Noi musicisti, non sottovalutiamo mai la potenza della musica, anzi delle volte le affidiamo dei compiti ardui, convinti che possa fare dei prodigi fuori dall’ordine naturale delle cose. Lo sappiamo bene sopratutto noi pianisti, non so perché, ma mi è capitato di notare che abbiamo un atteggiamento diverso nei confronti della musica, non migliore, ma solo diverso che a parole non è facile spiegare.
Capita però nella vita che ogni mille anni nasca un pianista che alla musica faccia davvero compiere quei prodigi. Si chiama Aeham Ahmad. Nato a Damasco nel 1988, di origine palestinese vive nel campo profughi di Yarmouk in Siria. La sua storia è un insieme di coraggio speranza amore per la sua terra e per la sua gente. È talmente tanto grande ciò che ha fatto quest’uomo che ha potuto raccontarsi in un’autobiografia. Le sue azioni giganteggiano nello scenario di una terra martoriata dalla guerra, dove ogni azione anche la più semplice, come lavarsi mangiare o bere un caffè, diventa un problema.
Il pianista d Yarmouk, così è stato soprannominato Aeham, è anche il titolo del suo libro (La Nave di Teseo, 2017). Un libro che tiene il lettore con il fiato sospeso, riesce davvero a catapultarti in Siria e ti ritrovi lì con lui a spingere quel pianoforte che pesa un macigno. Non è solo una autobiografia perché attraverso la vita di Aeham noi conosciamo qualcosa dell’attuale situazione siriana, entriamo a Yarmouk, nel campo profughi palestinese che si trova a sud di Damasco. La storia è tutta concentrata in quella zona e nei dintorni.
Siamo totalmente immersi nella sua Siria, come se fossimo noi a vivere la sua vita. Un pianoforte che pesa quattrocento chili, spinto a mano sopra un carretto con l’aiuto dell’amico Marwan. L’esercito di Assad aveva tagliato la luce, l’acqua, non c’era più nulla da mangiare. Tutto ebbe inizio verso la fine del 2010 sulla scia delle rivolte in Tunisia e in Egitto. A Damasco vi erano delle proteste sporadiche, trasmesse dai canali satellitari perchè la tv era censurata sotto il regime di Assad.
Le prime manifestazioni furono sotto l’ambasciata libica in solidarietà al popolo che si stava ribellando in quel momento contro il loro dittatore Gheddafi, un’altra ancora sotto il palazzo di giustizia perchè il popolo chiedeva la liberazione dei prigionieri politici e un’altra ancora al mercato di Haripa dove un poliziotto picchiò un commerciante. Di sicuro l’evento più importante che portò alla vera rivolta popolare fu il 15 marzo del 2011 quando in circa centocinquanta si diressero verso il mercato di Hamidiyeh al grido di “Dio, Siria, libertà…o niente” , in opposizione alle parole gridate durante le marce del regime: “Dio, Siria, Bashar…o niente”, Bashar è il nome di Assad. La scelta di questo mercato non fu certo casuale. Il luogo, noto perché negli anni trenta da lì ebbe inizio la rivoluzione contro l’occupazione francese, aveva una valenza storica di una certa importanza per il popolo siriano. Tre giorni dopo un gruppo di genitori scese in strada e marciò fino alla stazione della polizia: chiedevano la liberazione dei loro figli arrestati e torturati per aver scritto sul muro delle scuola “il popolo vuole la caduta del regime”. Siamo precisamente a Daʿa, una zona che si trova a sud della Siria; in moltissimi si unirono a quella protesta finché la guardia repubblicana aprì il fuoco: morirono quattro manifestanti. Così gli animi si accesero e la risposta alla repressione non si fece attendere: nel primo mese di proteste morirono più di cento persone.
Ovviamente tutto questo dalle tv siriane non passava o se passavano le notizie erano modificate, tagliate, manipolate, davano la colpa ai palestinesi, ai curdi, agli iracheni. La posizione che si decise di prendere a Yarmouk fu quella di rimanere neutrali, essendo profughi palestinesi potevano benissimo diventare capri espiatori; erano infatti già additati dal governo come “elementi stranieri” che volevano accendere una guerra civile e, dunque, a questo punto non potevano schierarsi contro il regime, anche se in cuor loro simpatizzavano per i manifestanti.
Continua nel suo racconto Aeham: il 15 maggio ricorre la Nakba (النكبة), “la catastrofe”, ovvero la memoria dell’esodo palestinese (الهجرة الفلسطينية), la cacciata di più di 700 mila palestinesi nel 1948, durante la guerra civile arabo-israeliana, all’indomani della fondazione dello Stato d’Israele. In quell’anno 2011 non si sarebbero organizzate le solite manifestazioni ma si sarebbero diretti fino alla linea del cessate il fuoco, sulle alture del Golan (territorio siriano occupato da Israele, al confine con Siria, Libano e Giordania). Il punto di ritrovo era la moschea di Yarmouk, altro luogo politicamente strategico perché di solito lì si organizzavano manifestazioni pro Assad, ma dal momento che lo spostamento dalla moschea alla linea del cessate il fuoco avveniva con i pullman significava solo una cosa: la manifestazione era stata autorizzata, cioè lo Stato siriano nella persona di Assad mirava a distogliere l’attenzione e la rabbia da sé per indirizzarla contro Israele. Infatti, proprio in quei giorni, il regime all’estero affermava che senza stabilità in Siria non poteva essercene in Israele, voleva cioè far passare l’idea che stava pensando di provvedere alla pace nel regno di David ma nello stesso tempo in Siria gli aizzava la gente contro.
Quando i manifestanti arrivarono al confine a Quneitra (alla frontiera tra Siria e Israele, ormai è chiamata anche la città fantasma dopo che i siriani furono costretti ad abbandonarla a seguito della sconfitta durante la Guerra dei Sei giorni), i soldati siriani li lasciarono passare, così che, oltrepassato il filo spinato con le bandiere palestinesi al vento, i soldati israeliani aprirono il fuoco: vi furono tredici vittime. I soldati usavano i proiettili ad espansione che esplodono solo dentro la carne.
Settimane dopo, il 6 giugno, ricorreva la Naksa (يوم النكسة ), “il giorno della vendetta”, che ricorda l’inizio della Guerra dei Sei giorni del 1967, quando Israele ha occupato le alture del Golan e tutta la Palestina. Così, di nuovo, si volle andare al confine: Stavolta fu esperienza più tragica delle altre: si ebbero 350 feriti e 23 morti. Come si pensava la prima volta, dietro vi era il comando generale, che voleva la lotta contro il nemico sionista con ogni mezzo. Il commando generale si era formato da una scissione del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, fondato da Ahmed Jibril, con il sostegno di Damasco. Aveva posizioni del tutto opposte a quelle di Yasser Arafat, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese e dell’OLP, così che mentre OLP contrattava con Israele, il commando generale ne richiedeva la cancellazione.
Era da Yarmouk che il Fronte popolare organizzava i suoi attentati. Al regime faceva davvero comodo l’odio verso Israele: mentre tutti erano distratti contro lo Stato oppressore, il comando generale poteva muoversi con più libertà.
Un giorno a Yarmouk, quando si fermò il carro funebre con le vittime delle rivolte, la gente iniziò a porsi determinate e mirate domande. Si cominciò ad insinuare il dubbio che forse Assad aveva usato quei ragazzi per spostare l’attenzione dal suo regime a Israele. Si attuò pertanto un cambiamento di strategia: la folla non urlava più “Palestina Palestina, milioni di martiri” ma gridava “libertà, libertà”. Si organizzò a Yarmouk, come nelle altre città siriane, una grandissima manifestazione: il 7 luglio 2011 decine di migliaia di persone si riunirono nel quartiere, il corteo iniziò ad inveire contro Ahmed Jibril, che fu costretto alla ritirata, dato che anche i colpi sparati in aria da una guardia non fece indietreggiare la folla. Tornarono giorni più tranquilli a Yarmouk.
Ma quando attaccarono il quartiere di Tadamon, a ovest di Yarmouk, fu una vera e propria rivolta armata fin da subito, dato che in quel quartiere abitavano dei soldati che avevano disertato per difendere i manifestanti dagli spari delle guardie. Nacque allora l’ESL, l’ Esercito Siriano Libero: esponenti della buona società di Damasco compravano armi dal regime per donarle ai ribelli. Il commando generale innalzò check point agli ingressi di Yarmouk in rappresentanza del regime di Assad, ma l’ESL stava avanzando e i conflitti fra le due fazioni erano destinati a intensificarsi. Jibril chiese aiuto all’esercito governativo e da qui matura il vero declino, perché il 15 luglio 2012 a Yarmouk entrò il primo carro armato.
Dopo circa due mesi arrivarono i soldati che iniziarono a perquisire le case in cerca di armi e gente che aveva partecipato alle manifestazioni: vi furono esecuzioni di massa e molti lasciarono Yarda, un quartiere a sud-est di Yarmouk, dove viveva Aeham con la sua famiglia. Un giorno l’esercito governativo fece partire un attacco contro Yarda, ci fu una vera e propria grandinata di bombe, così Aeham fu costretto a scappare con la famiglia di nuovo verso Yarmouk, si trasferirono nella loro fabbrica di liuti, vivendo in uno spazio angusto con i muri spogli, pavimento in cemento, e poche stanze. Ogni giorno speravano di poter tornare nel loro appartamento di Yarda per prendere ciò che serviva loro ma non riuscirono a tornarci prima di un anno. Da lì fu un attimo e si attaccò anche Yarmouk che fino ad allora era stato un porto sicuro in confronto al resto della Siria. Fu così l’UNRWA – Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente, che si occupa dell’istruzione della sanità e aiuti d’emergenza a favore dei palestinesi ovunque essi si trovino, che sia in Giordania, Siria o altrove – ritirò i suoi dipendenti, non potendo più garantire la loro sicurezza. Le loro scuole erano piene di sfollati.
Ormai quasi tutti stavano abbandonando il quartiere, si faceva la fame. Ma un giorno un vecchio allievo di Aeham gli chiese di riprendere a cantare insieme, voleva creare un coro e aveva bisogno di qualcuno che lo accompagnasse. Aeham accettò ma visse una brutta esperienza: il posto dove potevano provare era la sede del partito di Fatah, fondato da Yasser Arafat, anche se l’amico aveva assicurato totale indipendenza politica. Pur titubante Aeham accettò.
Come aveva previsto il pianista, accadde che un uomo di Fatah gli chiese di esibirsi per l’anniversario della morte di Abu Ammar, cioè Yasser Arafat come veniva chiamato dai palestinesi. Aeham, invece, voleva cantare per Yarmouk e l’uomo di Fatah gli promise che dopo gli avrebbe fatto eseguire un concerto solo per il suo quartiere se lui avesse suonato per la ricorrenza, e che si sarebbe occupato lui del carburante per il generatore. Aeham finì ancora una volta per accettare.
Il giorno del concerto per Yarmouk, mentre stavano suonando, la luce si spense, non c’era abbastanza benzina, concerto finito! La gente inveiva con i “buuu” e lui si vergognò. A questo punto l’unica cosa che desiderava era di rendersi indipendente e prima di tutto doveva esserlo dalla corrente, dato che la tastiera aveva bisogno della luce per suonare. Gli venne l’idea di andare dal suo allievo, Mahmud Tamim, un ragazzo del coro, a cui disse che voleva continuare l’avventura del coro, voleva però suonare per le strade del loro quartiere con il pianoforte.
La prima volta che si esibirono fu alla Mansura, la scuola media dove cadde il primo missile: “canteremo lì, solo per noi. All’aperto”. Con i ragazzi del coro, due giorni dopo, presero dal negozio di Aeham il pianoforte più economico, un Ukraina, lo misero su un carretto e lo trasportarono fino alla scuola. Lì c’era un uomo che voleva riprenderli e postare il video su youtube. Aeham era contrario per via delle conseguenze che poteva avere sotto il regime. Alla fine vinse la maggioranza: pensò che se avessero voluto rovinarli, avrebbero potuto farlo quando volevano e come volevano, dunque cantarono: “Emigrati tornate”. Da qui nacque l’idea di portare il pianoforte in giro per le rovine. Voleva aiutare la gente del suo quartiere.
“io sono un pianista, non ho mai sventolato bandiere. La mia rivoluzione è la musica. Quel giorno capii che doveva essere questa la lingua della mia protesta. Anche se nessuno mi avrebbe ascoltato”
Era il 28 gennaio del 2014, iniziava la grande avventura di Aeham Ahmad, il pianista di Yarmouk come lo conosciamo oggi tutti noi. Lui che suona per le strade con il suo coro “i ragazzi di Yarmouk”, suona nella sua terra e per la sua terra, lui che aveva studiato i grandi classici come Bach, Mozart, Beethoven, adesso suonava brani scritti dai suoi allievi che lui stesso metteva in musica. Testi che parlano della loro gente, come “Emigrati tornate” o “Fratello, Yarmouk sente la tua mancanza”, parlano della loro storia. Il primo video su youtube ebbe 40mila visualizzazioni in soli 48 ore.
La sua più grande forza è stata di sicuro la musica ma anche l’amore sconfinato per la sua terra e per il suo quartiere. Il mondo doveva conoscere la situazione in cui si trovavano, quello che stava vivendo la Siria. Non voleva e non doveva stare fermo a guardare la distruzione che avanzava intorno a lui. Ne è esempio una bruttissima vicenda: mentre stava cucinando falafal (polpette) per venderli alla sua gente, ci fu un’esplosione. La sua mano destra sanguinava, aveva l’indice e il pollice come appesi. Stante la disperata situazione in cui si trovava Yarmouk, fu operato da un falegname che, per diversi mesi, aveva aiutato un medico e aveva fatto diverse operazioni. Aveva i nervi della mano distrutti per il 20%, ma riuscì a riprendere a suonare anche se i medici, tempo dopo, in Germania (dove oggi risiede Aeham) dissero che era praticamente impossibile in questo stato tornare a suonare.
Oggi grazie a lui in molti conosciamo Yarmouk, il campo profughi palestinese e la storia della sua gente che ancora adesso vive sotto bombardamenti. Questo libro contribuisce a far conoscere dall’interno la sofferta storia di guerre e di violente sopraffazioni che si sono abbattute sulla Siria e sui siriani. L’autore ha intrecciato le vicende belliche con quelle strettamente private: il suo matrimonio, la nascita dei figli, lo studio del piano, la madre che era maestra e cantante, il padre cieco che suonava il violino, costruiva mobili, accordava pianoforti, lo accompagnava a scuola di musica ogni giorno con il pullman e poi il fratello scomparso per mano del regime. Questa commistione di fatti familiari e pubblici, nel contesto storico di una tragedia che pare non finire mai, fa sì che il lettore si senta un po’ siriano, partecipi intimamente alla vita dei personaggi ovvero alla sfortunata sorte degli uomini e delle donne in carne ed ossa che abitano queste terre.
Oggi la Siria sta vivendo, insieme alla Palestina, le pagine più nere e dolorose della storia. Forse questi conflitti non si placheranno mai, forse non sarà la musica a far cessare il fuoco, ma di sicuro la musica può contribuire a far conoscere la situazione al mondo, può alleviare le sofferenze del popolo martoriato, può sopratutto far sorridere i bambini come Zeinab, una bambina uccisa da un cecchino mentre stava cantando con Aeham. Anche se il nostro pianista si porterà per sempre il senso di colpa per quella morte, noi sappiamo che quella bambina è morta mentre, grazie a lui, cantava felice e in quel momento non pensava alla guerra che aveva tolto tutto, dal cibo ai sogni, alle speranze. Aeham è riuscito regalare loro momenti di gioia collettiva, sorrisi che oggi, esule in Germania, non potrà dimenticare, voci, volti, amici che porterà sempre con sé, alcuni rimasti a Yarmouk, altri che la guerra non ha risparmiato.
Oggi Aeham vive lontano dalla sua terra, essendo stato costretto a lasciarla perché ormai l’Isis entrata nel quartiere gli aveva bruciato il pianoforte. Ma la sua immagine di pianista in mezzo alle macerie diffusa in rete e le sue parole di dolore e di coraggio scritte nel libro di memorie riepilogano con alta intensità simbolica e raccontano con l’efficacia della testimonianza autobiografica l’insensatezza di un conflitto senza fine unitamente alla colpevole cecità e alla cinica inerzia delle istituzioni politiche internazionali.
Dialoghi Mediterranei, n.32, luglio 2018
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