di Davide Sirchia
Le indagini etnografiche hanno come principio di ricerca non solo l’osservazione diretta dei fatti sociali, ma soprattutto l’interesse a cogliere il punto di vista degli informatori. L’antropologo ha il compito di interpretare i risultati dell’indagine per capirne il significato. Questo paradigma teorico-metodologico definito da Geertz in Interpretazioni di Culture, è il fil rouge di questa breve indagine. L’osservazione diretta permette di registrare le modalità di trasmissione del sapere all’interno dello spazio aperto e le relazioni sociali che si creano sia all’interno del gruppo che tra il gruppo in esame e le altre comunità che abitano la piazza. L’interpretazione successiva permetterà di mettere i dati in relazione tra loro e approfondirli con eventuali usi e consuetudini della regione di provenienza.
Antroprospettiva è un neologismo creato ad hoc che cerca di sintetizzare questi concetti in un’unica parola restituendo al lettore la multi-direzionalità dell’indagine svolta sul campo, avviata con l’osservazione di prove di danza in una delle piazze di Milano: Piazzale Carlo Maciachini. Dialogando con gli attori sociali di queste danze scopriamo non solo che sono tutti migranti di prima generazione di origine sudamericana, ma che abitano nelle periferie della nuova area metropolitana, in quei luoghi che rimangono ancorati alla vecchia dicitura di comuni indipendenti.
In questa piazza lombarda assistiamo alla trasmissione della tradizione andina: la danza è un mezzo con il quale la nuova generazione può apprendere la storia, la mitologia e le usanze proprie della loro cultura. Tuttavia, per lo stesso fatto che questa trasmissione avviene al di fuori dei luoghi originari, innestandosi in un nuovo tessuto sociale, fa sì che la tradizione muti: la semantica della danza viene mantenuta, ma in uno spazio che diviene eterotopico. Questa ricerca si propone di indagare il ruolo della danza nel processo di integrazione e la sua capacità di abbattere le barriere culturali che determinano la multiculturalità della Città Metropolitana di Milano.
L’indagine è stata condotta tra ottobre 2015 e aprile 2016 e gli informatori sono originari soprattutto del Perù, sia di prima che di seconda generazione, per lo più residenti nella città metropolitana. La fascia di età è varia, dai 15 anni ai 45 anni. Come guida per ricevere le informazioni è stato utilizzato un questionario redatto dopo un primo incontro conoscitivo. A sostegno di questo lavoro sono stati utilizzati supporti digitali con i quali è stato prodotto un breve video.
Il gruppo in esame è guidato da Josè, che prima di migrare dal Perù insegnava le danza tradizionali e il loro significato. Con il suo trasferimento in Italia ha continuato a insegnare, adattando però la pratica al contesto italiano che ha richiesto diverse modifiche alla costruzione e realizzazione delle tusuy – in cusco quechua significa ballo, danza (cfr. Wulf, 2007) – cambiamenti voluti e spesso costruiti per varie ragioni che lo stesso Josè racconta.
In primo luogo ha dovuto affrontare l’innesto nella comunità italiana di nativi andini migrati, provenienti non solo dal Perù, ma anche dalla Bolivia o dall’Ecuador, un gruppo multietnico formato da dialetti differenti e da forme festive diverse. Alcuni dei suoi allievi nati in Italia usano lo spagnolo in casa, ma non così bene da capire in profondità il significato della danza e delle sue sfumature. Con i “passi” ha trasmesso loro la mitologia sostratica che fonda le danze, trasmettendo così gli aspetti tradizionali andini risalenti molto spesso al periodo “inkaico”.
Il secondo scoglio da superare è stato creare un gruppo unito e coeso a partire da elementi distanti culturalmente tra loro. Come già espresso, molti dei ragazzi sono nati in Italia, rendendo difficile trasmettere la passione per le danze andine e l’importanza del tramandarle. Inoltre il concetto di identità culturale deve trascendere i meri rapporti di parentela in modo da far comprendere ai ragazzi le radici culturali dei loro popoli. Da qui l’idea della trasformazione da danza tradizionale in spettacolo, rappresentato in varie fiere ed eventi, ma soprattutto nei così chiamati contest, secondo l’espressione anglosassone.
Quindi assistiamo ad una traduzione di un insieme di danze specifiche, provenienti da aree geografiche diverse, in un’unica performance artistica, un prodotto europeo commerciato per gli europei, sia essi nativi che figli di migranti. Il gruppo ha sempre preferito trasmettere le informazioni unito e i membri non hanno rilasciato interviste singole, pertanto verranno inseriti in un’unica soluzione i racconti mitologici delle danze andine rappresentate dai soggetti intervistati.
I metodi di studio utilizzati, l’osservazione diretta e l’uso del questionario, hanno permesso di delineare le danze tradizionali che il gruppo andino utilizza per la performance. Dai racconti ottenuti possiamo descrivere sia gli aspetti storici delle danze che i significati intrinseci che queste danze assumono nel loro rapporto con il calendario festivo agropastorale andino.
Da quanto riportano gli informatori, l’arrivo dei coloni spagnoli ha innestato vari usi e consuetudini nell’Altopiano del Collao (area che oggi comprende l’attuale Perù, Cile e Bolivia): nel campo musicale sono stati introdotti alcuni strumenti europei, come quelli a corda che si sono affiancati agli strumenti tradizionali andini, principalmente a fiato e percussioni. Questa contaminazione è stata più che produttiva: chitarre, arpe, fisarmoniche e armoniche si sono letteralmente radicate nella struttura di ogni danza o canto popolare delle alture.
Gli Inca avevano un termine, sopravvissuto in lingua quechua, per indicare un’arte complessa costituita tanto di danza quanto di canto e musica: taki. In sostanza nessuno di questi singoli elementi veniva distinto come a sé stante, ma come parte di un’unica dimensione. Il Taki Unquy era un movimento di matrice popolare, sviluppatosi negli Ayllu (comunità di montagna) e diffuso in tutto il Perù tra il 1564 e il 1572, che si affidava al potere di danza e canto per contrapporsi al dominio cristiano spagnolo, dapprima sul piano religioso, poi su quello politico. Danza, canto e musica erano una sorta di ricongiungimento primordiale alle proprie radici e il corpo era solo un veicolo di propagazione attraverso il quale questo fenomeno poteva avvenire.
Le danze tradizionali che il gruppo Tarpuy rappresenta sono principalente il Caporal del Saya, Yaku Raymi de Colta, il Sinkuy e l’Ajchatac Pallaichis.
La danza coloniale: Caporal del Saya
Caporal del Saya è una danza di origine africana tipica della zona di Los Yungas, nel dipartimento di La Paz. Saya è una delle più alte espressioni del popolo afro-boliviano perché, attraverso la danza e la musica, ricordano la loro origine che si fonda in Africa, luogo di nascita dei loro antenati. Nel giugno 2011, insieme ad altre danze, il Caporal del Saya è stato dichiarato Patrimonio Culturale Immateriale dello Stato Plurinazionale della Bolivia.
Il “Caporal”, che in molti casi è stato rappresentato come “meticcio” o “mulatto”, era il caposquadra degli schiavi neri portati nella zona dell’altopiano durante il periodo coloniale. Esistevano varie rappresentazioni della stessa danza, da ricondurre probabilmente alla zona di origine degli schiavi. In seguito alle varie descrizioni e proposizioni del Saya, i fratelli Estrada Pacheco, negli anni ‘60, hanno deciso di creare una nuova danza ispirata al personaggio centrale, facendone una sintesi delle varie rappresentazioni di Caporales. Da qui il nome di questo tipico ballo.
Nel corso degli anni è stata inserita la figura del caposquadra nero o Yungas. Questo Caporal e fedele compagno era rappresentato come un affascinante afro-Yungas Cholita, per poi diventare un “signorotto occidentale”. Infatti oggi questa danza tradizionale è associata alle élite ricche e occidentali e viene utilizzata anche come satira politica, appellando con il soprannome di “ministro Caporal” determinati politici locali.
Oggi il Saya vero e proprio è una danza di agilità, ballata e interpreta da persone afro-boliviane. La danza del Caporal de Saya è un chiaro sincretismo tra la cultura Aymara (Perù) e quella africana, nella quale si possono comunque riconoscere chiaramente gli elementi caratteristici di ciascuna cultura. Il Caporal, detta anche “la danza dei gestori d’azienda”, è connotata da movimenti agili e atletici in cui gli uomini eseguono colpi di scena, contorsioni, calci in aria, salti acrobatici accompagnati da grida di rabbia ed euforia, mentre le donne mostrano ed evidenziano la loro sensualità e femminilità attraverso i costumi e i movimenti aggraziati e dolci.
La danza dell’acqua: Yaku Raymi de Colta
La Yaku Raymi de Colta (letteralmente “festa dell’acqua”, formata dalle due parole quechua Yaku, che significa acqua e Raymi, che significa festa) è una danza magico-rituale nonché una festa caratteristica della regione Ayacucho. Si svolgeva in onore degli antichi spiriti-divinità ancestrali della natura incarnata, Yacumama e Pachamama, ovvero gli spiriti dell’acqua e della terra, e durava circa cinque giorni.Nella tradizione locale la danza viene svolta nella seconda settimana di settembre, periodo che coincide con l’inizio del ciclo agricolo simboleggiando così l’inizio della nuova vita.
La danza rituale Yaku Raymi ha conosciuto la sua nascita nell’Impero Inca, quando il territorio del sud Ayacucho era uno dei centri più importanti per l’amministrazione territoriale. Una delle figure principali della cerimonia è il sequia mayordomo (identificato come l’organizzatore della pulizia del canale d’acqua, del cibo, delle bevande e dei ballerini) che ha il compito di coordinare i varayuqes (responsabili amministrativi indigeni della giustizia all’interno delle dinamiche organizzative dei popoli quechua), i pongos e gli aukis (sacerdoti indigeni che presiedono tutti gli atti rituali); sono responsabili della preparazione della “tavola”, o “pagamento”, che consiste nelle offerte per gli spiriti-divinità precedentemente invocate.
Il rituale inizia di notte, quando gli aukis e i pongos portano offerte agli Apus e a Pachamama. Il giorno seguente, in un luogo prestabilito al di fuori del centro abitato, realizzano il rito dell’angoso, accompagnato da libagioni cerimoniali di liquore di colore rosso con il quale si rende grazie ai “cuatrosuyos” (le quattro regioni dell’impero Inca). I partecipanti dell’angoso, al termine delle cerimonie, ritornano al villaggio tra musica, canzoni e balli; dopodiché si dà inizio alla competizione dei danzantes de tijeras. In un determinato momento della festa tutta la popolazione si trasferisce al Urqu Yarqa (imboccatura del canale d’acqua), dove portano pale, picche, bastoni, maceti e soprattutto bandiere del Perù, quindi realizzano il Tupuy o misurazione della zona di lavoro mediante l’uso di funi.
Le fonti storiche attestano che questa attività ancestrale si realizzava anche prima dell’Inti Raymi (festa del Sole), con il proposito di ripulire da tutti i mali i cittadini di Colta e di compiacere allo spirito Yaku Mama, affinché potesse rendere l’agricoltura prospera e abbondante. Il culto cominciava con la pulizia del canale, che prevedeva l’asportazione non solo dei detriti, ma anche dei rami che ostruivano lo scorrere dell’acqua. Per dividere la zona di lavoro si utilizzava il Tupuy, una fune atta a misurare la porzione di canale che ciascun cittadino doveva lavorare. All’arrivo l’acqua veniva fatta sgorgare dalla bocca di un totem chiamato Piqa e si procedeva con il rito del Pagapu o Angoso ai cuatro suyos.
Oggigiorno questo rito altamente simbolico è divenuto folkloristico, soffrendo dei rimodellamenti e rimaneggiamenti prodotti dalla evoluzione sociale ed economica: gli uomini e le donne portano i propri strumenti e materiali di venerazione in una borsa chiamata Apascha. Il vestiario è colorato e tessuto con lana di pecora. Per la fase di venerazione gli uomini devono vestirsi come alberi, quindi coprono il proprio corpo con foglie, e per dimostrare la propria identità usano bandiere peruviane.
La danza di capodanno: il Sinkuy
Il Sinkuy è una danza cerimoniale del distretto di Ollantaytambo nella provincia di Urubamba, veniva eseguita con scopi propiziatori il primo giorno dell’anno nuovo (1 agosto) chiamato Wata Qallariy. Alla cerimonia partecipavano i rappresentanti dei vari distretti della provincia, che dovevano prendere possesso dei loro nuovi incarichi nelle comunità di Ollantaytambo.
Il Sinkuy è un gioco che potremmo paragonare all’attuale bowling: consisteva nell’abbattere sei birilli con due lanci di una palla. Sin dalle prime ore pomeridiane la popolazione si riuniva nella piazza dove erano collocati sei piccoli bastoni coperti di fiori rossi, i quali dovevano essere abbattuti per mezzo di due palle di legno da una coppia di lanciatori: la prima coppia era formata dal sindaco di Ollantaytambo e la moglie di uno degli altri rappresentanti, in questo modo venivano formate coppie miste. In questa occasione, dopo aver fatto cadere i birilli, i maschi partecipanti versavano una quota volontaria di denaro, utilizzata per acquistare e inviare alimenti e bevande ai propri connazionali. Questo gioco ha lo scopo di presentare i nuovi sindaci agli abitanti di Ollantaytambo e nel corso del suo sviluppo si poteva udire a intermittenza il suono grave dei pututus [1], che dava una atmosfera speciale all’evento. Per meglio capire come si svolgeva, di seguito è descritta la struttura coreografica della danza.
L’inizio della coreografia prevede l’ingresso delle mogli dei sindaci che si ornano con i fiori colti nelle alture di Ollantaytambo. A seguire il varayoq [2], cioè il rappresentante delle comunità, con un inchino invita i vari sindaci nella piazza maggiore di Ollantaytambo (Wajay Pata). Si prosegue con il trenzado, un particolare passo di danza in cui i piedi si incrociano, detto anche warakas. Con questa danza i varayoqes invocano il rispetto delle loro divinità tutelari ancestrali come la stella e il sole (Dio principale nell’epoca degli Incas). I varayoqes si inchinano ai propri apus, come il pinkulluna, bambolista, wuawuayoorjo, in segno di ossequio. Al termine della cerimonia si esibiscono nella qhaswa, danza che si svolge insieme a una donna mentre ritornano al loro luogo d’origine o nella casa dei propri parenti a Ollantaytambo.
Ajchatac Pallaichis: La raccolta dell’Avocado
Si tratta di una danza tipica del dipartimento di Arequipa, provincia di Condesuyos, nel distretto di Chichas. Si balla in occasione dell’attività più importante per il popolo Chicheño, cioè la raccolta di frutta e in particolare dell’avocado nelle sue differenti varietà, destinata ad essere trasportata da animali da soma con borse da sella e sacchi alle città circostanti, come Salamanca, Yanaquigua, Chuquibamba o Huambo.
Questa danza viene performata nei mesi di gennaio, febbraio e marzo, durante i quali i frutti sono abbondanti; viene danzata anche durante il carnevale, quando la popolazione si lancia frutta matura macchiandosi le vesti, una tradizione comune a tutte le città limitrofe. Si balla anche durante la festa patronale dell’8 ottobre, giorno della Vergine del Rosario.
Per questa danza le donne vestono una gonna di colore verde che rappresenta il paesaggio verdeggiante e il pappagallo a testa rossa, simbolo della valle Chichas, oppure una gonna a stampe floreali che danno allegria e colore alla città; una blusa rossa e gialla a stampe floreali; un sombrero adornato con fiori, utilizzato per proteggersi dal sole durante il lavoro nei campi. Gli uomini invece portano una camicia a quadri leggera color verde; dei pantaloni scuri; una sciarpa legata alla cinta che serve per coprirsi il collo durante il lavoro oppure occasionalmente per raccogliere la legna; le pallanas o sakja, strumenti per raccogliere la frutta; infine un sombrero per proteggersi dal sole.
Durante questa danza si dimostrano il valore, l’amicizia, l’unione, l’allegria e l’entusiasmo di realizzare le attività contadine legate alla raccolta della frutta.
La danza a Milano oggi
Un gruppo di migranti sudamericani si incontra ogni sabato per danzare sulle note della musica tradizionale della propria cultura d’origine e per ritrovare la propria specifica identità. La danza trasmette a chi la performa la conoscenza delle tradizioni, della lingua e della storia della madre patria. Questi migranti modellano la piazza sulle proprie esigenze, condividendo l’essere sudamericani a Milano.
Con le danze si rappresentano due momenti diversi della storia sudamericana: una riguarda il periodo coloniale spagnolo, in cui i ragazzi corteggiano le ragazze con dei movimenti “fieri e forti” mentre queste si negano al corteggiamento con movimenti sinuosi; l’altra richiama il periodo precoloniale, nello specifico si fa riferimento a una particolare tradizione riconducibile al rituale di ringraziamento allo spirito-divinità dell’acqua volto a propiziare i raccolti.
Le esercitazioni avvengono in una delle piazze principali di Milano nord, piazzale Maciachini. Come spiegato dai giovani ballerini stessi, questi non hanno un luogo coperto nel quale esercitarsi, principalmente per mancanza di fondi. Per questo motivo non possono fare altro che ritrovarsi in spazi abbastanza grandi da contenere l’intero gruppo; in questo caso la piazza risulta essere il luogo perfetto. Ogni sabato, condizioni climatiche permettendo, si ritrovano per potersi esercitare sotto la tettoia del parcheggio sotterraneo. Il tutto avviene sotto lo sguardo indifferente dei passanti, mentre altre piccole comunità di migranti, come i Rom e coloro che provengono dal Bangladesh e vivono la piazza come luogo elettivo di incontro, assistono alla prova con attenzione e ammirazione.
La questione dell’occupazione della piazza rimanda ai lavori di Zoletto (2010), nei quali si analizza il rapporto tra autoctoni e migranti in contesti pubblici: Zoletto evidenzia il malcontento degli italiani, che si sentono privati dello spazio pubblico dai migranti che lo utilizzano. Tuttavia, se non ci fossero i migranti a occupare e utilizzare la piazza, la comunità italiana le riserverebbe altri utilizzi? Dall’osservazione di piazzale Maciachini in momenti diversi da quelli dell’allenamento, esso risulta “vuoto”, privo cioè di una reale funzione sociale esclusivamente appartenente alla comunità italiana, semplicemente perché i milanesi non hanno interesse né consuetudine a conferire al piazzale una funzione diversa da quella di “passaggio”: gli italiani infatti sono più propensi a utilizzare aree verdi come i parchi cittadini, piuttosto che sostare e svolgere attività ricreative nelle piazze. Interessante notare che i luoghi più utilizzati dalla comunità locale non vengono frequentati dalle comunità di migranti, come ad esempio il parchetto di Via Livigno.
Alla luce di questi fatti ritengo che, contrariamente a ciò che viene annotato da Zoletto (Zoletto, 2010) nei suoi casi di studio nei quali si evidenziano due livelli di culture, una egemonica e le altre subalterne, non si presentino queste modalità nel nostro caso. Per estensione la città di Milano è caratterizzata dalla simultaneità di culture, quindi gli italiani rappresentano una delle culture esistenti poste sullo stesso livello per quanto riguarda la fruizione degli spazi pubblici: ciascuna cultura ritaglia la propria nicchia ecologica nei vuoti lasciati dalle altre culture. Parallelamente si osserva una rilettura di funzione da parte della comunità andina del piazzale, in accordo con quanto osservato da Zoletto nella sua ricerca: la piazza viene trasformata in una sala prove poiché la comunità che ne fa uso in tal senso lo fa abitualmente nel paese d’origine. Inoltre la tendenza ad adattare gli spazi pubblici alle proprie abitudini trova conferma nelle tesi di Smith (Smith, 2000), il quale teorizza la fine della sovrastruttura della nazione, a causa della globalizzazione, e la conseguente ricerca delle radici perdute da parte di ogni singola cultura:
«A causa del brusco aumento della mobilità geografica e sociale, un numero di persone ogni giorno maggiore viene gettato negli enormi crogioli etnici che sono le grandi città e il mercato del lavoro, controllati da Stati burocratizzati sempre più invadenti. Privati dei legami con i propri luoghi d’origine, questi uomini si sentono vulnerabili e minacciati dagli effetti delle trasformazioni economiche e degli spostamenti di popolazioni in corso. Non c’è quindi da meravigliarsi se molti di loro cercano un sollievo dai propri timori nelle lingue tradizionali, nell’appartenenza etnica, nelle religioni. Tanto più il mondo si trasformerà in un luogo privato dalle sue peculiarità locali, più saranno gli individui sradicati che andranno in cerca di protezione nelle tradizioni e nei legami etnici a loro familiari» (Smith, 2000: 12).
La tradizione inventata
Nello studio antropologico delle tradizioni locali si differenzia la tradizione “vera” da quella “falsa” o “inventata”: in sintesi potremmo asserire che le tradizioni vere sono quelle che fondano la loro storia in un passato storico riplasmato miticamente, di difficile identificazione temporale, e sono per lo più riti e pratiche legate alla religione e al calendario agropastorale; le tradizioni inventate sono quelle che si legittimano in un tempo sociale bene definito, che ci appaiono o si pretendono antiche anche quando hanno un’origine piuttosto recente o sono di nuova invenzione (sincretismo). Inoltre, come nel caso di comunità immigrate, si identificano come tradizioni nuove quelle cerimonie e azioni riconducibili al luogo d’origine che migrano con l’individuo o la comunità, modificando sia il luogo che il tempo festivo, per adattarsi alla nuova realtà.
«Per “tradizione inventata” si intende un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità col passato. Di fatto, laddove è possibile, tentano in genere di affermare» ( Hobsbawm,, 2002: 3).
Il momento in cui la tradizione si innesta nel nuovo tessuto urbano verrà identificato come atto di rifondazione del tempo festivo, divenendo così una nuova tradizione che troverà la sua specificità nel luogo in cui si è rifondato. Ogni società ha accumulato una riserva di materiali in apparenza antichi, per rinsaldare vincoli nazionali o semplicemente per ritrovare l’origine culturale. Questa sorta di ingegneria sociale e culturale ha caratterizzato le comunità nelle nazioni post-moderne, che cercano di legittimare la loro più recente «storia» cercando radici nel passato più remoto.
Ciò che il gruppo dei Tarpuy Expresiones Latinas ha fatto è stato innestare in un contesto diverso parte della loro tradizione. Il modo in cui si esercitano e si esibiscono non avviene più nelle forme cui si svolgevano le danze descritte in precedenza. Il distacco dalla comunità è forte ma il modo in cui il gruppo si è innestato nel tessuto milanese ha rifondato il mito della dea del lago o il racconto del colonialismo in una chiave allegorica diversa. La perdita dei legami con la tradizione provoca la perdita di senso dell’identità e dell’originalità della propria cultura, e scopo dell’associazione Tarpuy Expresiones Latinas è di creare questo ponte con il Paese d’origine ricreando con una semantica nuova i sensi e i valori raccontati dalla tradizione in madre-patria.
Se in territorio andino le danze sopra descritte sono espressione di un momento festivo, legate al calendario agropastorale e quindi alla ciclicità delle coltivazioni e transumanze, in territorio italiano diviene uno spettacolo folk, pertanto depurato dalla mistica festiva. Vengono esaltati i movimenti, i colori degli abiti, i vocalizzi, l’intera performance viene modellata per stupire l’osservatore occidentale che osserva e si fa coinvolgere dai “ritmi latini”. Questa è la nuova semantica che viene data alla danza tradizionale andina nel caso studio di Maciachini. Possiamo trarre un rapporto diretto tra i due concetti: tradizione e performance: i soggetti intervistati conoscono il significato tradizionale delle loro danze tanto quanto il significante della performance.
Antrospettiva di una piazza
Per i danzatori del Tarpuy Expresiones Latinas la piazza di prova, così come il palco in cui si esibiranno, divengono degli spazi eterotopici, cioè spazi delimitati ma connessi ad un luogo più ampio, neutralizzando l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, fondando un nuovo tipo di rapporto. Come afferma Foucault,
«ci sono in ogni cultura come in ogni civiltà, dei luoghi reali, dei luoghi effettivi, dei luoghi che appaiono delineati nell’istituzione stessa della società, e che costituiscono una sorta di contro-luoghi, specie di utopie effettivamente realizzate nelle quali i luoghi reali, tutti gli altri luoghi reali che si trovano all’interno della cultura vengono al contempo rappresentati, contestati e sovvertiti. Una sorta di luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo, per quanto possano essere effettivamente localizzabili» (Foucault, 2008: 24).
La piazza come sala prove diviene una zona temporaneamente autonoma che, come lo specchio di Focault, riflette uno spazio che mima una realtà lontana. Il caso etnografico di Piazzale Maciachini, diviene una eterotopia nel senso di “luogo al di fuori di ogni luogo”.
«Lo spazio e il tempo sono fra le prime e fondamentali discrezioni sull’unicum continuum della realtà, operata dall’uomo per organizzare il suo universo esistenziale: lo spazio inteso come permanenza, il tempo come mutamento» (Buttitta, 1996: 266).
Il tempo della piazza è un tempo diverso che si contrappone alla quotidianità. La piazza come luogo d’incontro, cuore della socializzazione, avrà un tempo bradicardico, lento e irregolare. Mentre la piazza come luogo di attività, come sala prove, avrà un tempo più veloce, scandito dal ritmo musicale. La piazza Maciachini, il sabato pomeriggio vive i due tempi in modo simultaneo: uno bradicardico partecipato da individui che nelle panchine si raccontano la quotidianità, un tempo tachicardico vissuto dai passanti che si recano in altri luoghi e un tempo musicale abitato dai danzatori dei Tarpuy Expresiones Latinas.
Ciò che è stato chiesto agli informatori è di spiegare il motivo per cui abbiano scelto una piazza centrale come Piazzale Maciachini. Le sale prova sono luoghi chiusi all’interno di palestre o strutture che permettono la concentrazione e l’attenzione ai passi e alle coreografie, luoghi in cui gli specchi mostrano ai danzatori la loro sincronizzazione nei movimenti, divenendo un sol corpo che danza. La piazza invece è un luogo aperto, crocevia di persone, spazio per antonomasia di incontro e di distrazioni. Eppure la trasmissione del sapere e della tradizione avviene proprio in una piazza aperta e sotto lo sguardo di tutti.
Il motivo apparente per cui il gruppo di origine andina si incontra in piazza Maciachini è la mancanza di fondi per poter affittare un luogo adatto per le prove. A quanto riferito, il loro gruppo si è esercitato in varie piazze di Milano scegliendo il posto in base alle esigenze del momento. Finché il gruppo era numericamente contenuto, provava in uno spiazzo vicino a Porta Romana, poi, espandendosi, ha avuto necessità di uno spazio maggiore. Probabilmente i motivi che spingono la scelta della piazza come sala prove è da ricercare nel senso che la cultura andina attribuisce a questa speciale “isola” urbana. Infatti, come riporta Brivio:
«a Lima le piazze sono luoghi di aggregazione disponibili a tutti quelli che vogliono fare attività […] Non c’è ambiente se non c’è tanta gente e musica. Per noi andare al parco è un modo di portare un pezzo della nostra terra qui» (Brivio, 2013: 48).
Facendo un accostamento tra le parole riportate dalla informatrice della Brivio e la scelta dei luoghi aperti possiamo capire meglio il motivo della scelta della piazza, piuttosto che di un altro luogo. Occorre tenere in considerazione altri aspetti che caratterizzano la piazza come luogo pubblico oggi, soprattutto in una metropoli multietnica come Milano. Descrive Brivio:
«Lo spazio pubblico non sarà più funzionale alla sopravvivenza ma diverrà un’opportunità per addomesticare la città, plasmarla al proprio immaginario e avvicinarla al proprio passato e a un più intimo sentire, caricandola di nuovi significati. Lo spazio pubblico diviene in tal modo sia un’estensione della propria casa, spesso inadeguata ad ogni forma di socialità, sia un luogo dove tentare di ricostruire alcune delle dinamiche, immaginarie o reali, proprie della casa, intesa in senso più ampio come il paese che si è lasciato» (Brivio, 2013: 46).
La piazza quindi diviene un luogo di incontro per socializzare, per incontrare altri connazionali, accomunati dalla stessa storia, aventi la stessa identità culturale, per ricreare una comunità locale che li aiuti ad inserirsi nel nuovo tessuto urbano. Questi luoghi devono essere in un certo senso conquistati, delimitati, chiusi e protetti, ed è il motivo per cui gli spazi pubblici vengono idealmente suddivisi in isole più piccole e occupate dalle diverse culture. Dall’intervista ai Tarpuy Expresiones Latinas sui rapporti con le altre comunità che occupano la piazza il sabato pomeriggio apprendiamo che il loro insediamento non è stato ben visto da alcune comunità, mentre altre hanno accettato serenamente la loro presenza. Non diversamente conflittuale dalle relazioni che possono intercorrere tra i condomini e i vicini di casa.
La piazza come zona di contatto
Mentre la società è sempre più multiculturale, le appartenenze etniche diventano punti di riferimento identitario. Gli emigranti decidono come e se adottare la propria identità nel luogo in cui li ospita, negoziando pratiche e significati e contribuendo a costruire quella realtà urbana plurale che articola i rapporti sociali tra attori culturalmente diversi. Provenienza geografica, somaticità, lingua parlata diventano i principali elementi su cui si basa la stereotipizzazione e il riconoscimento delle differenze. James Clifford, riferendosi ai concetti espressi da Mary Louise Pratt, riporta l’espressione “zona di contatto” identificandola come
«lo spazio in cui popoli geograficamente e storicamente separati entrano in contatto l’uno con l’altro e stabiliscono relazioni correnti» (Clifford, 2008: 228).
La piazza, come luogo di contatto, è quello spazio in cui s’incontrano varie culture, interagendo tra di loro. Questo luogo, pubblico e fuori dall’intimità familiare, può essere sia un campo di scontro, come nel caso di una manifestazione di protesta, che di incontro. In entrambi i casi essa è una zona di contatto, soprattutto se a popolare la piazza sono agenti della multiculturalità, come piazza Maciachini.
Augè (2009) afferma che la nostra società è caratterizzata da un eccesso di ego, possibile causa della diffidenza che è possibile osservare nei gesti più semplici della nostra quotidianità, come attraversare una piazza o recarsi al supermercato. L’atteggiamento, la postura, gli sguardi che si incrociano freddi e distaccati sono segni di questo iper-ego, la paura che qualcuno si possa avvicinare, magari con intenzioni sbagliate, alimenta i pregiudizi contemporanei. La società della metropoli milanese, irretita nell’incessante velocità dei ritmi e dei modi di vita, destina poco spazio e ancor meno tempo all’interazione tra individui. In un paesaggio urbano nel quale non si promuovono né si approfondiscono le relazioni sociali, come può avvenire l’integrazione tra popoli, se viene meno la fiducia, ovvero la sostanza basica dell’incontro tra gli uomini? Come può un immigrato inserirsi in un nuovo tessuto urbano così diffidente e circospetto?
Piazzale Maciachini è un luogo in cui si incontrano varie comunità di immigrati, mentre gli autoctoni si ritrovano in una piazza vicina, un isolato più avanti. La danza etnica come soggetto e espressione esotica può favorire l’integrazione? O, al contrario, lo stare insieme dei migranti, creando un gruppo omogeneo e compatto, irrompe nella eterogeneità della piazza e della società contemporanea, fomentando la diffidenza verso l’altro per poi sfociare nell’iper-ego tyloriano? La piazza è un luogo che include o uno spazio che esclude? La documentazione raccolta mostra come la piazza possa essere un luogo in grado di abbattere le diffidenze che si generano verso gli altri, con l’aiuto della curiosità che più o meno tutti abbiamo.
«Come oggetti di indagine, le curiosità si distinguevano nettamente dagli oggetti studiati dai filosofi della Natura scolastici. Nella loro raccolta e nel loro studio si privilegiavano le caratteristiche inedite, esotiche, rare, singolari e, a volte, straordinarie, contrariamente alla massima aristotelica secondo cui la scienza doveva occuparsi di “ciò che accade sempre o nella maggior parte dei casi”» (Daston, 2002).
Gli organi di senso reagiscono a stimoli di origine chimico‐fisica, e la risposta agli stimoli sono le sensazioni che noi percepiamo; il suono di una musica “esotica”, a noi distante, che ci richiama in una dimensione diversa della metropoli, fa sì che la nostra vista scruti e cerchi il punto di origine del suono, impegnando l’intero corpo. I movimenti sinuosi delle ragazze e i colpi fieri dei ragazzi che si muovono a ritmo musicale fa cadere la nostra diffidenza per far posto alla nostra attenzione. Il corpo è coinvolto nella musicalità con diverse percezioni. La curiosità di sapere il perché quei ragazzi ballino in una piazza o semplicemente sapere cosa stanno ballando, fa superare eventuali contrasti culturali, incentivando stimoli alla conoscenza dell’altro. Da questi primi approcci empatici tra gli attori, ballerini e passanti, prendono vita i primi rapporti costruttivi tra gli individui, che potranno anche portare al dialogo delle culture, convertendo la multiculturalità che rinvia alla separatezza nell’esperienza feconda e inclusiva dell’interculturalità.
Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2016
Note
[1] Il pututu è uno strumento a fiato andino che originariamente si fabbricava con una conchiglia marina appartenente alla specie Strombus galeatus, della misura sufficientemente grande per emettere un suono potente. Con l’introduzione dell’allevamento vaccino a seguito della conquista spagnola gli indios quechua cominciarono a produrre i propri strumenti musicali con le corna degli animali, chiamandoli in egual modo.
[2] Figura tradizionale preispanica che rappresenta il capo della comunità, detto anche sindaco, la cui autorità è conferita dal bastone tradizionale, detto vara (lett.: asta, bastone).
Riferimenti bibliografici
Augè, M. (2009), Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano: Elèuthera.
Brivio, A. (2015), “La città che esclude. Immigrazione e appropiazione dello spazio pubblico a Milano”, in Antropologia, Migrazioni e Asilo politico (n.15): 39-62.
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________________________________________________________________________________ Davide Sirchia, laureato in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo, attualmente è laureando in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso L’Università Milano-Bicocca. Dal 2015 è titolare di cattedra di Antropologia e Etnografia presso l’Uni3 di Milano e collabora con diverse realtà di supporto didattico agli studenti. Ha pubblicato il suo primo saggio antropologico, La Zucca, la Morte e il Cavaliere. Un Halloween del 1200 in terra di Puglia.
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