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Nell’Isola del silenzio o quasi

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Isola Dovarese durante la quarantena (ph. Eugenio Carasi)

il centro in periferia

di Luciano Sassi

Qui ad Isola Dovarese, paese di 1100 abitanti nella media provincia Cremonese, al confine con le province di Mantova e Brescia, la chiusura di qualsiasi attività è iniziata a fine febbraio. Non c’è stato bisogno di un vero e proprio ordine prefettizio o comunale, le attività salvo quelle agricole, si sono fermate abbastanza rapidamente e quando l’ordine è venuto dall’alto tutto era in già da una settimana in fase di rallentamento se non di chiusura totale.

Il paese si è fatto strano, il primo effetto oltre il silenzio esagerato, quasi che neanche gli uccelli avessero voglia di cinguettare, è stato il silenzio delle campane. Qui abbiamo un parroco che scampana volentieri a lungo in qualsiasi occasione gli sia consentito e la sospensione delle celebrazioni religiose ha zittito questa sonora attività, presente come scansione della quotidianità. Sembrava, guardando fuori dalla finestra, di vivere in quegli assolati villaggi messicani rappresentati nei film western dove solo un cane magro si aggira annoiato.

 Il senso di vuoto con le strade senza auto, neanche negli stalli dei parcheggi, era la caratteristica più evidente. Un vuoto pieno di gente nelle case, mai come in quei momenti, dove famiglie normalmente diluite dalle attività personali, si trovavano concentrate in un solo spazio, a volte affollato, dove ritmi diversi, incrocianti solo in alcune frazioni come il pasto serale, erano costretti a convivere in un tempo lungo.

Quanto tempo? A fine febbraio si pensava un paio di settimane, poi ci si rese conto di un tempo lungo, dove il traguardo veniva continuamente spostato da numeri di contagio e di decesso non realistici, solo burocratici, statistici, ampiamente sottostimati.

Ritmi di vita mutati, venivano in mente per chi aveva prestato attenzione ai racconti dei nonni, quelli nati a cavallo fra 800 e 900, dove il terrore della Spagnola, il male invisibile che aveva cancellato un numero enorme di vite, si è aggiunto ai tre milioni fra morti ed invalidi conseguenti alla prima guerra mondiale.

Il fiume ed i campi vicini ci avrebbero acconsentito di uscire, qualcuno ci ha provato, ma uno strano senso di colpa assaliva come se si fosse fuori posto, usurpatori di un diritto negato non dalla legge da ma da un male invisibile. La paura di essere redarguiti come irregolari, fuori dalle regole appunto. Ma quali regole? Quelle che disponevano che l’unico luogo lecito era la casa, il medico, la farmacia o il negozio di alimentari; tutti frequentati furtivamente, con qualcuno che perentorio ti ordinava di avere guanti mascherina e quando la mascherina non c’era, perché inesistente, qualcosa a coprire la parte bassa del volto. Sembrava di essere rapinatori in erba di vita normale. Volti celati.

Mia zia, 95 anni, un giorno in cui le avevo portato la spesa, chiedendomi informazioni sul mondo esterno mi disse: «beh quando c’era la guerra almeno le bombe vedevamo da dove venivano e abbastanza rapidamente finivano, qui non si vede niente». Già, questa non era una guerra, ma si sentivano le ambulanze, continuamente, sentivamo gli elicotteri che dall’ospedale spostavano gli infetti gravi verso altri ospedali. Nei cellulari messaggi di amici anche lontani e da tempo non frequentati, chiedevano come stavamo e quindi se eravamo vivi.

Poi i morti, la casa di riposo con decessi in solitudine, funerali veloci, anzi furtivi, senza rispetto della vita di questi anziani. Le informazioni sui conoscenti, sui contagiati… la preoccupazione di chi sfortunato è incappato in questo nebuloso nemico.

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Isola Dovarese durante la quarantena (ph. Eugenio Carasi )

Nelle case un tentativo di ricostruzione di vita, con bambini invitati a frequentare una pseudo scuola spesso in assenza di computer, ma magari con smartphone di ultima generazione per avere whatsapp e facebook ma non una casella di posta elettronica. Con linee internet che viaggiano a 6 kbite al secondo, oppure famiglie con tre figli a contendersi un solo computer.

Si è così manifestata la sentenza che il web non è tutto, che la scuola non è tutto. Perché la scuola senza i genitori, spesso assenti, distratti, deleganti, ha messo a nudo la sua fragilità sociale ma anche la sua grande importanza dove il contatto, l’assembramento è necessario per esistere.

Poi i negozi del paese dove sono apparse le file, abbiamo imparato a stare in fila a rispettare, per paura, il proprio turno senza protestare, scambiando le uniche due parole possibili con altri nella giornata, in quella strana situazione dove l’espressione del volto è celata e solo dal tono della voce si capisce se si è sereni, sorridenti o tristi o ancora arrabbiati. Non è consentito con la mascherina capire l’umore di chi ti sta davanti.

Il colmo è stato vivere senza guardare fuori dalla finestra, perché vista la prima volta, l’immagine era a fuoco fisso, immobile, immutata se non per qualità atmosferiche, deserta, senza vita. Anche cercare immagini di quei giorni è stato difficile. Lo sguardo era verso l’interno perché all’esterno non c’era nulla da vedere, il muro di fronte o la casa oltre la finestra era sempre la stessa. In un comune dove non ci sono i condomini e la popolazione è diluita in uno spazio urbano, i concerti di padelle dai balconi o di canti comunitari è impossibile, così i saluti fra edifici a fronte. Spazi rurali costruiti nei secoli per essere vissuti in strada, nelle piazze davanti alle porte di casa dove il contatto con i passanti è la cucina virtuale dei luoghi di vita.

La chiusura sta finendo, piccoli sprazzi di libertà ci si stanno presentando davanti, nel fondo tanta preoccupazione, il ricordo di chi è scomparso quasi senza motivo, rapidamente, di chi si è ammalato e ne è uscito, di chi ha perso il lavoro. Ma poi i campi sono pieni di colture trionfanti, il fiume scorre ancora, le case, il campanile, la piazza non si sono mossi, nessuna scossa li ha nascosti o distrutti.

La speranza è che si faccia tesoro di tutto questo.

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
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Luciano Sassi, si occupa di conservazione e restauro di beni culturali librari ed archivistici, come libero professionista, specializzato nella gestione delle emergenze nei beni culturali. Ha tenuto corsi all’università Statale di Milano, Politecnico di Milano, Trieste e Normale di Pisa. Presidente di Ecumesoisola, associazione che gestisce un museo di storia dell’agricoltura e del paesaggio agrario con annessa cascina. Dal 2008 collabora con la Biblioteca Archivio Emilio Sereni dell’Istituto Alcide Cervi di Gattatico (RE) e come tutor alla Summer scoop Emilio Sereni sulla Storia del paesaggio agrario italiano. Ha scritto Mangiamo alla giudia? Le influenze gastronomiche di due popoli vicini ed interconnessi; Un mare di terra. Nutrirsi e mangiare fra XV e XVI sec. sul confine di tre Stati, nonché numerosi articoli sui quaderni della Summer school  ed in pubblicazioni della Biblioteca Archivio E. Sereni.

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