di Valeria Dell’Orzo
Geografie fortificate, pareti di pietra ingabbiata, di concertine spiralate con lame di rasoio: quello che sta avvenendo nella morfologia contemporanea dei luoghi è un anacronistico ritorno al concetto di barricata, è la costruzione del baluardo, della geografia del paradosso che si blinda dopo aver imposto l’unificazione nei suoi più infimi effetti.
Giorno dopo giorno, sempre più punti di transito [1] vengono trasformati, da gretti sbarramenti, in riproduzioni di inquietanti riserve, e si erge così, fisicamente, il controsenso dell’invalicabilità all’interno di quella macro-area formatasi entro il solco dello sfruttamento della globalizzazione.
Il progetto di un mondo unito, pressato sotto un unico grande meccanismo produttivo, ma marcato al tempo stesso anche da una permeabile mobilità, si è rivelato vincente per l’economia dei potenti, ma vessante per le innumerevoli realtà umane che ne sono rimaste compresse. Quanto di positivo si profilava nella propaganda di questo progetto di connettività e di indifferenziazione – la possibilità di spostamenti rapidi, di inserirsi in un contesto al pari di un altro, di seguire ambizioni e intenti con una completa libertà di movimento e di scambio – è divenuto invece la raffigurazione eclatante della differenza, dell’esclusione, del razzismo, della pretesa di una oligarchia alla supremazia.
Si è palesata, ancora una volta nella storia, quella che Mbembe ha definito come Necropolitica, nella sua essenza cupa e delirante di una sovranità disumana, volta alla gestione sociopatica delle vite che inciampano sul suo suolo di potere diffuso, vite per le quali si determina l’esistenza o meno, l’inclusione o l’esclusione, la vessazione o gli osannati standard di una élite. Le necropolitiche sono quei poteri mortiferi che hanno portato allo schiavismo, al nazifascismo, alle persecuzioni e allo sfruttamento coloniale, sono quei poteri che hanno privato la società della conoscenza, del senso critico cosciente e maturo, della ricchezza del contatto e dello scambio, che hanno diffuso orrore e paure reciproche, arroganza e pusillanime presunzione che un noi possa valere più di un altro. Il richiamo alle tendenze estremiste, di cui ancora una volta ribolle la parte ricca del mondo, è evidente, e con pari evidenza dovrebbe delinearsi in noi la memoria delle difficili, coraggiose e orgogliose prese di posizione che hanno fatto alzare i capi chini della resa, che hanno restituito dignità alle esistenze offese e alla società tutta, movimenti umani che hanno portato cultura e bellezza, le cose più temute da chi vuole esercitare un potere cogente e manipolatorio.
Le immagini che oggi quegli stessi media, promotori della globalizzazione e della paura dell’altro, ci offrono in frettolosi spezzoni di un incubo scomposto sono quelle di vagoni carichi di corpi estenuati, accerchiati e lasciati sotto il sole in attesa di una razione d’acqua, di rassegnazione e svilimento, di fughe tentate col terrore della clandestinità e con la spossatezza di un percorso sfibrante; dall’altra parte della barriera vediamo scarponi tra la boscaglia, fasci di luce delle torce e dei fanali che si incrociano nevrili, cani addestrati a catturare le prede, telefonate dai casolari per allertare le ronde di fruscii sospetti, di pericolosi, spregiudicati, cercatori di vie scampo.
Vediamo la paura montata a dovere da coloro che basano la propria ascesa politica sull’animo esagitato di chi sa di occupare il fondo della propria comunità e spera di ergersi all’ambito ceto medio ponendo sotto di sè altre frange della società, di una umanità che non conosce e con la quale, disperato tra disperati, decide di entrare in competizione. È una sibilata propaganda del terrore giocata attraverso le immagini di ombre derelitte, zattere della medusa colme di un dolore pestilenziale, fiacche colonne di corpi curvi e dondolanti come zombie ammassati al nostro uscio, contrapposti alle aitanti figure di vigorosi detentori dell’ordine, impavidi e eroici guardiani pronti a sfidare la minaccia che assedia l’ignavia tanto comoda al potere e tanto consolatoria tra le masse.
Le nuove barriere, che sorgono nella dimenticanza di quanto sia costato superare l’oppressione stantia della chiusura, fungono da lente di ingrandimento della realtà contempo- ranea. Attraverso il muro possiamo vedere i tanti mondi che compongono la società: vediamo chi entro le mura si chiude, nella pretesa di affermare il proprio diritto di appartenere al mondo sicuro, lontano dalle guerre, dalla fame, dalle epidemie, dalla paura, per la sola aleatoria fortuna di essere nati in uno spicchio del pianeta oggi più sicuro di altri; ma attraverso le maglie metalliche vediamo anche chi disperato si ribella, chi con dignitosa, stremata, fermezza reclama il proprio diritto alla vita, e soprattutto a quella dei propri figli e delle loro speranze, e vediamo i tanti di noi giovani che se pur nati nella parte vincente del mondo sono costretti a lasciare la propria casa, a elemosinare un futuro altrove, a ingoiare la colpa delle proprie origini, sempre più a sud di chi ci ospita, ma con la consolazione di poter varcare i confini senza ostacoli eccessivi, di poter portare con sè il fagotto dei propri titoli, dei propri sacrifici, meno vanificati di tanti altri.
Attraverso il muro vediamo ancora i migranti, quelli di seconda o terza generazione, o anche solo quelli giunti prima degli sbarramenti, precursori fortunati di un percorso divenuto poi impossibile, vediamo la loro realtà, la dimensione di marginalità entro la quale vengono esiliati in ogni città gli stranieri e i poveri locali, reietti e ghettizzati, esasperati in attesa di una reazione che legittimi la repulsione della società nei loro confronti e dunque la chiusura verso la ricchezza socioculturale di nuovi arrivi; ammessi entro le mura dunque, ma relegati in bolle che galleggiano, in sacche di società che non devono mischiarsi, soluzioni di umanità miscelate innaturalmente sulla terra come acqua e olio, mantenendo così la vacua supremazia del noi e decolpevolizzandoci al tempo stesso da quella che altrimenti apparirebbe come una blindatura ancor più netta e irrazionale.
Il muro divide in particelle sempre più piccole la società, gli autoctoni, tra coloro che respingono e coloro che vorrebbero accogliere, comunicare, conoscere; i migranti tra coloro che arrivano e coloro che essendo giunti prima, o essendo nati lì sono ormai parte integrante di quell’al di qua del muro, vittime di un colonialismo devastante e dall’abietto e codardo postcolonialismo europeo, figli spuri dei Paesi ospitanti, relegati alla marginalità di un ospite raffermo.
Sono quei dannati della terra, adunati intorno al fuoco, rischiarati di speranza, gli zombie da cui rifuggiamo, che ci fanno sentire dei ladri nel nostro spiarli oltre la barricata, e stimolano in noi l’aggressività di chi non si sente più l’apice dell’interesse generale, ci agitiamo in scomposte manifestazioni di potere per paura che questo si smorzi di fronte all’esausta fermezza di chi si aggrappa alla vita, colpendo con la loro immagine speculare il nostro vuoto di coscienza. Siamo quindi noi, in realtà, gli zombie che osservano senza capacità di introspezione, di contatto, di comprensione, i veri zombie di cui abbiamo paura e che Sartre ci svela tra le pagine di Fanon [2].
Se rileggiamo il fenomeno delle moderne barricate in chiave foucaultiana, la parte ricca del mondo sta forse, in realtà, cercando proprio di punire se stessa attraverso l’atavica pratica della reclusione, dell’imprigionare entro un perimetro controllato chi ha commesso atti non compatibili con le concordate regole del convivere: stiamo escludendo noi stessi da quel mondo umano e fisico circostante che abbiamo leso, violato, derubato con le più becere pratiche coloniali. I territori del primo mondo si trasformano così, per volontà stessa di chi li abita, in prigioni fortificate all’interno delle quali pavidi e sadici assistono con necrotico piacere allo svilimento di vite e di intenti, di dignità in lotta e di accanita, stanca, speranza. E mentre da un lato del muro crescono le paure e dal lato opposto i risentimenti, ci illudiamo di chiudere tra le pareti gli altri e non ci accorgiamo di stare segregando noi stessi, le nostre stesse vite.
Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2017
Note
[1] Nella sola area euro-mediterranea sono già presenti sbarramenti a Melilla, Ceuta, Calais, Monaco, Idomeni, e ancora tra Slovenia e Croazia, tra Bulgaria e Turchia, tra Ungheria e Serbia, tra Ungheria e Croazia, tra Grecia e Turchia, tra Slovenia e Croazia. Più lunga è la lista se aggiungiamo le recinzioni dell’Egitto, la barriera tra Stati Uniti e Messico, tra Iran e Pakistan, tra Arabia Saudita e Yemen, e i tanti altri nati da conflitti non risolti.
[2] Jean Paul Sartre in Frantz Fanon, I dannati della Terra, Einaudi, Torino, 1962: 9.
Riferimenti bibliografici
Z. Bauman, Danni collaterali, Laterza, Bari-Roma, 2014.
P. Collier, Exodus. I tabù dell’immigrazione, Laterza, Bari-Roma, 2016.
F. Fanon, I dannati della Terra, Einaudi, Torino, 1962.
M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 2014.
C. Ginzburg, Paura reverenza terrore, Adelphi, Milano, 2015.
A. Mbembe, Necropolitica, Ombre corte, Verona, 2015.
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Valeria Dell’Orzo, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee e, in particolare, del fenomeno delle migrazioni e delle diaspore, senza mai perdere di vista l’intersecarsi dei piani sincronici e diacronici nell’analisi dei fatti sociali e culturali e nella ricognizione delle dinamiche urbane.
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