il centro in periferia
di Maria Molinari
Per noi che viviamo in montagna, il periodo di quarantena pare che stia portando un nuovo vento quassù. Un vento che corre dal basso, prepotente e speranzoso, che sale verso l’alto correndo forte e chiedendo risposte che forse la montagna non saprà dare. Forse non farà in tempo a dare quelle giuste.
La quarantena in paese è stata sopportabile nel limite dei paesaggi aperti che si vedevano dalla finestra. È stata sopportabile grazie al pensiero rincuorante di non dovere per forza incontrare persone nell’uscire a fare la spesa e da quello opposto di potersi fermare senza per forza dover fare assembramenti. Il periodo iniziale è stato pieno di preoccupazione per le evoluzioni degli accadimenti. Il mondo di fuori era raccontato dai bollettini serali letti dalla Protezione Civile. Un mondo di fuori mai sentito così tanto distante.
Il borgo è diventato improvvisamente l’unica risorsa del vivere quotidiano, intervallato, per chi le aveva, dalle autorizzazioni ad uscire per prendersi cura degli animali o delle persone. Se prima della quarantena qualche volta si andava a fare la spesa in pianura per riequilibrare le economie familiari, in quarantena si è imparato che si fa con quello che c’è in paese. Se alla bottega mancano cose, si fa senza. Si rimandano i bisogni meno urgenti a quando si potrà e credo che di questo, l’economia del paese, ne abbia giovato. Nel complesso ci si è resi conto che i disservizi tipici della montagna si erano diffusi, durante il lock down, un po’ in tutto il resto di Italia. Un’Italia momentaneamente in stand by.
Si ascoltavano alla tv e si leggevano sui giornali le evoluzioni delle progressive chiusure. Non sono mancati neanche in Appennino gli arrivi inusuali di persone dalle città, quelli che nei primi giorni di quarantena si sono affrettati ad uscire dalle metropoli del nord, quelli in cerca di un luogo “sicuro”, quando ancora tutto poteva accadere. Poi sono stati fermati anche quelli, non senza un sospiro di sollievo di molti paesani che bofonchiavano tra la paura dell’invasione portatrice di virus dalle congestionate e infette città e la sorpresa di essere diventati improvvisamente oggetto di attenzione e meta di persone che questa montagna, magari, non l’avevano mai cercata prima per un soggiorno di più giorni.
La montagna ancora una volta è stata luogo di disservizi, o di servizi a metà, ma di vicinanze umane ancor più preziose. Per molti è stata una chimera riuscire a far continuare la scuola ai bambini, tra singhiozzi di connessione e strumenti assenti. Per altri, soprattutto gli anziani delle frazioni più isolate, la sospensione di alcuni servizi ha significato smarrimento e preoccupazione. Non poter contare sul confronto medico periodico, non potere recarsi al mercato settimanale (luogo di confronto e garanzia di supporto per molti anziani che si muovono solo con il trasporto pubblico settimanale, qui da noi al giovedì).
L’isolamento (quello fisico / materiale e quello umano) ha portato una solitudine incolmabile, rotta solo da atti di solidarietà partiti dalle amministrazioni più sensibili o dai volontari delle organizzazioni come la Croce Rossa o dalle parrocchie. Persone con le loro abitudini, che affrontano la vita equipaggiata con una sua bella dose di difficoltà, messi a silenzio da un’emergenza più grande di tutto il resto. Per le fasce deboli della popolazione, anche nel nostro Appennino Tosco Emiliano, il lock down ha significato paura e solitudine. Il termine lock down, letteralmente “confinamento”, per alcuni ha descritto una condizione che già stavano vivendo.
I richiedenti asilo e i rifugiati accolti in paese hanno affrontato la pandemia telefono alla mano. In videochiamata continua con gli operatori dei progetti, inizialmente si trovavano smarriti. Il non poter più fare affidamento sui connazionali che stanno in città e l’obbligo di fare gli acquisti nelle care botteghe di paese hanno richiesto una calibrazione del contributo giornaliero del vitto previsto dal progetto poiché non più sufficiente secondo gli standard di sempre. Comprare collettivamente venti chili di riso all’African Market di Parma permetteva di poter tirare avanti mesi, risparmiando belle somme da poter poi mandare ai parenti in Africa, o in Pakistan, o in Afghanistan, a seconda della provenienza di ciascuno.
Dall’altra parte il disagio della quarantena, che ha richiuso nelle strutture (micro appartamenti di paese) anche i richiedenti asilo, ha fatto tirar loro un sospiro di sollievo, certi di essere maggiormente al sicuro rispetto ad alcuni connazionali ospitati in grandi casermoni-dormitori e a contatto continuamente con potenziali persone portatrici di virus. Per una volta, ai loro occhi, il piccolo paese di montagna, inapprezzato perché povero di opportunità lavorative, si rivelava essere un’isola felice.
Un altro problema connesso (e relativo) è stato quello di dover affrontare un decisivo cambio di dieta, in particolare nel periodo del Ramadan: mentre in città si può acquistare la carne halal, l’olio rosso, le patate dolci o altre pietanze specifiche, come da tradizione, in paese tutto questo non è stato possibile. Il disagio economico è stato in questo caso accompagnato da un decisivo cambio di alimentazione e di abitudini. Si sono viste nascere ricette interessanti, adeguamenti di ingredienti e modi di cucinare inediti.
Tuttavia, da molto tempo le mura del paese non offrivano ai loro abitanti un senso così piacevole d’intima protezione. Questa sensazione – mi hanno riferito i rifugiati che ho intervistato – li ha fatti sentire salvaguardati e protetti, oltre che supportati dal trovarsi nella stessa condizione di vulnerabilità del resto degli abitanti del borgo.
È stato così che alcuni, finalmente dopo mesi di frequentazione del paese soprattutto per il rientro serale, hanno cominciato ad esplorarne con maggiore curiosità le vie e poi i sentieri, quando è stato possibile, con una gran quantità di tempo libero a disposizione avendo i corsi di italiano sospesi, gli uffici di collocamento chiusi, le scuole di formazione professionale in stand by. Una scoperta che probabilmente non sarebbe mai avvenuta se non fosse stato per la costrizione di dover sospendere ogni attività di inserimento sociale e lavorativo in una società che richiede uno sforzo e un impegno durissimo di inclusione.
Mai come in questo momento la montagna è sembrata il posto giusto in cui trovarsi, al contrario di quando pensavano che la montagna (non scelta ma subìta per il collocamento delle quote regionali) li allontanasse dalle opportunità della tanto sognata città europea.
Nelle mie zone, sull’Appennino parmense, oltre alle reazioni di “quelli di fuori” (come i rifugiati che ormai tanto “di fuori” non sono più, se non fosse altro perché scendono abitualmente alla mattina con la corriera per rincasare soltanto alla sera con la corriera di ritorno dopo aver svolto tutti gli impegni che il progetto educativo individualizzato prevede), ho potuto osservare i desideri dei cittadini non residenti farsi tsunami.
Recentemente è uscito un bando della Regione Emilia Romagna, dedicato a chi in montagna vuole mettere radici. Il bando finanzia la ristrutturazione o l’acquisto della prima casa da parte delle giovani coppie che nei comuni montani vogliono stabilire la residenza. Questo bando, connesso al periodo del lock down che ha chiuso tra quattro mura tutta Italia ma che è stato particolarmente sofferto da parte di coloro che non avevano neanche un lenzuolo erboso dove potersi rilassare al sole, ha fatto suonare i telefoni di agenzie per la casa, amici, conoscenti, parenti, sindaci, privati affittuari delle nostre zone montane.
Il bisogno di montagna correva nelle linee telefoniche: tutti alla ricerca di un appartamento con giardino, o un rudere da ristrutturare, fuori centro paese, ma “anche in paese va bene”,“c’è del verde lì intorno?”. Amici che non sentivo da anni mi chiamavano per sapere come potersi muovere per trovare “un posto su da voi”, “lì in montagna”, “una casa da sistemare, nel verde, dove passare il tempo, fare il pendolare e poi chissà, magari un giorno stabilirsi”. A Berceto, nel periodo marzo-aprile, in anni recenti non si assisteva ad una domanda di case in affitto o acquisto così elevata. Solitamente le prenotazioni avvenivano a maggio-giugno. Quest’anno a giugno c’è già gente in piazza pronta per la “villeggiatura” estiva. Si dovrebbe tuttavia trovare un nuovo termine, perché forse tra qualche tempo non si parlerà più di mera villeggiatura estiva. Credo che queste richieste abbiano delle prospettive di futuro più allungate rispetto al periodo delle sole vacanze.
Mentre le molte case vuote (le seconde case) negli anni precedenti si aprivano per quindici giorni di agosto (a volte di più e a volte di meno) quest’anno le molte case non abitate in inverno hanno aperto le persiane già nel week end successivo al tanto atteso 3 giugno. Non ci si limita più ai quindici giorni, ma la richiesta è per tutto il periodo estivo. Chissà se, a queste, seguirà una richiesta sul lungo periodo che va oltre al 31 di agosto.
Alcuni amici che possiedono B&B mi hanno riferito di un lieve mutamento della domanda. Pare cambiata la tipologia dei clienti dell’estate 2020: prima le persone telefonavano per prenotare pernottamenti del week end. Erano soprattutto escursionisti, cinofili, turisti alla ricerca di tour eno-gastronomici… adesso sono persone, famiglie con bambini e anziani al seguito, che chiedono soggiorni più lunghi, residenziali, per tre mesi almeno.
Da cosa nasce questo irrefrenabile bisogno di montagna? I discorsi che si potrebbero fare sono molti, a partire dalla messa in luce della crisi del modello attuale di sviluppo, la crisi della città, le difficoltà respiratorie che non sono solo fisiche, ma che hanno un suono molto metaforico. Solitamente la congestione di città è sopportata tutto l’anno e si attende la pausa vacanziera verso il mare o la montagna.
Questo tempo di riflessione prolungata, tuttavia, ha messo in crisi molti. In tanti si sono chiesti quale sarà il futuro di tutti noi e molti si sono trovati costretti a tirare le somme. È come se il senso di sopportazione fosse trascinato dalla routine giornaliera. Quando però la routine si rompe è messo in crisi anche il senso di sopportazione. La domanda se la strada che stiamo percorrendo sia quella giusta, viene fuori dirompente quando ci si ferma sul sentiero a guardarsi intorno. In quante famiglie, durante il periodo di quarantena, ci si sarà chiesti: dove stiamo andando? Cosa possiamo fare per prendere la direzione giusta?
L’anno 2019 è stato un antipasto fatto di assaggi di consapevolezza: sul nostro rapporto con l’ambiente, i movimenti giovani del venerdì, i provvedimenti plastic free… Il 2020 è stato una torta sbattuta in faccia su quelle che possono essere le conseguenze se non si cambia rotta sullo stile di vita di ognuno di noi.
Nella recente ricerca che ho svolto [1] emerge con chiarezza come la montagna rappresenti la ricerca di un equilibrio che in città le persone sentono di avere perduto. C’è una sorta d’idealizzazione sulla montagna come luogo dell’equilibrio: nei rapporti tra le persone, nei rapporti con l’ambiente. I nuovi montanari lasciano la città per trasferirsi in montagna per ristabilire un equilibrio.
La montagna però non è un semplice luogo fuori da tutto, da usare al momento del bisogno. Un luogo temporaneo, in cui costruire o sistemare quattro mura per poi chiuderle e renderle inaccessibili con cancelli e reti invalicabili per undici mesi all’anno. A volte per me è preferibile vedere un rudere con la sua storia iscritta tra le linee del tempo che una casa aggiustata con le persiane chiuse. Barricata nel suo cortile, nel suo bosco di proprietà privata, nei suoi recinti che nulla sorvegliano perché la casa è inanimata.
La montagna non è un semplice luogo dove apporre la bandierina, a uso temporaneo e a piacimento, come semplice appartamento di proprietà che si può occupare mantenendolo chiuso al mondo e a se stessi. Chi desidera un non-insediamento? Anche se di poche, la montagna è un luogo fatto di persone. La gente qui si rifugia non per stare solo, ma per trovarle le persone, il più delle volte. Per tornare ad avere un rapporto ridimensionato e profondo con ciò che ci circonda.
Saremo in grado di fare un passo indietro rispetto alla nostra immaginazione e capire che i paesi non sono solo fatti di un insieme di costruzioni in muratura, ma che sono piazza e cucina, persone e relazioni, bosco e case, rii e rubinetti, versanti e prospettive, dolci realtà e forti crudezze e che devono andare insieme verso un ripensamento collettivo del rapporto con il mondo?
I luoghi, se vogliamo parlare di questi, non sono meri punti geografici nella nostra mente. Un luogo contiene tante cose. Contiene gente. Se non vogliamo riproporre le stesse dinamiche che ci stanno portando al fallimento, è necessario comprendere che i luoghi sono fatti di persone e che insieme all’ambiente che le circondano vanno a disegnare un contesto. Chiediamoci come possiamo inserirci nel contesto presente. Chiediamoci cosa fare per migliorare dandoci il tempo di capire, i luoghi e la loro storia. Perché tutti i luoghi, anche se silenti, hanno una storia.
E noi che in montagna ci viviamo, saremo in grado di trasmetterla? Saremo in grado di dialogare con queste nuove popolazioni che vengono da vicino o da lontano? Saremo in grado di fare durare questo bisogno di montagna? Saremo in grado di accogliere? Saremo in grado di governarci o ci faremo trascinare passivamente dalle correnti in piena che di solito corrono molto più veloci dei rigagnoli montani? Saremo in grado di ridurre la distanza?
La famigerata distanza tra città e montagna sta facendo un lungo e faticoso percorso verso la riduzione. Questo è quello che speriamo. Lo speriamo dalla montagna, perché da anni ci lamentiamo di essere il fratello sfortunato di Italia. Lo speriamo dalla città, perché per anni ci siamo sentiti non accolti e marchiati di essere troppo cittadini.
L’Appennino può diventare un nuovo modello di sviluppo utile a tutti. Si tratta di costruirlo insieme con la consapevolezza che i luoghi sono di tutti e responsabilmente vanno gestiti. Dovremmo cogliere l’occasione per realizzare quella tanto sperata connessione città-montagna che finora non c’è stata, sperando che i luoghi montani non siano solo luoghi di transito domenicale per la passeggiata in famiglia o con gli amici, ma luoghi da abitare.
I proprietari delle seconde case, lo tsunami in cerca di casa, coloro che cercano l’appartamento con il verde intorno, saranno futuri soggetti importantissimi di cambiamento. Sarebbe bello che avessero la possibilità di sperimentare il restare, sarebbe bello che si fermassero più a lungo nelle seconde case, sfruttando la possibilità dello smart working e sperimentando il quotidiano vivere in montagna. Solo così potrebbero diventare loro i cardini importanti per connettere strategicamente le aree urbane e le aree rurali, non solo i personaggi “chiave” che a volte i paesi possiedono, quelli che fanno rete con la pianura. In questo momento dovremmo sostenere entrambi. Queste persone sono i primi pionieri alla ricerca dell’equilibrio. Dovremmo sostenere le loro scoperte e ascoltare i racconti di ciò che vedono. Da una prospettiva di vetta a quella di campo base.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] Molinari M. Un territorio immaginato. Vecchie e nuove migrazioni in un paese d’Appennino, MUP, Parma, 2020
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Maria Molinari, laureata in Antropologia culturale ed etnologia all’Università degli Studi di Bologna (triennale e specialistica), dopo alcune esperienze di cooperazione all’estero, ha lavorato (dal 2005 al 2019) nel campo dell’accoglienza migranti, con enti locali ed organizzazioni no profit. Impiegata nei primi anni come educatrice, dal 2011 ha avviato e coordinato progetti di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati nelle aree montane. Ha svolto un master su studi interculturali all’Università di Modena e Reggio Emilia; una borsa di studio presso l’Università di Parma; un corso di perfezionamento in Antropologia museale e dell’Arte presso Università degli Studi Milano Bicocca; ha svolto numerosi corsi di progettazione. Originaria dell’appennino parmense, dove vive e pratica la professione di guida ambientale escursionistica, attualmente si occupa di progettazione, consulenza e coordinamento di progetti sulla valorizzazione del patrimonio e su progetti socio-culturali richiesti da enti locali ed organizzazioni. È fondatrice e coordinatrice del Piccolo Festival dell’Antropologia della Montagna.
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