di Pietro Clemente
Le voci che ci guidano
Il film Vado verso dove vengo ha un titolo che sembra un enigma, forse una profezia. Il suo argomento è il mondo dell’emigrazione lucana e dei paesi abbandonati che ha lasciato, quelli donde si viene, e verso i quali – chissà – si può andare ‘tornando’. Ma non è solo questo che ci viene raccontato in un’ora di immagini e di dialoghi e racconti. Sia perché non si tratta solo di Basilicata ma anche di Calabria, di Campania, e perché di fatto si tratta di tutti i mondi interni al nostro Paese che chiamiamo zone interne, o aree fragili e spopolate. Che sono mondi di memorie, di movimenti nello spazio e nel tempo. Nel film sono le voci di Vito Teti e di Franco Arminio che ci guidano, voci che abbiamo imparato a seguire nei loro transiti e nelle loro riflessioni e proposte sui mondi locali, come possibile traccia di futuro, in cui tornare.
Per essere attuale il film deve spezzare una retorica che lega le generazioni più anziane ai ricordi e ai legami delle antiche migrazioni. L’emigrazione italiana in America Latina, Usa e Canada, ha ormai per lo più perso i contatti con le piccole patrie di provenienza. È diventata spesso benestante e anche conservatrice qua e là. Terze e quarte generazioni tornano in Italia a imparare la lingua, o sentono e vivono lontani ricordi di mondi mediterranei che non frequentano, li vivono come una sorta di poetica delle origini, un segno di diversità nel Continente delle diversità. Un altro luogo comune è quello della nostalgia del riabitare nei modi antichi, dentro comunità solidali o conflittuali e mondi per lo più contadini e artigiani. Nulla di simile sarà più possibile, tornare significa investire sulle tecnologie della connessione e sui saperi del territorio, richiede una capacità complessa di far rivivere i saperi e le competenze del passato ma giocandole radicalmente verso la contemporaneità (biodiversa, artigiana, a denominazione protetta etc…).
Viene da evocare, in un modo tutto proprio, il tema di un classico lavoro sull’emigrazione nordafricana in Europa, quello della doppia assenza. Non essere più né di qui, né di altrove. Anche chi è emigrato verso le città ha perso le proprie radici nella periferia. Forse è lui che può più sentire il richiamo della terra, magari spinto dal rifiuto della megalopoli, o dai rifiuti che dilagano quasi a simbolo di un malessere.
Il film di Ragone e Vitelli ha fissato alcuni utili punti, e propone significative narrazioni al mondo di cui ci occupiamo: piccoli paesi, periferie, aree fragili. Lo fa con testimonianze di esperti e di protagonisti di quel mondo ma anche con una forte dimensione dell’immagine, quasi racconti iconici che traversano le parole.
Nel cuore del film una danza misteriosa, in luoghi di forte alterità, di naturalità scabra, il mio universo associativo mi porta verso il Carso, verso Ungaretti, e poi verso Le Crete senesi, verso Mario Luzi, verso Burri e i suoi Cretti di Gibellina. Forse c’è un’aria di famiglia, forse un eccesso di connessione. Ma si tratta del parco di Gallipoli, delle piccole dolomiti lucane. Nel film sono immagini di terra straordinarie, storiche come la scalinata normanna di Castelmezzano – che sembra sintetizzare quasi il senso della vita come faticoso cammino in salita – ma anche naturali, di terra cruda, dotata di grande potenza evocativa. I calanchi di Aliano ne sono protagonisti, luogo anche del festival La luna e i calanchi. Terre animate da una danza muta. È il cuore, o l’anima simbolica del film, che si apre a vari percorsi, per me ora frammenti di poesia importanti nella formazione della mia immaginazione, delle mie poetiche:
Mi tengo a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna.
Giuseppe Ungaretti
***
La terra senza dolcezza d’alberi, la terra arida
che rompe sotto Siena il suo mareggiare morto
e incresta in lontananza
(inganno o verità
miraggio o evidenza –
insidia a lungo la mente
una tortura di dilemma) sperdute torri, sperdute rocche
è un luogo non posseduto dal senso, una plaga diversa
che lascia transitare i pensieri
però non li trattiene, non opera come ricordo, ma come ansia.
Inganno o verità, miraggio o evidenza –
Smarriti ne seguivano i lineamenti
con la testa rialzata sopra i quaderni
trasmettendosi oscura una domanda
e un indecifrato avvertimento i miei compagni di banco.
Inganno o verità, miraggio o evidenza –
sarebbe poi negli anni
tornata spesso la mente al suo non sciolto enigma.
E nel sangue la febbre,
nella febbre la fiamma
d’un’aspettazione incolmabile – ne sai niente?
Mario Luzi
***
Passata Siena, passato il ponte d’Arbia
è lei, terra di luce
che sempre, anche lontano,
inseparabilmente mi accompagna.
- Grazie, matria,
per questi tuoi bruciati
saliscendi, per questi
aspri Celimonti
a cui, calati al fondo
d’un balzo ci levi alti,
per questo nostro errare nel tuo grembo
sbattuti tra materia
e luce, tra natura e sogno
sbattuti continuamente
eppure aguzzi
come freccia verso il bersaglio,
da dove che sia aprigli il tuo regno,
fosse pure il trascorrere di un’ombra
dal nulla al nulla, fluisca sopra il tuo schermo.
Questo era il mio viaggio
o il viaggio della mia preghiera.
Mio? di lei?
Cosa ci spinge allo sguardo?
Mario Luzi scrive ‘matria’ ed è una parola che già varie volte ho accostato a Matera. Ma in Luzi come anche nei Cretti di Burri a Gibellina e in altre opere, questi movimenti artistici del pensiero visivo sono più generali, si fanno subito simboli, e connettono frammenti – come scriveva Rainer Maria Rilke in una poesia su Baudelaire:
Il poeta, lui solo, ha unificato il mondo
Che in ognuno di noi in frantumi è scisso.
Del bello è testimone inaudito,
ma esaltando anche ciò che lo tormenta
dà alla rovina purezza infinita:
e perfino la furia che annienta si fa mondo.
Rovine
Il film di Ragone e Vitelli Vado verso dove vengo comincia con immagini di luoghi abbandonati, di rovine. Questo numero de “Il centro in periferia” propone due contributi di fotografi che si dedicano a documentare e fotografare rovine (De Lorenzi e Del Moretto). Che senso ha tutto questo? Cosa sono i luoghi abbandonati? Forse interrogazioni di senso sulla civiltà? Forse relitti di forme di vita che immaginiamo e cerchiamo di rianimare con le immagini? Una archeologia delle possibilità del vivere sociale che sono state abbandonate?
Diamo la parola al progetto del film:
«Storylines | The Lucanian Ways
Gente che va, gente che viene. Gente che decide comunque di rimanere, in una Basilicata che si sta spopolando, abbandonata a se stessa. A loro è dedicato “Storylines | The Lucanian ways”. Il progetto, presentato dall’Associazione Youth Europe Service, si divide nel docufilm Vado Verso Dove Vengo, e in una video-exhibition.
Il cuore pulsante di “Storylines” non possono che essere le storie. Storie di vita, storie di lucani emigrati all’estero, in cerca di fortuna, storie di chi sceglie di rimanere e di lottare, storie di scelte e di separazioni, storie incrociate. Il film e la video-exhibition ricompongono la frattura, raccontano le esperienze di queste due comunità per cercare di riunirle, di trovare un filo comune.
Il percorso sarà accompagnato da un laboratorio di narrazione partecipata, per far riflettere e indagare le cause e le conseguenze dell’abbandono, dello spopolamento, fenomeno che investe 101 dei 131 paesi della Basilicata e che si propaga in tutta Italia. E per trovare un nuovo destino, una nuova identità a luoghi storici che rischiano di sparire, di non avere più nulla da raccontare e nessuno, peraltro, a raccontarli»
E quindi mettiamo insieme le due sinossi per la stampa:
«Da New York ad Aliano, da Londra a Castelmezzano, storie di vita e voci di esperti narrano il senso del partire e il senso del restare, gli abbandoni e i ritorni nei piccoli paesi delI’Italia dei margini, dove emigrazione e spopolamento sono grandi emergenze da risolvere. Vado Verso Dove Vengo è un crocevia di testimonianze di un universo esploso in mille schegge, di ombre e di doppi da ricongiungere per trovare un nuovo destino ai luoghi che rischiano di scomparire, di non avere più nulla da raccontare e nessuno, peraltro, a raccontarli. Trame da cui bisogna ripartire per riabitare l’Italia e ricucire un nuovo legame tra piccoli paesi e grandi città, tra centro e periferia, tra comunità locali e flussi globali.
Vado verso dove vengo è un film documentario che indaga e compone da un punto di vista soprattutto antropologico, la relazione tra storie personali di lucani emigrati all’estero, in particolare tra Stati Uniti, Inghilterra e Svezia, e storie di chi torna e resta nei piccoli paesi della Basilicata, per far riconoscere le due comunità in una pratica di costruzione corale di nuovi significati dei propri luoghi di origine. Le storie raccolte sono inserite nello scenario che vede la gran parte dei paesi della regione, un tempo fulcro vitale delle comunità locali, vivere una situazione di progressivo spopolamento e abbandono, al pari dei numerosi paesi delle aree interne d’Italia: un fenomeno che, ad oggi, investe 101 su 131 dei paesi della Basilicata e il 60% del territorio nazionale. L’obiettivo principale è, dunque, quello di interrogare e far riflettere sull’impatto che l’emigrazione e lo spopolamento hanno generato e continuano a generare nei luoghi marginali d’Italia e contestualmente evidenziare la capacità di resilienza e di elaborazione di nuove soluzioni e progetti di ritorno. Un laboratorio sperimentale di narrazione partecipata per raccontare i paesaggi fragili, il fenomeno dell’abbandono e quello del ritorno, il senso delle partenze e quello delle “restanze”, il rapporto tra il troppo pieno e il troppo vuoto, tra un passato che non è più e un futuro che non è ancora. Favorire la dialettica tra partiti e rimasti, può restituirci una nuova identità dei luoghi, e tracciare, così, nuove trame di vie e percorsi che porteranno il pubblico a cui ci rivolgiamo, a confrontarsi con un nuovo modello che intende decostruire il tradizionale rapporto tra centro e periferia, tra piccoli paesi e città e ricucire un nuovo legame tra comunità locali e flussi globali».
Esaltare ciò che ci tormenta
Forse nella poesia di Rilke c’è anche una chiave per leggere la passione fotografica per le rovine, i luoghi abbandonati:
ma esaltando anche ciò che lo tormenta
dà alla rovina purezza infinita.
Forse c’è un esaltare ciò che ci tormenta, o stupisce, e c’è un cercare di restituire vita, dignità, storia a brandelli, pezzi, frammenti che parlano ancora di vite trascorse. Ettore Guatelli, il museografo maestro contadino che ha realizzato il Museo ad Ozzano Taro, da qualcuno detto il Louvre dei contadini delle pianure mezzadrili e dell’Appennino parmense, raccontava che da appassionato cercatore di oggetti del passato, quando saliva verso l’Appennino, trovava case aperte e oggetti abbandonati ovunque, come se una eruzione misteriosa e invisibile, un Vesuvio fantastico avesse spinto tutti alla fuga precipitosa, verso il basso, verso le città, verso le fabbriche, senza guardarsi indietro. Sono i fotografi ora che risalgono quei percorsi e guardano indietro e suggeriscono memorie al posto di smemoratezze.
Nel fotografare queste periferie, ai margini dello sguardo dominante ci sono sentimenti, emozioni, che hanno a che fare con il nostro presente ‘ignaro’: nel testo che affianca le foto di Del Moretto si esprime lo stupore per la quantità dei luoghi abbandonati e per il carattere inquietante e insieme – e per converso – si racconta lo scatto fotografico come momento concentrato, raccolto, quasi sacro. Il percorso fotografico di Paolo De Lorenzi sembra tornare su una memoria dolorosa per restituire dignità agli insediamenti umani passati:
«Documentare come si svolgeva la vita di allora tra fabbricati in pietra, stalle, seccherecci e muri a secco costruiti per rubare alla montagna pochi metri quadrati di terra da destinare alla coltivazione dei generi di prima necessità. È sempre un emozione nuova raggiungere un piccolo paese, una frazione, a volte solo un casolare isolato e magari trovare ancora qualche oggetto sopravvissuto all’incedere del tempo ed ai vandali. A volte rimangono solo pochi muri appena riconoscibili, il più delle volte circondati da rovi e vegetazione infestante che li avvolge quasi a proteggerli. Le fatiche sono però quasi sempre ripagate: a volte anche una solo foto può documentare più di tante parole».
Le emozioni e passioni dei fotografi davanti alle rovine scotomizzate ai margini dell’Italia contemporanea, sono anche quelle di chi lotta per la rinascita dei piccoli paesi e delle aree fragili. Si può dire che è la scoperta della ‘coscienza di luogo’ che permette di connettere le rovine al futuro, e quindi dare senso alla memoria di quei luoghi altrimenti soltanto funerari.
La coscienza di luogo (è un tema che connetto con i lavori di Alberto Magnaghi, più volte citati nelle pagine di Dialoghi Mediterranei) ha guidato, nella mia esperienza, alla comprensione delle centinaia di case abbandonate nella Val Pellice, in cui è nata mia moglie, e nella Val Germanasca dove partecipai a una ricerca fatta nei primi anni ’80 con le Università di Siena e Aix en Provence (vedi C. Bromberger, D. Dossetto, S. Dalla Bernardina, Gens du Val Germanasca. Contributions à l’ethnologie d’une vallée vaudoise, Grenoble, Centre Alpin et Rhodanien d’ethnologie, 1994). Restavo colpito dalla ‘bellezza’ di queste architetture perdute, e cercavo di domandarmi se non fosse un approccio estetizzante, come quello di chi dipingeva le rovine antiche tra neoclassicismo e romanticismo. La bellezza è poi un concetto inutilizzabile da un antropologo, semmai significava i miei gusti, formati sull’arte contemporanea e medievale, su Wright e Le Corbusier. E certo c’è un pò di estetica forse modernista nell’apprezzare queste case di montagna di pietra con i tetti con le ‘lose’ di pietra di Luserna, essenziali e al tempo stesso integrate in modo radicale nella particolarità del territorio, tra bosco e fiume tra pietra e fieno. Non lo nego.
Ma lavorando sul concetto di coscienza di luogo mi è parso più chiaro che in questo apprezzare estetico c’è anche la valutazione dello straordinario successo di una tipologia architettonica che, benché priva dei servizi e povera, si basava su materiali locali e serviva nel modo migliore possibile in un tempo senza tecnologie disponibili a vivere nello spazio disperso di colline e montagne. È uno sguardo che, grazie anche agli studi sulla Val Pellice o altri contesti, permette di valutare alcuni tratti di ‘superiorità’ delle architetture tradizionali su quelle moderne. Dal kilometro zero dei materiali, all’adattamento quasi ‘organico’ alla Wright allo spazio. Sono case che recuperate dalle tecnologie sarebbero perfette per un abitare contemporaneo che mirasse all’ambiente, e che evitasse la concentrazione nelle città di tutti i servizi. Non a caso è dalla ‘coscienza di luogo’ che sono nate sia attività edilizie nuove, non cementificanti, legate a una certa diversità di materiali, di coibentazione, di immagine (penso alle case in terra cruda rilanciate nel Mediterraneo, all’uso della calce, della pietra, del legno e delle canne per i soffitti, nei restauri delle case sarde di paese e di campagna. In quelle rovine ci sono ancora segreti del vivere futuro possibile. Ed è questo il tema che guida una possibile continuità nella discontinuità nella prospettiva del ‘Riabitare i paesi abbandonati’. Non rifare i poveri paesi del passato, ma riusare in un mondo nuovo e tecnologico, quelle competenze, saperi, esperienza che fanno ancora la differenza tra un coltivare e abitare seriale, e uno basato invece sulle differenze e gli adattamenti al luogo.
Lontani dai nostri occhi
Anche la pista della poesia come guida ai paesi abbandonati non la ritengo ‘estetizzante’, essa aiuta invece con il suo linguaggio ‘altro’ rispetto a quello della vita a percepire mondi altri e diversi. Così, ad esempio, a me successe quando lavoravo all’allestimento del Museo del bosco di Orgia (Sovicille- Siena) e venivano ad emersione le modalità diverse di uso del bosco, ‘gnoseologie’ di quel mondo organico alla vita dei contadini mezzadri, dei braccianti e dei boscaioli. Inimmaginabile oggi nei termini estetici del visitatore domenicale, il bosco era uno spazio produttivo, conosciuto e curato (ricerca di Valentina Zingari, vedi Il museo del bosco di Orgia, catalogo, Siena, Protagon, 1993) complementare alla attività agricola. Un bosco familiare per i mezzadri, anche se ciclicamente estraneo e inquieto, e invece oggetto del tutto altro e marginale per chi è lontano dalla vita della terra.
Mi aiutò a capire queste differenze una piccola parte della poesia di Franco Fortini, Una facile allegoria,
«lontani dai nostri occhi /vivono i boschi / chiusi con antiche parole,/ rovine d’altri tempi, /vivono dove non siamo piú noi».
Così la ritmo io nella mia memoria, ma Fortini l’ha scritta come segue.
Lontani dai nostri occhi vivono i boschi, chiusi
con antiche parole, rovine d’altri tempi, vivono
dove non siamo piú noi.
Nella sua natura di alterità testuale, dotata di lessici profondi, spesso non più in uso, di memoria e tradizione, la poesia coglie con la sua polivalenza di possibili letture tratti fortemente significativi di una vita diversa da quella che l’ha fatta nascere.
Anche in questa poesia tornano le rovine. E così come i paesi abbandonati, anche queste rovine stanno lontane da noi, non sono comprensibili. O forse lo sono in un progetto di ritorno, di riuso, di coscienza di luogo. Il bosco raccontato dai mezzadri non è solo un racconto, è una esperienza di vita capace di orientarne altre, è una esposizione di competenze dello spazio e della natura che possono servire nel futuro.
È stato Vito Teti a raccontare del senso locale e popolare delle rovine. Con le sue parole vogliamo chiudere, invitando il lettore a guardare le immagini fotografiche dei luoghi abbandonati con questo corredo ulteriore di memorie e di pensieri, e a leggere poi il più ampio testo sull’immagine popolare delle rovine che Teti ci ha dato da pubblicare in un contesto così pertinente (La Calabria e le rovine: abbandono, memoria e costruzione identitaria).
«Sono a Filadelfia, in Calabria, in provincia di Vibo Valentia, domando a un signore se sa indicarmi la strada per raggiungere i ruderi di Castelmonardo (l’antico paese abbandonato a seguito del terremoto del 1783). Ho come l’impressione che il nome Castelmonardo non gli dica immediatamente granché, poi con aria trionfante, propria di chi riesce a soddisfare le richieste di qualcuno che non sa spiegarsi e che ha avuto delle indicazioni sbagliate, mi dice: “Ho capito, volete andare ai dirrupi? Dovete imboccare quella strada…”. È un indizio importante. I ruderi, le rovine vengono conosciuti e chiamati dagli abitanti di molte zone della Calabria con il termine dirrupi. Ma dirrupu o darrupu indica il dirupo o il precipizio. Dirrupare significa cadere nel dirupo, precipitare dall’alto di un burrone, cadere da una roccia, da un sentiero. Dirrupo indica anche le grandi voragini, i precipizi, le ferite provocate dal terremoto. Ancora oggi gli abitanti di molti paesi della Calabria hanno memoria dei dirupi, delle grandi voragini, degli sconvolgimenti del paesaggio seguiti a eventi catastrofici come il terremoto del 1783. E dirruparsi e sdirruparsi indica anche l’andare in rovina, il rovinarsi in maniera improvvisa e inaspettata. C’è, come si può vedere, una vicinanza, quasi una sovrapposizione, tra i dirupi della natura e le rovine del terremoto, come se queste ultime si iscrivessero in una sorta di ordine naturale o sovrannaturale. Le rovine sono quasi parte del paesaggio come avviene nelle culture e nelle tradizioni orientali» (V. Teti, Quel che resta, Donzelli Roma 2017).
Dialoghi Mediterranei, n. 37, maggio 2019
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Pietro Clemente, professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale, collabora con la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).
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