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Violenza di campo: le donne del caporalato
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2024 @ 00:41 In Politica,Società | No Comments
di Valeria Salanitro
L’ area meridionale del nostro Paese è nota per l’arretratezza economica e sociale in cui versa, soprattutto nell’entroterra delle zone liminari rispetto alle c.d. zone sviluppate, secondo modelli capitalistici e liberisti. I modelli economici sommersi seguono, di pari passo, modelli statuali divenendo paradigmi alternativi per gli invisibili. Questa categoria sociale, sufficientemente stratificata, accoglie: migranti, disoccupati, invalidi, stigmatizzati, e persino minori. Un puzzle umano il cui comune denominatore è: la sopravvivenza.
Soprav-vivere in un contesto liquido e multiculturale come quello odierno, dominato da logiche conflittuali e “pratiche di scambio illegali” è il modus vivendi di uomini e donne di nazionalità diverse che, pur di mantenere i propri familiari residenti altrove, entrano nel sistema del “Silenzio”. Le donne, in particolare, vengono assoggettate da pratiche di controllo sociale pervasive e annichilenti, sia in quanto soggetti giuridici che identitari, poiché: “Denunciare è affare da uomini” e comporta la perdita del posto di lavoro, così da innescare una spirale dalla quale non è facile uscire, soprattutto, per le donne, madri sole e totalmente asservite.
Il caporalato si estrinseca in un complesso articolato di pratiche illegali, sessuali, minatorie e dominanti nei confronti di uomini e donne. Queste ultime rappresentano l’esempio emblematico di dominio maschile di cui narra Bourdieu nelle sue ricerche tra i Cabili dell’Algeria. Ruoli naturalizzati M/F e talmente incorporati, per le cui decostruzioni sociali è utile richiamare la metastoricizzazione del genere [1].
Quel turno di parola mancato, quel fruscio silente di corpi danzanti, supini e piegati al volere del padrone rappresentano il paesaggio umano e sonoro che abita invisibile tra i campi agricoli italiani. Terre fertili, coltivazioni intensive e umanità sterili, ma anche canicole e posture de-strutturate; capi e servi, eredità metastoriche di forme di schiavitù arcaiche. Uno scenario apparentemente “tipico” legato alla fatica dell’esser-ci tra i vinti del Mezzogiorno di verghiana memoria, in cui cogliere dimensioni latenti dell’es e politiche di esclusione sociale di identità sommerse; in una macrocornice segnata dalle agromafie [3].
I dati
Secondo il VI rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto Agromafie e Caporalato, in Italia i lavoratori irregolari in agricoltura sono 230 mila di cui 55 mila donne [4]. In Regioni ad alta vocazione contadina come Lazio, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, i numeri dello sfruttamento raggiungono percentuali del 40% ma i tassi sono importanti anche nel Centro-Nord: oscillano tra il 20 e il 30%. Li conferma l’indagine condotta dalla Guardia di Finanza dopo la morte di Satnam Singh, il bracciante lasciato morire dissanguato dal suo datore di lavoro a Latina: sulle 310 aziende controllate in un giorno, ben 206 sono risultate irregolari, quasi sette su dieci [5]. I dati rilevano che tra gli occupati agricoli non regolari, il peso dei lavoratori migranti quasi raddoppia (in particolare quello dei cittadini comunitari); in oltre il 70% dei casi si tratta di lavoratori dipendenti e, tra questi, si osserva una maggiore rilevanza degli occupati che lavorano in regime di part-time. Ne consegue che, in corrispondenza dei lavoratori con tali caratteristiche, i tassi di irregolarità assumono valori decisamente più elevati rispetto al tasso riscontrato per l’intero settore agricolo [6].
Ai sensi dall’art.603-bis c.p., così come riformulato dalla L. n. 199/2016, è vittima di sfruttamento lavorativo la persona il cui stato di vulnerabilità è tale da comprometterne fortemente la libertà di scelta, inducendola ad accettare condizioni lavorative inique a seguito di assoggettamento del proprio stato di bisogno da parte degli intermediari e degli utilizzatori. Il termine “caporalato” fa riferimento al sistema illecito d’intermediazione e sfruttamento del lavoro da parte di intermediari abusivi (caporali) che arruolano la manodopera. Tratto cruciale del caporalato è il monopolio del sistema di trasporto, che costringe i lavoratori e le lavoratrici a dover pagare una somma di denaro per il loro spostamento da e verso i luoghi di lavoro.
Tale sistema di intermediazione risulta più diffuso quanto è maggiore la distanza tra le aziende e le persone in cerca di lavoro e quando l’organizzazione del lavoro in squadre risulta particolarmente complicata [7]. Il fenomeno del caporalato è talmente strutturato e capillare, che prevede dei passaggi specifici, come osserva il Sociologo Eurispes Marco Omizzolo [8]:
Tale sistema di reclutamento attiva “leve” dai Paesi dell’Est, in particolare, Romania e Polonia, ma anche da tutto il continente africano e asiatico. Secondo l’Indagine sullo sfruttamento delle braccianti condotta da Marco Omizzolo, Margherita Romanelli e Bianca Mizzi, nell’ambito del progetto “Our Food Our Future” per la Ong We World Onlus, da sempre in lotta contro la violazione dei diritti delle donne, le condizioni, in cui vivono le braccianti tra le aree dell’Agropontino e della Piana del Sele in provincia di Salerno, ma anche nelle aree della Toscana, sono le seguenti:
Le donne invisibili: morire di stenti
Il fenomeno delle mafie agroalimentari che dominano i territori più “fertili” di questo Paese, non è solo un prodotto di sistemi criminogeni organizzati e strutturati, ma sempre più veicolo di pratiche tanatoprassiche e di morti preannunciate. Il modello di reclutamento riservato alle donne prevede un “rituale” specifico e riserba loro un coacervo di violenze, di sottomissioni, di marginalizzazioni, che, come abbiamo visto, spesso ne ha decretato la morte. La fatica sui campi, la violenza fisica, la derisione, l’umiliazione, lo sfruttamento più becero e violento del sesso femminile, passa attraverso le trame narrative del genere.
Le donne straniere, poi, non possono parlare in lingua, perché urtano la sensibilità dei caporali. Vengono rimproverate e offese con epiteti e commenti a sfondo razziale, xenofobi ed etnocentrici. Segno che la violenza verbale anticipa le coercizioni fisiche cui sono sottoposte.
Le donne invisibili sui campi, che hanno perduto la vita per un paio di spiccioli, sono molte e anche giovanissime. É il caso, emblematico, di Paola Clemente. Ci troviamo nelle campagne pugliesi. Paola, 49 anni, tagliava gli acini più piccoli dei grappoli d’uva, per portare a compimento il c.d. processo dell’acinellatura. La sua paga ammontava a 27 euro. Il 13 luglio del 2015, Paola Clemente sale su un autobus gran turismo alle 3 della notte muovendo dal comune di San Giorgio Jonico, in provincia di Taranto. Insieme ad altri 200 lavoratori sono diretti in contrada Zagaria, ad Andria, a circa 130 km di distanza. Già durante il tragitto, Paola accusa diversi sintomi: una abnorme sudorazione, debolezza e pallore. Ma nessuno dei colleghi di lavoro avverte l’autista del bus al fine di far deviare la propria corsa verso il più vicino pronto soccorso. Forse perché sanno, come lo sa anche Paola, che il lavoro non si può fermare e bisogna giungere in tempo ad Andria. Non si ferma, nonostante il sudore, continua al lavorare una volta giunta nei campi. Dopo un paio d’ore, si accascia per terra. Alle 8,30, i medici non possono far altro che constatarne il decesso per cause naturali [11].
Il caso di Paola Clemente divenne fondamentale poiché la sua morte ha acceso i riflettori sullo sfruttamento dei lavoratori nei campi e un anno dopo, il 18 ottobre del 2016, ha portato all’approvazione della legge per il contrasto al caporalato e al lavoro nero in agricoltura.
Le morti del caporalato sono tantissime e molte ignote o dimenticate come quella della giovane donna di 18 anni, Anna Maria Torno. É il 1996 e la bracciante perde la vita in un incidente stradale a Ginosa, Taranto. Il caporale stava trasportando lei e altre donne in un pulmino sovraccarico.
Il Caporalato, purtroppo, non concerne solo le aree del tarantino, ma colpisce altresì l’area ionica. Anche i campi di fragole del territorio, soprannominato la “California d’Italia”, vedono protagoniste donne sfruttate per la coltivazione di colture prelibate nelle città di Matera, Taranto e Cosenza. Secondo il rapporto Actioned Cambia terra. Dall’invisibilità al protagonismo delle donne in agricoltura [12], nelle aree che comprendono la Puglia, la Basilicata e la Calabria, ci sono ben 119 donne lavoratrici sui campi, di nazionalità molteplici: bulgare, romene e africane. Le braccianti in nero percepiscono un compenso pari a 2,50 euro al giorno, con elementi di contorno forse poco considerati: molestie, rischi, minacce e stupri veri e propri. Le pratiche mafiose esercitate dai caporali sono così capillari, che i casi rilevati in questi rapporti sono illuminanti. Ebbene, le violenze sessuali che subiscono le donne hanno luogo sui mezzi che le conducono ai campi, nelle serre, dietro le colture, nei magazzini, negli alloggi. Ma l’essenza della devianza esercitata prosegue alternando minacce relative all’offerta del posto, in cambio di prestazioni sessuali. Un ricatto vero e proprio, che assoggetta le donne dei campi. Il caso sollevato da actioned è interessante, dal punto di vista sociologico, antropologico e finanche politico e filosofico, poiché lo sfruttamento apre scenari reconditi e, forse, mafiosamente corretti. Il rituale è ben strutturato e cadenzato da fasi precise e determinanti. La donna fortunata che andrà a lavorare sui campi è “La prescelta”. In una mattina d’estate, la donna viene fatta accomodare sul sedile anteriore del veicolo, di fianco al guidatore/caporale. Sul cruscotto, una colazione invitante “cornetti e caffè”, questi i simboli del reclutamento. Se la donna accetta la colazione offerta dal caporale e quindi, ciò che ne consegue, la proposta sessuale latente, ottiene l’ingaggio. Il piano simbolico del cibo, ancora una volta, determina appartenenze e relazioni sociali. Oltre a denotare l’idea stessa del nutrimento, dell’occupazione e dell’incorporazione, i piani simbolici della violenza di campo attestano la dimensione corporea del fenomeno.
L’efficacia simbolica dei corpi sfruttati
I corpi delle donne tra i campi divengono strumento e prolungamento di quel sistema criminogeno che si regge sulla subordinazione e sulla povertà di aree “sterili”. In quei fazzoletti di terre malsane e dedite alla criminalità organizzata è una risposta umana inevitabile al sistema di tutela e alle politiche economiche e agricole assenti,
Questi corpi supini, accaldati, esanimi, genuflessi al sistema deviato dell’agroalimentare, mercificati e stigmatizzati in quanto ignoranti, stranieri, ai margini della società, divengono volano di incorporazioni di pratiche di subalternità. La gente dei campi, che ben rimanda ai certi personaggi della letteratura ottocentesca, subisce e urla con un silenzio assordante la propria identità.
L’efficacia simbolica dei corpi femminili passa attraverso le proposte sessuali simulate dai cornetti, i respiri sospesi, le mani sulle fronti, i dolori alla schiena, la vergogna e i segni delle percosse, le lacerazioni dell’anima, le ripercussioni familiari, le violenze domestiche dei mariti, il sudiciume dei caporali istituzionalizzati in microcosmi criminali; ma soprattutto il ricatto morale ed economico, che determina la subordinazione incondizionata del genere femminile. Sono anche e, soprattutto, madri alle quali è negata la maternità, la tutela giuridica, ma anche effettiva, poiché spesso, per via dei turni di lavoro le madri sono costrette a lasciare i bimbi da soli.
Che fare? Le Onlus che si battono per i diritti delle donne propongono piani di interventi e progetti, che sanciscano l’affrancamento delle donne da questo stato di minorità. Questi corpi urlano giustizia. Perché denunciare, significa perdere il lavoro. Come osserva correttamente Francesco Gianfrotta:
Di fatto, come evidenza Gianfrotta, la denuncia segue la perdita del posto di lavoro delle braccianti e dei lavoratori agricoli in nero e, pertanto, non c’è nessuna normativa che preveda il reinserimento del lavoratore presso altra azienda agricola o cooperativa. Come evidenziato, la repressione penale non basterà per eliminare il fenomeno criminoso, bisogna intervenire su altri piani; ad esempio la proposta articolata dell’Osservatorio agromafie in merito all’assunzione dei braccianti che denunciano, appunto, oppure la Rete del lavoro agricolo di qualità, della quale possono far parte le imprese che non ricorrendo al lavoro illegale possano accedere a benefici previdenziali.
Poiché la dimensione nel fenomeno non è circostanziata al mero meridione, ma è giunta sino alle Langhe, tra i campi del Barolo, gli interventi sono più che mai necessari, nel caso di specie, ci si riferisce all’applicazione concreta del Tavolo del Caporalato (2018-Ministero del lavoro) [14]. Affrancarsi da questo stato di schiavitù, di servitù volontaria direbbe de la Boietiè, è quanto mai necessario. Chi è il Padrone? Chi è il Tiranno? Perché queste donne non possono disobbedire? Sembra di essere catapultati nel Regno di Tebe, in cui la legittimità delle tirannidi è determinata dal popolo stesso. Sovvertire l’ordine precostituito e scardinare sistemi criminali legittimati dall’economia sommersa, dall’assenza di dissenso ed operare con pratiche dedite alla legalità e al supporto concreto dei braccianti, uomini e donne, senza distinzione di sesso, genere e appartenenza, questa la chiave risolutiva.
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