineluttabile, dalla mancanza di qualità dei luoghi di vita, efficacemente rappresentati nelle clip di moltissimi brani [51].
La Banlieue abitata dai franco-maghrebini, oltre a essere un ghetto, si traduce nei testi (vedi, Ma ville e ma vie, di Naps [52]), in un gravoso confine interno, interiorizzato, ambiguizzante, che separa i luoghi centrali da quelli periferici e che soprattutto divide i cittadini privilegiati dagli altri. Luogo da distruggere, da amare, da cui fuggire, denso di conflitti, da ricusare sia materialmente, sia per le narrazioni istituzionali (i media hanno equiparato il flusso dei migranti, a un’“invasione verticale di barbari” [53], definiti da Sarkozy, tra i politici più odiati e più duri, “racaille”, feccia).
Le prospettive interpretative statali (quella di Sarkozy e di molti politici precedenti e successivi), che ignorano le difficoltà delle generazioni presenti e antecedenti [54], restituiscono, infatti, i giovani con stereotipi standardizzati (arroganza, violenza, pericolosità); mentre le politiche – che hanno generato il binomio migranti/spazio – producono segregazione e dispute difficili da sanare, che innescano netta opposizione e violento odio verbale reattivo, senza intermediazioni: come afferma Mister You, in Lettre au président [55].
Le risposte, dirette e gravide d’odio dei rapper, declinate con un linguaggio che deride il lessico borghese, sono in tale assetto funzionali a ricreare una propria alterità, tra l’essere rifiutati e il voler essere cittadini francesi, non omologati. Il Rap, quindi, esprime un dissenso preciso, mantenendo la propria durezza e “indistruttibilità”, distinguendo i giovani testimoni (i rapper) dalla “massa” («Naître pour n’être qu’un numéro de dossier», dice Sinik [56], in Zone Interdite), considerata dai francesi “puri” e dai media, rovinosa e indifferenziata (secondo una tradizione descrittiva miope e strumentale, presente fin dall’inizio delle migrazioni dei maghrebini in Francia).
Come apprendiamo dal già citato brano, Les Raisons De La Colère (IAM), il Rap si configura come una duplice “pratica urbana”, di rivolta e di “resilienza” sociale [57] e, in un certo senso, di ri-territorializzazione più simbolica che materiale (tra appartenenza e avversione per i luoghi), di chi ha imparato a difendersi e a manifestare con i testi (il racconto) e le azioni (le rivolte). A differenza del Rap delle origini, nei brani dei rapper francesi prevale nettamente sia l’aspetto sociale e politico, oltre quello di appartenenza a una cultura diversa e non accettata dalla Nazione ospitante, sia quello religioso, mentre grande evidenza viene data alle condizioni materiali di vita, come dice il rapper Sinik, in Sarkozik, «Bienvenu en banlieue (…) le ghetto français».
In questo quadro, che mette in luce gli atti statali e istituzionali e il mancato “diritto alla città” [58], è utile sottolineare da un lato la rigidità e la “sordità” delle istituzioni, dall’altro quanto le azioni locali più proficue siano mosse da Associazioni di quartiere del terzo settore (es. Le réseau régional des sociétés de migrants; Enfants d’aujourd’hui, Monde de Demain; Approches Cultures et Territoires, a Marsiglia) o dalle parrocchie, che puntano a un’azione sul campo, per trasformare la rabbia ricorrente, a volte paralizzante o autolesiva, in riscatto civico. Quella rabbia che tracima dai brani di numerosi artisti e artiste, tra queste Keny Arkana che, in La Rage [59] ne spiega il radicamento e le innumerevoli declinazioni.
Dai testi e dai video, inoltre, emerge la stretta relazione con la strada («La rue c’est ma femme les voyous m’appellent papa», come si afferma ne L’Itinéraire di Mister You [60]), e il radicamento urbano [61] (ai quartieri e soprattutto a Marsiglia, «Ma putain de vie, c’est le quartier mais le quartier c’est pas le vie», ne Le quartier di Fonky Family), il forte sentimento di appartenenza ai luoghi, emozioni consustanziali di tale incompletezza, tra l’essere francesi (pur volendo mantenere le proprie radici) e l’essere considerati per sempre con un ossimoro: (colpevoli) cittadini temporanei e stranieri. Va sottolineato, dunque, quanto nei testi dei rapper il rapporto con la strada, luogo cardine sia degli scontri, sia delle relazioni sociali, manifesti tale duplicità, tra attaccamento e odio critico: il rapper Jo Le Phéno, in La Rue [62] ne descrive gli aspetti rischiosi e le regole autoprodotte, mentre Kamelancien, coerentemente, in Le charme de la tristesse, con amara ironia, enfatizza quanto il quartiere “marchi” le persone, mentre gli IAM, nel bellissimo brano già nominato, Les Raisons De La Colère [63] mettono in luce il contraddittorio radicamento con la strada, quasi fosse l’unica grande pedagoga, dispensatrice di insegnamenti pratici.
Come già anticipato, a seguito delle ondate migratorie, alla crisi abitativa e alla trasformazione della Nazione da rurale a urbana, furono edificati, ai bordi delle città dense, i Grands Ensembles e gli HLM, attraverso le ZUP (Zone à Urbaniser par Priorité), introdotte in Francia nel 1959 [64]. Gli HLM, che danno una repressiva forma spaziale alla repressiva forma politica, sorsero massivamente tra la metà degli anni ’50 e i primi ’60. Voluti dai tecnocrati e dai politici francesi, applicarono i principi di un’urbanistica autoritaria e di un modello storicizzato che trasferiva la prassi del potere centralizzato (politico e in questo caso relativo al sapere urbanistico di tipo elitario) sullo spazio.
Gli HLM trapiantarono sul territorio del Novecento le derive delle città segregate del secondo Ottocento e del Movimento Moderno, dei dettami costruttivi (cemento armato), dell’organizzazione formale dello spazio (macro-isolati; spazi pubblici assenti o dal disegno “metafisico”; penuria di aree verdi ridotte a qualche sporadico albero) e della conseguente viabilità interna. Gli estesi quartieri disconnessi dalla “città centrale”, costituiti da spazi omologati, senza servizi comuni, edificati con materiali a basso costo, divennero subito crocevia di contraddizioni, disagio e rivolta, rappresentazione esplorabile della responsabilità delle istituzioni e della collisione tra culture differenti non dialoganti. Va ricordato che gli HLM furono promossi dall’amministrazione francese, mentre H. Lefebvre scriveva un saggio sulla Comune di Parigi e apriva un fecondo ragionamento sul “diritto alla città”, come si dirà più avanti.
Inizialmente gli estesi alloggiamenti furono occupati anche dalla classe media (poi trasferita in aree centrali o suburbane, collegate e servite) e da altri gruppi, come peraltro sostiene lo scrittore di origine algerina Nadir Dendoune [65], nato nel 1972 e cresciuto nell’Ile Saint-Denis, a Nord di Parigi. Egli con chiarezza spiega che, se nei primi anni ’80 ancora gli HLM erano abitati da persone a basso reddito, francesi, europei dell’Est, oltre a neri e arabi, nel corso di un ventennio crebbe la presenza di immigrati provenienti dalle ex colonie nordafricane. In quel contesto socio-abitativo – pessime scuole, nessuna azione governativa, disoccupazione endemica – la periferia migrante divenne un ghetto-prigione da cui è davvero molto difficile evadere. Appare superfluo sottolineare le analogie con il Bronx degli anni ’70.
Ancor prima degli HLM le bidonville divennero la “casa” dei numerosi migranti, giunti in Francia fin dagli anni ‘40, sia quando le politiche nazionali favorirono l’immigrazione dal Portogallo e soprattutto dal Maghreb, sia in seguito al flusso per il ricongiungimento familiare. Nel 1970 il 6% della popolazione francese, infatti, era “straniera” (termine ricorrente nel linguaggio politico, dei media, in quello comune e nei testi rapper, (vedi, Bavure 2.0 [66] di Jo le Phéno) e in gran parte abitava gli HLM. Trasposizione distorta del “sogno” dell’abitare collettivo, tali insediamenti tradussero in spazio abitato l’opportunismo economico e politico francese che ghettizzò uomini e donne attratti dalla promessa di diventare “cittadini/e francesi”.
L’esclusione dalla città centrale, fisica e simbolica, la strutturazione spaziale interna, rendeva gli HLM alieni alle culture dei migranti (alla cultura di chiunque, in realtà [67]), mentre rendeva, soprattutto in precedenza, difficoltosa ogni forma di auto-organizzazione [68], dimostrando come l’urbanistica top-down, al servizio di una politica dispotica e reazionaria, esautorasse qualità fondamentali, ma pericolose per le istituzioni, quali: partecipazione, autodeterminazione civica, concertazione, integrazione sociale. Bloccando la mobilità sociale, l’ordine autocrate, contrario al modo in cui un centro cittadino esprime la propria vitalità, con la suddivisione in rigide zone funzionali, produceva quartieri di “detenzione sociale” e comunità sofferenti e straniate, rendendo difficile, per il quotidiano dei migranti, non solo il dialogo tra le culture, ma la possibilità di reagire civicamente.
È in tal senso che il Rap, nato in seno ai ghetti, può essere inteso quale strumento “politico” e interpretativo, una “pratica sociale”, come suggerisce M. Certeau [69], da esplorare per ricostruire un quadro applicabile in vari contesti. Che declinazioni assumono i testi? Quali i sistemi di circolazione dei brani? Quali e in che modo i luoghi sono scelti o rappresentati? L’insieme stesso dei brani, le parole e i temi (ricorrenti), la musica, la gestualità, gli outfit, i luoghi, ci pongono davanti all’altra verità del contesto confermando che i “testi”, frammenti della “storia culturale”, non esistono senza i propri paratesti.
I pezzi si oppongono ai report computazionali delle istituzioni e dei media, includono un “discorso” sulle storie di vita (elaborate da specifici insider) e coniano un “linguaggio” [70] specifico e potente come un’arma («Je retranscris les joies et larmes les cris et drames, Dénonce l’État et ses méfaits car la bouche est une arme», in Niquer le système, di Sniper), dai cui emergono, oltre agli irrisolti già trattati, la restituzione dello spazio urbano, il potere, la disoccupazione, le disparità, le regole e la loro negazione (vedi Sarkozik di Sinik, «J’représente le block parce que la rue ça me concerne, J’arrive d’un monde ou la violence à tous les droits»), le speranze, le fughe, il rapporto con il femminile (nodo che andrebbe approfondito[71], sia per la schiacciante maggioranza di maschi tra i rapper, sia per la narrazione machista e sessista che spesso emerge sia nei testi, che nei video) e le identità religiose, questioni trattate in numerosi lavori dei rapper tra cui Kamelancien [72] che, ne Le poème du droit chemin, ribadisce quanto la retta via della fede e dell’osservanza possa essere salvifica.
Attualmente, pur non essendo possibile un censimento preciso, in Francia sono stimati circa 5 milioni di musulmani. Viene valutato, altresì, che di essi il 35% sia di origine algerina, il 25% marocchina e il 10% tunisina. Un insieme spesso identificato attraverso la religione vista come minaccia al modello laico francese, ancor più dopo il 2001. Tale stigma, narrato dai testi dei rapper, concorre alla percezione e all’auto-percezione dei giovani franco-maghrebini: essi, “marchiati” dalla propria origine araba e islamica [73], manifestano la propria opposizione con una sorta di orgogliosa resistenza che vuole confutare le colpe attribuite, come nota Sinik, in D.3.32, «Aucun remord, aucune putain d’excuse à présenter». Opposizione condivisa dalla maggioranza dei musulmani che rivendicano l’integrazione e la capacità di adattamento dialettico dell’islam ai contesti [74], come sostenuto da Azzedine Gaci (capo del consiglio regionale musulmano a Lione) [75].
Un aspetto ricorrente nei testi è dato dalla denuncia presente ai metodi della polizia e della giustizia. Tra il 1995 e oggi, possono essere citati innumerevoli casi di rapper sotto processo. Nel 1995 il gruppo Ministère A.M.E.R [76] fu posto sotto accusa per Sacrifice de poulets (poliziotto in gergo) e per l’istigazione all’omicidio, dal Ministro dell’interno Jean-Louis Debré. Nel 1996 per i brani Police e Mais qu’est-ce qu’on attend pour foutre le feu? un membro dei Supreme NTM fu condannato a tre mesi di carcere anche per aver gridato «Nique la police».
Nel 2002 Nicolas Sarkozy, allora Ministro degli interni, denunciò Hamé [77], dei La Rumeur, e nel 2003 Sniper (peraltro accusati anche di antisemitismo e definiti da Sarkozy «criminali che disonorano la Francia» [78]) per aver diffamato la polizia. Tra i brani incriminati, entrambi di Sniper, Jeteur de pierres, un forte testo politico di accusa (contro la mancata cittadinanza «J’écris et j’crie juste le combat d’un peuple qui s’bat pour sa patrie» e il potere colonizzatore, «puissance colonisatrice», che costringe: «a danse entre les balles pour esquiver un couvre-feu») e La France (del 2001) che mette in evidenza il grande tradimento della madre Francia («La France est une farce et on s’est fait trahir»), la democrazia fittizia, i rapporti di causa ed effetto esistenti tra le azioni di governo e le azioni dei migranti [79]. Tali frammenti, affrontando le condizioni del contesto in modo diretto e potente, rendono chiaro come siano nate quelle reazioni che non vanno certamente legittimate, ma possono essere considerate mezzo per svelare e capovolgere la narrazione istituzionale.
In questa storia di cittadinanze mutilate e lacunose, va osservata la dinamica conflittuale che, in più occasioni, mette in evidenza le strategie e i limiti del potere francese, nonché la castrazione delle attese generali e delle esigenze connesse all’abitare e al quotidiano dei migranti. Come afferma Rosaldo, l’idea statalista del «sedetevi e zitti. Sarete i benvenuti fintanto che vi adatterete alle nostre norme» [80], si fonda ovviamente sulla collocazione dei migranti nello “spazio prigione” degli HLM, luogo devastante sul quale riversare l’odio provato, come sostengono i Fonky Family, in Sans rémission: «Pourquoi on se calmerait, On vit pas dans des palmeraies». In tal senso la periferia degli HLM si mostra come strumento del controllo vessatorio, piuttosto che “errore” riconosciuto o spazio fluido di transizione da modificare, per esempio secondo le riflessioni valoriali di Lefebvre.
Tra i rapper che descrivono la realtà dell’abitare nei quartieri sensibili, Niro [81], in due brani, VivaStreet e Live in the ghetto, si segnala anche per un graffiante B/N, e per il “montaggio” urbano, dove la rappresentazione della strada assurge a metafora della condizione generale che spinge a vivere il quotidiano come se si trattasse di una guerra: «On vit ghetto, on meurt ghetto donc on meurt très tôt», proseguendo in inglese «Life in the ghetto is not easy not at all, You gotta be a soldier or you really gonna fall».
Per evidenziare la profonda antitesi tra l’idea di spazio urbano portata avanti dalle politiche francesi, e l’illuminata visione di Lefebvre è utile richiamare, anche se in sintesi, i principi dello studioso francese sul diritto alla città, utili a chiarire come durante la fase di realizzazione dei quartieri ghetto per i migranti, esistesse la possibilità di varare significative politiche in contrasto con quanto effettivamente accaduto. Se Marx aveva identificato il proletariato come fulcro della rivoluzione, Lefebvre identificava una differente categoria, quella dei soggetti urbani (gli abitanti) portatori del diritto alla città, pur mostrandoci come tale diritto non fosse né dato in sé, né sempre conseguentemente esercitato. Occupandosi delle dinamiche di produzione dello spazio, riflettendo sul ruolo del capitalismo e dei processi collegati quali attivatori di standardizzazione dello spazio, spesso disegnato dalla pianificazione razionalista, Lefebvre aveva messo in luce la crisi della città novecentesca, pianificata dall’urbanistica asservita al capitale o dai meccanismi della rendita.
Tale pianificazione, organizzando geometrie, confini e funzioni, castrava la complessità urbana, esautorando la popolazione non appartenente alla élite politica, sociale o economica, annullando le possibili trasformazioni dello spazio urbano nel tempo, originate “dalla base”. La pianificazione razionalista e le sue derive avevano da un canto prodotto, proprio mentre Lefebvre [82] scriveva (nel 1968, nel 1970, nel 1972), teorie e realizzazioni mirate a migliorare la qualità della vita delle persone, dall’altro avevano smarrito il senso profondo dell’urbano, dato sia dal valore d’uso, che dall’“opera”.
Le cités francesi degli HLM, infatti, pensate ed edificate secondo il valore di scambio, obliteravano il valore sociale e quello collettivo inibendo l’uso e la produzione dello spazio in modo più libero e autodeterminato. Ed è in tal senso che Lefebvre parla di diritto all’opera, identificando con esso, in sintesi, non solo l’uso dello spazio ma la possibilità di trasformarlo e di pensarlo collettivamente insieme a una sua evoluzione non eterodiretta nel tempo. Tale prezioso diritto non avrebbe dovuto essere, però, elargito, secondo un iter top-down, da un potere istituzionale che avrebbe consentito, demagogicamente, gradi di libertà agli abitanti, ma avrebbe dovuto essere alimentato dall’uso e dai meccanismi di appropriazione (non di proprietà) e dallo stesso diritto alla città (vedi: Lefebvre; Marcuse; Harvey; Friedmann; Don Mitchell; Susan Parnell; Edgar Pieterse; Salzano) intesi come parte dell’opera. Possibile se lo spazio urbano fosse concepito come sistema complesso in evoluzione e come valore comune da costruire collettivamente.
L’opera urbana alla Lefebvre era ed è, quindi, dicotomica alla standardizzazione capitalista e sarebbe stata la linfa collettiva che avrebbe consentito agli abitanti di sperimentare relazioni e rapporti esterni ai vincoli interni al potere che aveva, invece, prodotto le cités HLM e i modi di abitare connessi. Un «gruppo si appropria uno spazio, quando [...] lo modifica secondo i propri bisogni e le proprie possibilità» scrive Lefebvre. Perché ciò accada è necessario, però, che lo spazio sia co-progettato in itinere (non pensato solo da gruppi elitari, tecnici, politici, o da stakeholders), sia flessibile e nasca anche dall’osservazione, dalla ricerca sul “marquage social” e urbano degli abitanti, dalla loro libertà di immaginazione e di azione, scoprendo gli indizi ambientali nelle loro diverse declinazioni. Facendo ricorso a tutte quelle espressioni di desiderio presenti che, seppur non totalmente esplicite o intenzionali, incidono il territorio, costruendo il paesaggio quotidiano con un metodo antitetico a quello che produsse le rigide “cités HLM”.
Aver ignorato le pratiche culturali e urbane degli abitanti, la loro capacità appropriativa e trasformativa, e le azioni repressive hanno, nel tempo, innescato e alimentato disagio e sottomissione sociale, potenziando la segregazione, soprattutto nelle cités francesi. Se le politiche urbane successive non hanno realmente affrontato i nodi del contesto, il governo ha condannato e perseguito i comportamenti dei giovani delle banlieue, nei quartieri sensibili, con i presidi di polizia, percepita come forza di occupazione e, paradossalmente, come interlocutore principale, in assenza di contatto diretto con le istituzioni. Ancor più dopo il 2003, quando Sarkozy, con una precisa scelta governativa, soppresse la polizia di prossimità, fornendo precise indicazioni sulle modalità di intervento in quei territori di margine dove si vive una quotidiana opposizione che alimenta la distanza tra le istituzioni e migranti, come efficacemente rappresentato dai Supreme NTM (in La Fièvre) e da La Fouine [83] in Capitale du crime: vi si descrive la guerriglia con la polizia quale braccio armato del potere che sottomette, sostenendo (vedi, Banlieue Sale musique in Capitale du crime2) che «La rue n’a pas de règle».
La visione duale tra il potere e i banlieusards, porta a riflettere su un altro termine, dal valore dirimente: “insicurezza”. Presente nei testi dei rapper (vedi, Banlieusards di Kery James), secondo un’ottica tesa a mostrare quanto il quotidiano sia rischioso e labile, compare con altra accezione nella definizione delle ZSP, acronimo che dal 2012 designa le zone de sécurité prioritaire, ambito pattugliato (dai gendarmi) che «souffre plus que d’autres d’une insécurité quotidienne et d’une délinquance enracinée (…) connaît depuis quelques années une dégradation importante de ses conditions de sécurité» [84]. È pertinente in tal senso il riferimento alla BAC, la Brigade anti-criminalité [85] di Marsiglia creata nel 1992, peraltro coinvolta in un difficile caso giudiziario nel 2012, quando alcuni agenti furono arrestati per traffico di stupefacenti e racket. La vicenda, raccontata dal film BAC Nord, del 2021 di Cédric Jimenez, assume una visione ideologizzata, descrivendo i poliziotti come innocenti. Tale restituzione, proprio in quanto orientata, mostrando il contesto periferico di Marsiglia e i giovani abitanti per lo più neri, cliché violenti e armati, fa riflettere sullo stigma e sulle rappresentazioni prevalenti [86] negate dalla versione dei rapper e da altri romanzieri e cineasti, come ad esempio Hafsia Herzi [87]. La giovane regista, nel suo Bonne mère, del 2021, racconta il ruolo di una madre che vive una quotidianità a tratti disperata, nei “quartieri sensibili” Nord di Marsiglia.
La ricorrenza dei “nodi” trattati dal cinema, dalla letteratura, e dai fenomeni controculturali, tra cui il Rap con la Banlieue Banlieue Sale musique (di La Fouine), mostra, nelle varie declinazioni (testi, video, arte, street art, performance e relativi linguaggi), un articolato “sistema” di reazioni e repliche ai “contrassegni” imposti, alle condizioni di vita e alle scelte dei politici. La “rete culturale” che emerge dai prodotti dei e delle rapper, dei registi/e, dagli scrittori e dalle scrittrici, dagli artisti/e ancor più quelli che hanno origini maghrebine, configura un macro-insieme eterogeneo e potente dal quale la politica e la cultura ortodossa francese dovrebbero imparare[88], per dar vita a un confronto tra insider [89] differenti che metterebbe in discussione scelte e orientamenti, come quelli portati avanti dallo stesso Sarkozy. Questi, soprattutto durante il suo mandato come Ministro dell’Interno, ha avuto un ruolo chiave rinforzando, nell’immaginario francese, i caratteri negativi della banlieue maghrebina e dei suoi abitanti, caratteri fondati sul “nesso” migrante-spazio urbano.
Oltre all’immaginario eterodiretto, le condizioni reali, strutturatesi nel tempo, soprattutto dal secondo dopoguerra a oggi, i fenomeni in corso, le preponderanti e unilaterali rappresentazioni del sistema di governo, hanno concorso a bloccare sia la mobilità sociale (negli anni ’80 furono varate alcune politiche, non troppo efficaci, per l’integrazione unicamente delle ridottissime élite dei migranti) [90], sia le reazioni organizzate, la cui carenza contribuisce ad alimentare la disillusione e a fomentare l’opposizione. In questa banlieue abbandonata dove si registra il 70% di astensione al voto e che le voci istituzionali più retrive definiscono il “territorio perduto della Repubblica”, vigono vendetta, auto-regolamento di conti, attività criminale, mentre vi alligna non solo la rabbia e lo sconforto, ma oscure forme di resistenza conflittuale nate dalla mancata interazione con le istituzioni «avare», come ci ricordano i Fonky Family, in Sans rémission: «De Mars on part en croisade, Contre l’état avare, Représente les quartiers dit sensibles» (dove “Mars”, sta per Marsiglia).
Un quadro che marca quanto le diversità, ricchezza potenziale, siano divenute pretesto di colpevolizzazione, come afferma La Fouine, in Capitale du crime: «On sera toujours exclus même si nos cheveux sont défrisés». Il breve documentario, Le plafond de verre del 1992 di Sophie Bissonnette, e ancor più il documentario Le plafond de verre / Les Défricheurs [91] del 2004, di Yamina Benguigui (francese di origine algerina) – che apre una finestra sui migranti di seconda o terza generazione, minoranze questa volta diversamente “visibili” che hanno conseguito una formazione superiore – mostra i costi aggiuntivi della segregazione spaziale e sociale: limitando le aspettative di miglioramento, l’immagine residua della “banlieue” corrisponde, comunque, a un piccolo Maghreb senza un domani [92], dove tutti esperiscono il rifiuto di una identità e di radici considerate non integrabili, tra speranza e sconfitta. Tema presente in numerosi testi da cui tracimano rassegnazione e attese, tra essi C’est ma vie di Lacrim [93], dove in un ipotetico dialogo con i propri figli, si auspica un diverso futuro, richiamando la rabbia, come ci ricordano gli IAM in Le Raisons De La Colére, e riferendosi all’enorme peso di un destino segnato anche per le persone meno fragili.
Ne Il decalogo delle periferie, M. Augé, riflette retrospettivamente sul processo di migrazione, affermando che le politiche hanno considerato e considerano i migranti come “temporanei”: essi, prosegue l’antropologo, si sentirono accettati solo in apparenza, percependosi come cittadini di serie B [94], pertanto stranieri. Come nota U. Beck (in Melotti [95]) essi furono e sono, dalle restituzioni più vicine al potere, narrati come inammissibili, talvolta come “superflui in rivolta”, ai quali si imputa un dichiarato rifiuto delle regole. È facile, in tal modo, per il potere centrale autore di politiche discriminanti presentare i quartieri dei migranti come polveriere pronte ad esplodere, con narrazioni che, nota Alan Touraine, sottolineano come nel mondo capitalista, le persone sono definite per ciò che fanno non per ciò che sono. Intellettuali come Adil Jazouli [96], che fin dagli anni ‘90 ha posto in luce la questione giovanile, mostrano, di contro, come la banlieue sia un concentrato non solo di rabbia, ma anche di speranza e vita.
L’immersione nel Rap fin dalle sue origini americane (testi, video e location scelte nei clip) – evidenziando un proficuo slittamento prospettico sul piano empirico per esplorare gli intrecci e i conflitti tra le narrazioni e tra le culture potenzialmente ibridate, le azioni, le pratiche locali e le costruzioni globali generalizzanti delle istituzioni francesi e nordamericane – oltre a mostrare l’interrelazione tra le culture imposte e le culture reattive (le uniche realmente contaminate) di alcuni migranti, pone in evidenza la reazione delle comunità (alcune più coese e resilienti, altre meno), e la questione giovanile in rapporto al passato e al disagio quotidiano vissuto da specifici gruppi di abitanti. Abitanti americani e francesi, cittadini e cittadine solo in teoria, descritti come latori di uno specifico schema comportamentale, erano e sono forzati a vivere in uno spazio loro assegnato, degradato e rigido, il quartiere del Bronx e gli HLM, le quali forme, concepite attraverso precise idee, modalità programmatiche e progettuali, riflettono le derive urbanistiche e civiche, elaborate tramite un progetto autoritativo e non partecipato, e in virtù di un controllo sullo spazio urbano che non tiene conto delle comunità insediate e della loro cultura.
Diventa interessante, allora, esplorando la nascita del Rap e le sue declinazioni in tali differenti ambiti geografici, notare, anche, come, per quanto attiene la comunità nera, il Rap sia stato una tra le molteplici modalità tramite cui la comunità si è strutturata e ha acquistato coesione e coerenza interna, mentre per ciò che riguarda la comunità franco-maghrebina il ruolo del Rap non abbia rivestito analoga forza, ma sia rimasta più strettamente legata ai giovani.
Ciò che appare comune, invece, risiede negli esiti delle politiche urbane intrecciate a quelle federali e nazionali, non solo relative allo spazio, che hanno, in ambedue i casi studiati, prodotto alienazione e una “periferizzazione” intenzionale[97] che racconta, da un lato, il riproporsi della modalità di segregazione di matrice ottocentesca (il connubio fabbrica-residenza operaia, l’invisibile esterno al “centro”, descritto da Engels) e dall’altro la supremazia del capitalismo maturo quale agente sulla formazione dei contesti socio-spaziali, rappresentando gli effetti di governo che hanno colpito duramente le popolazioni più deboli, quelli cui alienare i diritti. Un fenomeno, complesso e rovinoso, che, riguardando ambiti non solo francesi o nordamericani, può assumere valore generale.
_____________________________________________________________
Article printed from Dialoghi Mediterranei: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM
URL to article: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/una-poesia-vi-seppellira-rap-migrazioni-e-periferie-tra-new-york-e-la-banlieue-francese/
Click here to print.
Copyright © 2013-2020 Dialoghi Mediterranei. All rights reserved.