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Religioni sì, no, come

COPERTINAdi Marcello Vigli

Nelle attuali condizioni in cui versa la convivenza dei sette miliardi di donne e uomini che popolano il pianeta, ogni occasione, iniziativa, manifestazione, che favorisca incontri, confronto, dialogo fra cristiani, ebrei, islamici è opportuna, auspicabile e va incoraggiata. Ben venga la costruzione di un luogo comune per consentire ai fedeli dei tre monoteismi maggioritari in Europa e nei Paesi mediterranei di pregare uniti e divisi. Favorirla produce tolleranza e collaborazione,  non deve però servire ad accreditare la tesi che ragionare sul piano filosofico, antropologico ha lo stesso valore del districarsi in uno spazio teologico che pretenda di avere valore conoscitivo. Riflettere sulla compatibilità e interazione tra monoteismi, che hanno radici storiche e culturali comuni, può solo significare interrogarsi sul valore e sulla funzione della loro permanenza e diffusione  oggi nella formazione dell’immaginario collettivo: è condivisibile la pretesa della conoscibilità del trascendente, che le tre religioni del libro condividono, pur dandone ciascuna una diversa versione e, soprattutto, riempiendola di diversi contenuti?

La Trinità dei cristiani è inammissibile per ebrei e islamici, per non parlare della Incarnazione. Un Dio che si fa crocefiggere  li scandalizza. Non è quindi un caso se per secoli si sono combattuti e perseguitati. Il dialogo e la preghiera in comune anche ai massimi livelli costituiscono un contesto che non può cancellare secoli di conflittualità diffusa. La modernità fatta di mobilità sociale, egualitarismo, partecipazione democratica, emancipazione femminile, ha prodotto libertà individuale e laicità delle istituzioni. Ne è derivato il processo di secolarizzazione delle società che ha progressivamente ridimensionato le religioni ed esautorato le autorità religiose. Queste hanno mantenuto una loro autorevolezza solo nei Paesi in cui le forze politiche le hanno coinvolte nella gestione dei servizi sociali.

Solo questo ha consentito che si creasse il contesto aperto al dialogo che, nel secolo scorso, ha favorito la pacifica convivenza fra cristiani e islamici, fra sunniti e sciiti, seppure in assenza di parità di diritti e di partecipazione. L’antisemitismo razziale, non l’antiebraismo religioso, ha ispirato i nazifascisti. Lo stesso conflitto fra israeliani e palestinesi  non ha avuto ai suoi inizi il carattere di guerra di religione.

Ai giorni nostri, invece, con il venir meno delle suddette condizioni sono stati riesumati sia  l’uso ideologico della religione sia la sua strumentalizzazione. Sunniti e sciiti si perseguitano a vicenda in nome dello stesso Allah, che negli attentati in Francia viene invocato da chi intende colpire l’infedele cristiano. La comune fede non impedisce al neo califfo d’imporre con la forza la sua supremazia, non trattiene i combattenti nel sud della penisola arabica, né ostacola i militari dall’estromettere dal potere i Fratelli musulmani nell’emancipato Egitto.

Anche nei Paesi cristiani,  specie  in quelli cattolici, e nello Stato d’Israele vige un diverso modo d’intrecciarsi fra  politica e religione  nel garantire una cittadinanza  privilegiata o nell’imporre esclusioni, nell’assicurare finanziamenti o nel concedere esenzioni fiscali. Papa Francesco fa fatica a restarne fuori. È tornato in campo l’uso strumentale della religione: forse inconsapevole nel gesto del singolo fedele, ben conscio, invece, nella scelta strategica di chi lo arma.

C’è quindi da  interrogarsi se, fermo restando il riconoscimento della funzione sociale della religione nelle sue diverse espressioni, non debba essere confermato il ridimensionamento della sua funzione conoscitiva. Del divino e dei suoi abitanti si può dire quello che non si sa! Lo hanno affermato quei teologi cristiani dei primi secoli che, ispirandosi a Plotino, erano pervenuti a questa conclusione, elaborando una Teologia negativa, confortati dalla stessa Bibbia dove Dio è chiamato col tetragramma YHWH, cioè semplicemente Colui che è.

FOTO1Nei secoli successivi in tanti si sono cimentati, invece, a scrivere di Dio per dare forma e sostanza all’oggetto della loro fede facendo della filosofia l’ancella della teologia. Oggi si è tornati a far teologia soprattutto per dare una forma organica al messaggio annunciato dalle sacre scritture che ciascuno dei tre monoteismi pone a fondamento della propria concezione del mondo.

Nell’accettare il dialogo si riconoscono, di fatto, i limiti di tali concezioni ammettendo, implicitamente, che nessuno può pretendere di parlare, agire, combattere in nome di Dio. Di questi limiti ogni religione dovrebbe rendere consapevoli i propri fedeli, mutando radicalmente al proprio interno insegnamenti e predicazione, fondandoli sulla premessa che ogni immagine di Dio è solo la proiezione di un “sé” collettivo particolare, costruita e tramandata nel tempo.

In questa prospettiva i fedeli non dovrebbero attardarsi a discettare sulle somiglianze/diversità delle varie sacre scritture e dei differenti sistemi teologici, o a confrontare i precetti comportamentali e le pratiche dei culti delle loro religioni, ma favorire una comparazione fra le loro prassi come verifica del rapporto delle loro convinzioni con la realtà, e delle possibilità di promuovere pace e solidarietà in nome della “comune umanità”, assunta come fondamento di una pacifica convivenza ispirata alla fratellanza.

Il dialogo  non può/deve essere considerato premessa o appendice di un confronto teologico o di una ricostruzione storica, ma strumento  per contribuire alla fraternità universale a cominciare dalla convivenza interetnica e dall’integrazione degli immigrati anche attraverso i matrimoni misti. Momenti di preghiera comuni e ospitalità per la celebrazione dei riti non dovrebbero essere momenti eccezionali da celebrare in particolari circostanze, ma occasioni frequenti d’incontro magari istituzionalizzati, di comune accordo, a livello locale, e non solo.

In conclusione, un confronto fra le tre religioni non dovrebbe, pertanto, avventurarsi in una ricognizione sui loro contenuti, ma, piuttosto, sviluppare l’analisi della funzione che hanno nelle società in cui sono radicate, come premessa al confronto dialogico, e praticare l’impegno a dissociarsi, denunciare e ripudiare ciascuna i propri estremismi.

Dialoghi Mediterranei, n.22, novembre 2016
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Marcello Vigli, partigiano nella guerra di Resistenza, già dirigente dell’Azione Cattolica, fondatore e animatore delle Comunità cristiane di base, è autore di diversi saggi sulla laicità delle istituzioni e i rapporti tra Stato e Chiesa nonché sulla scuola pubblica e l’insegnamento della religione. La sua ultima opera s’intitola: Coltivare speranza. Una Chiesa altra per un altro mondo possibile (2009).

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