L’universo culturale siciliano di tradizione orale, animato da sempre da una moltitudine di “figure”materiali e immateriali di diversa provenienza e in stretto e intenso dialogo tra loro, plasmate anche su remoti calchi archetipici mediterranei di origine mitico-religiosi, ha sempre posto al centro della sua narrazione di vita la voce e i suoni. E proprio a questi codici di comunicazione, prima della scrittura e dopo la scrittura, la “narrazione popolare” si è affidata per dare senso al suo vivere il mondo e governare le sue relazioni vitali fra uomini e donne, terra e cielo.
Liberi dai legami imposti dal segno scritto che, per sua natura, ordina e prescrive in maniera rigida senso, significati e funzioni, la voce e i suoni affidati all’oralità hanno goduto, nel tempo, di una straordinaria libertà espressiva e semantica, dando nome anche alle forme multiple e tangibili della natura, regolando il vissuto esistenziale individuale e collettivo, anche sul versante dell’immaginario, fino a confrontarsi con il mistero ultimo della vita e le temibili figure del sacro e dell’Assoluto.
La voce e i suoni, dunque, si configurano come fonti originarie della cultura di ogni tradizione orale e a loro dobbiamo tornare per capire fino in fondo le ragioni e i caratteri distintivi delle storie del territorio. E ciò è possibile liberando gli involucri culturali cosiddetti di tradizione (o popolari o folklorici dei nostri giorni), dalle tante incrostazioni che sono andate accumulandosi nell’incontro fatale, soprattutto fra fine Ottocento e Novecento, con culture altre, fameliche e dominanti.
A scanso di equivoci: non vogliamo qui affermare il ritorno della purezza incontaminata delle forme culturali siciliane di tradizione orale declinate alla voce e ai suoni – che, peraltro, sappiamo non esserci mai stata, perché nutrite e alimentate da sempre da “contaminazioni”–, ma più semplicemente tentare di scorgerne alcuni suoi profili caratterizzanti, almeno a partire dalla fine dell’Ottocento, decisivi per comprendere, oltre la superficie ribollente dell’inarrestabile flusso di vita che tutto tracima, alcune ragioni di fondo.
E su questo tema di riflessione, appena “schizzato”, che certamente merita ben altre e più incisive analisi, giunge il contributo di “voci e suoni”, per fortuna non “accademico”e certamente originale, de I Mandolini dei Nebrodi. A guidarmi, dunque, su questa pista di riflessioni, alla riscoperta della voce e dei suoni della tradizione, (intesi come principio generatore della cultura siciliana, perché proprio su di loro sono andate sedimentandosi storie su storie, fino a fare emergere forme di rappresentazioni esemplari e dunque caratterizzanti e fortemente identitarie), è stata l’opportunità d’ascolto in anteprima del master audio del gruppo dei musicisti-amici nebroidensi.
Stiamo parlando certamente di un CD, ma si tratta, vi assicuro, di una performance musicale di assoluto pregio, che credo abbia in sé qualità uniche per l’offerta d’ascolto che ci propone. Un disco, aggiungo con convinzione, che non va rubricato frettolosamente e confuso con i tanti altri titoli che scivolano sulla superficie della corrente mistificante e fuorviante dei nostri giorni, all’insegna di una sedicente sicilianità, dalla corsa impetuosa in ogni dove, allagando perfino le affollate piazze dei social.
Fedeli agli insegnamenti dei padri e nutriti culturalmente ai valori fondanti della cultura orale siciliana, benché cresciuti entro un ampio orizzonte esistenziale e sociale di profonde ed irreversibili mutazioni, facendo tesoro di “iniziatiche” e “luminose” esperienze musicali, Calogero Emanuele, Aurelio Indaimo, Delfio Plantemoli, Franco Montagna, Sebastiano Montagna e Nino Milia offrono, dunque, con questo CD sul tema della Sicilia e della musica di tradizione orale, un punto di vista decisamente rigenerante ed “eccentrico”, guidandoci lungo un sentiero che ci conduce alla sorgente sonora primigenia: la voce che, per una sorta di mirabile incantesimo, lega da sempre nell’uomo l’universo interiore e quello esteriore, dando nome alle cose del sé e del mondo. Al primato dell’immagine ipertrofica e bulimica dei nostri giorni, stordente e spesso estraniante e lontana, l’ensemble nebroideo oppone, dunque, con fierezza e sguardo musicale profondo, la voce, quella narrante e cantata …
Posta al centro del loro originale “copione di parole e suoni”, (tratto dal vasto giacimento di radicata cultura musicale siciliana), la voce, da cui germina il canto unendosi ai suoni strumentali, dà vita ad una policroma, godibilissima e coinvolgente messa in scena di un inaspettato teatro musicale siciliano. Un recitar-cantando fra fondali musicali dai colori trasparenti, riflettenti sentimenti di appartenenza ad una storia che ci appartiene e che merita di essere riscoperta. E allora ecco levarsi la voce affabulante, dai tanti sorprendenti registri espressivi, di Delfio Plantemoli che, fra trasparenze musicali d’ambiente dalla forte caratterizzazione drammaturgica, (spesso di provenienza colta), racconta attorno ad un focolare immaginario di Autu munti e Paccaredda, de Il gallo che voleva diventare papa e de A ciaramedda che canta. Tre titoli esemplari della fiabistica siciliana, tratti dalla memorabile raccolta della Laura Gonzenbach, messinese che, ancor prima di Pitrè, sentì il bisogno di trascrivere, soprattutto dalla viva voce delle donne del popolo, fra area catanese e messinese, i memorabili racconti dalla straordinaria potenza immaginativa, capaci di innescare quei necessari processi d’identificazione con i protagonisti delle fiabe, per meglio crescere e capire il mondo.
Il coupe de theatre de I mandolini dei Nebrodi è stato poi quello di unire alle fiabe – affidate al registro linguistico italiano perché così sono giunte a noi dopo un tortuoso percorso di trascrizione dal siciliano al tedesco e, infine, appunto italiano – canti della tradizione siciliana semiculta, scoprendo fra loro legami ed affinità insospettabili, aggiungendo poi delle scene di ballo di firme illustri. Anche questa scelta musicale, in cui l’ ensemble si trova magnificamente a proprio agio, trova piena consonanza nel disegno complessivo dell’opera musicale concepita dai musicisti dei Nebrodi.
Raffinati anche negli arrangiamenti e nelle citazioni di natura bandistica, si esalta pienamente la loro vocazione, (del tutto coerente e convincente), di ridare finalmente dignità ad un filone di canto di ispirazione popolare, quello folklorico di origine culta, fin troppo saccheggiato e banalizzato dai gruppi folkloristici o folklorici, come dir si voglia, a partire dagli anni Trenta del Novecento. Si tratta di “A virrinedda”,“A lu mircatu” e “U jadduzzu”, bozzetti musicali di vita siciliana, dal registro divertito e divertente, reinterpretati, con gusto raffinato dalla voce da recitar-cantando da opera buffa, dall’ineguagliabile Aurelio Indaimo, e così splendidamente restituiti alla loro bellezza originaria, che rimanda, mi pare, ad uno dei padri musicale del genere: il prolifico catanese Francesco Paolo Frontini.
E poi ci sono i “gioielli musicali”, sparsi qua e là: i ballabili dei mitici Quattro Siciliani, (ai vertici del successo discografico americano a partire dai primi decenni del Novecento), ovvero la polka Marsala Bella e la mazurca Pioggia di rose. Altrettanto pregevole “riscoperta” quella dei grandi mandolinisti siciliani del Novecento, ovvero Frank Fazio e Giovanni Vicari, rispettivamente con la mazurca Piccolina e il valzer Nostalgia. Il gran finale, fino a sporgersi sulla ribalta della loro scena musicale ricca di suggestioni e rimandi, fra registro colto e popolare – così com’è stato da sempre nella storia musicale siciliana – è quello di Li paisi siciliani, una ode nostalgica e struggente alle bellezze naturali e femminili siciliane viste da oltreoceano dai nostri emigrati.
Un viaggio musicale davvero affascinate quello de I mandolini dei Nebrodi che offrono generosamente e mirabilmente sentimenti ed emozioni vere e profonde, germinanti da un affresco vocale e strumentale oggi davvero raro da vedere e ascoltare.
Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2017
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Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997).
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