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Il “borgo” dell’Acquabella, una patrimonializzazione dal basso

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Acquabella (ph. Adriano Ghisetti)

il centro in periferia

di Adriano Ghisetti Giavarina e Lia Giancristofaro [*]

Scopo della mia gita, in quegli ultimi giorni di settembre del 2013, era di vedere i resti della Torre del Moro – una delle tante torri costruita nel 1563 per il sistema difensivo delle coste del Viceregno spagnolo di Napoli minacciate dalle scorrerie dei Turchi – nei pressi della foce del fiume dallo stesso nome, di cui mi aveva parlato un amico che coltivava un terreno in quei dintorni. Egli mi aveva indicato in che punto avrei dovuto lasciare la Statale Adriatica e, accostata la macchina ai margini di un uliveto dal quale la vista spaziava sulla costa a mezzaluna da Casalbordino a Vasto e forse fino alle Tremiti, mi incamminai per un viottolo che in ripida discesa conduceva al mare.

Macchia mediterranea e rupi di arenaria ne segnavano il fianco a monte, mentre a valle si aprivano, tra un ciuffo di verde e l’altro, squarci panoramici sull’ampia piana sottostante, sulla vecchia linea ferroviaria dismessa, sulla scogliera eretta a sua protezione battuta dalle onde. Poi, improvvisamente, ecco l’apparire di alcune casette, semplici ma ben aggregate, strette al margine del pendio roccioso e lambite dalle coltivazioni di ulivi, viti, agrumi. Separate dal mare, si capiva, per effetto della costruzione della ferrovia, che doveva correre a una certa altezza ed essere protetta dai marosi con i macigni della forte scogliera. Eppure, nonostante il paesaggio naturale fosse stato modificato dall’uomo, il luogo aveva un suo fascino speciale.

Era stato conservato l’acciottolato che da tempo immemorabile pavimentava il sentiero tra le poche case che, una vicina all’altra, si fronteggiavano o si affiancavano in un’armonia che il critico definirebbe spontanea, ma che aveva in sé qualcosa di unico, quasi che la natura stessa avesse avvicinato quei volumi. I poveri muri erano segnati dal tempo, quel tempo “grande scultore”, come ha scritto Marguerite Yourcenar, ma anche grande pittore, vorrei aggiungere, per la sua attitudine a stemperare i colori variandoli in mille sfumature. Si respirava, all’Acquabella, l’aria di un tempo sospeso, in cui il passato e il presente non avevano confine: e si capiva che sarebbe bastato poco per rompere quell’incanto.

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Acquabella (ph. Adriano Ghisetti)

Lasciai quel luogo, nascosto sotto il promontorio e nell’insenatura prossima alla galleria ferroviaria, con l’idea di non parlarne, di non farlo conoscere a chi, probabilmente, non avrebbe saputo rispettarne il sorprendente e misterioso genius loci. Non sbagliavo, purtroppo, in questo presentimento: la malintesa valorizzazione turistica di luoghi che non chiederebbero altro che di essere lasciati come sono, riservando a un tempo lungo gli inevitabili, lenti cambiamenti, sarebbe arrivata di lì a poco anche all’Acquabella, sull’onda dei lavori di costruzione di qualcosa che dovrebbe rappresentare un modo sostenibile di avvicinarsi al paesaggio: la pista ciclabile che segue la costa marina dell’Adriatico. Una realtà che dovrebbe appunto consentire, in questo tratto a sud di Ortona, la tranquilla fruizione di una costa ancora relativamente incontaminata, ma che invece sta sollecitando interessi non proprio compatibili con questo intento, dal momento che si sente parlare soprattutto di trabocchi-ristorante (non più macchine da pesca, ormai, ma evidentemente macchine da soldi), anche con progetti di nuove costruzioni, e di ampi parcheggi al loro servizio ricavati accanto alla ciclabile.

Nel frattempo ho scoperto – quante cose scopriamo per la nostra ignoranza e non perché siano vere scoperte – che la Punta dell’Acquabella dal 2007 è una Riserva Naturale Regionale, quindi un’area protetta. Una delle caratteristiche di questa riserva è la falesia, ossia la ripida scarpata erosa dal vento e dal mare che disegna le pareti del promontorio, una delicata struttura di arenaria e conglomerati che non è esente da crolli. Un habitat tuttavia ideale per piante ed uccelli anche migratori che seguono la linea costiera in primavera ed in autunno.

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Acquabella (ph. Adriano Ghisetti)

Mentre il cosiddetto “borgo” del versante meridionale del promontorio, frazione del Comune di Ortona, sarebbe sorto come piccolo insediamento di pescatori (fig. 4), favorito dall’insenatura di facile approdo e soprattutto dalla presenza dell’ormai scomparsa sorgente dell’Acquabella, di cui esisteva una fontana. Una sorgente che anche nei secoli precedenti doveva favorire l’approvvigionamento delle imbarcazioni romane, bizantine, forse crociate, quindi dei legni di mercanti e di pirati.

Che il luogo fosse abitato dall’età antica, sarebbe dimostrato da ritrovamenti archeologici risalenti soprattutto al periodo di costruzione della ferrovia, ma anche a qualche anno prima: il Museo di Santa Giulia a Brescia custodisce infatti oggetti in bronzo, tra i quali un caduceo simbolo di Asclepio, trovati nel 1857 sul sito della massicciata ferroviaria, mentre altri reperti più recentemente sono stati rinvenuti sul fondo del mare. Alcuni di essi sono stati datati al I secolo a. C., ma in situ sono tuttora presenti anche grandi blocchi di pietra calcarea di spoglio, che si pensa essere appartenuti a un edificio antico, forse un santuario dedicato al dio Asclepio. Se tale santuario fosse mai esistito – potrebbe anche darsi infatti, per quanto meno probabile, che i reperti di bronzo siano andati perduti in seguito a un naufragio – propenderei però a immaginarlo in alto, sul promontorio, in analogia con altre simili situazioni dell’Antichità come il Tempio di Poseidone a Capo Sunio o, per restare in Italia, come il Tempio di Giove Anxur a Terracina o come il Tempio di Atena, poi di Minerva, alla Punta Campanella. Una frana – come sappiamo che accadde ad Ortona nel 1782 e nel 1818 e a Vasto nel 1956 – potrebbe aver fatto precipitare in parte a valle e in parte in mare la costruzione con gli ex-voto bronzei che custodiva.

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Acquabella (ph. Adriano Ghisetti)

La linea ferroviaria adriatica, per il tratto da Pescara a Foggia, che attraverso una galleria sotto il promontorio lambiva le casette dell’Acquabella, fu costruita negli anni 1863-1864 per raggiungere Brindisi nell’anno successivo, l’importante porto che doveva rappresentare il punto d’imbarco per i passeggeri della Valigia delle Indie, il treno proveniente da Londra riservato a merci e passeggeri diretti nella cosiddetta “perla dell’Impero britannico”. Tra gli illustri viaggiatori del convoglio è da annoverare anche Winston Churchill, che tra il 1897 e il 1898 fece due o tre volte il percorso adriatico in ferrovia. Ed è mia opinione che fu forse proprio la conoscenza di questa linea costiera a suggerirgli, allorché con gli alleati americani studiava i piani della conquista dell’Italia, di far avanzare le truppe imperiali britanniche in prevalenza su quella direttrice, mentre i soldati dell’esercito statunitense sarebbero stati impegnati sul litorale tirrenico. Come è noto i due eserciti affrontarono durissime battaglie lungo la linea difensiva Gustav presidiata dai Tedeschi e la valle del fiume Moro, la cui foce è vicinissima all’Acquabella, per due settimane del dicembre 1943, fu il teatro di violentissimi scontri.

Che un luogo di così importante interesse naturalistico, paesaggistico, storico, archeologico ed architettonico potesse cadere vittima della speculazione edilizia è qualcosa che al tempo della mia prima visita non avrei mai immaginato: invece è proprio così, nonostante le segnalazioni e le denunce da parte della Sezione di Lanciano di Italia Nostra, dell’Associazione San Giorgio Scuola di Pescara, del comitato “Compagnia dell’Acquabella” e di semplici cittadini. Eppure basterebbe tener presenti gli articoli 1 e 2 della Convenzione dell’UNESCO per la protezione del Patrimonio Mondiale culturale e naturale del 1972 per rendersi conto di quanto siano meritevoli di essere tutelati i luoghi dell’Acquabella: promontorio, costa marina, abitato, terreni coltivati circostanti. E di quanto importanti siano anche i valori ambientali celati nel piccolissimo agglomerato edilizio.

“Valori ambientali” è un’espressione che non ha ancora una sua precisa definizione, e in attesa di giungere a una tale formulazione, per offrire una possibilità di capire quale valore possa trovarsi in un ambiente costruito, a titolo di esempio cito il brano di un articolo scritto da Gino Doria poco meno di un secolo fa: «È assai difficile spiegarlo: è un indefinibile, è un inafferrabile, è un complesso di mille cose impalpabili. Sono migliaia di ricordi ammucchiati in un punto, sono abitudini millenarie localizzate in un altro, sono tutte le gioie e tutti i dolori di un popolo che hanno lasciato la loro traccia in quella piazza, in quel vicolo, su quella casa»[1]. Per Doria si trattava di spiegare quanto potesse essere rappresentato dall’espressione “colore locale”, ma le sue parole mi pare valgano anche a dare un significato ai valori di un determinato ambiente, caratterizzato dalla presenza dell’uomo e animato dal sentimento che ne ha ispirato l’operare.

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Acquabella (ph. Fabio Venti)

Ho visitato il borgo in una ventosa e tersa giornata dell’estate del 2020. Oh che fresche funtanelle è l’Acquabelle, recita la canzone ortonese scritta oltre cent’anni fa dal poeta Cesare De Titta e composta dal musicista Guido Albanese. Dove c’è acqua potabile, c’è vita sociale, e gli abitanti del borgo, un unico clan familiare, incanalarono il ruscello nella piazzetta principale, creando una vasca-abbeveratoio utile per persone e animali. L’acqua dolce, ricchezza del luogo, rese la spiaggia adatta al ricovero di una flotta di paranze, tutte di un’unica famiglia, i D’Arielli. Sulle rocce tra terra e mare, vi sono anche tracce della pesca con il “trabocco”: una capanna di legno poggiata su palafitte con una larga rete “a bilancia”.

La grassa Terra d’Acquabella, come si vede dalle piante superstiti negli orti ormai inselvatichiti, donava alle generazioni della famiglia ortaggi e frutta in quantità, tra cui limoni, cachi, fichi, pesche e arance. Un abbondante approvvigionamento di legna (il borgo è dotato di un forno comune) veniva garantito dal bosco di querce, roveri, betulle, pini d’Aleppo, salici, gelsi, oggi Riserva Naturale Regionale Punta dell’Acquabella. La vita solitaria del piccolo borgo marinaro, ancora mitizzata nella memoria collettiva della famiglia e connessa più col mare che con la terra, nel 1863 fu sconvolta dall’arrivo della ferrovia, che divise il borgo dal mare, da quel momento in poi raggiunto solo tramite il percorso obbligato del ponticello, che consentiva il passaggio delle acque verso il mare. Attraverso la ferrovia, nuovi canali si aprirono, e giunsero nel borgo turisti, viaggiatori, soldati, commercianti di pesce, artisti, bagnanti, boy scout e ospiti temporanei di quello che per un secolo è stato considerato un “piccolo borgo incantato”.

Le viuzze, gli scorci pittoreschi, le casette a due piani in formato minimalista, il selciato settecentesco fabbricato coi sassi della vicina spiaggia restituiscono la misura delle generazioni di persone che li hanno costruiti e abitati, creando una singolare simbiosi antropologica tra la famiglia, la sussistenza, il mare e la terra. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la vita continuava tra le barche e la fatica di ritirarle sulla spiaggia sassosa, finché il cambiamento culturale non ha spinto le persone fuori da questo piccolo borgo economico, diventato improvvisamente troppo stretto e povero. La modernizzazione ha portato ad una lenta e inarrestabile flessione del numero degli abitanti: la strada per arrivarci è sottile e tortuosa, in modo da coprire il grosso dislivello della falesia, e le frequenti frane dell’arenaria la rendono precaria. La ferrovia, col frastuono notturno dei tre o quattro treni veloci che ogni notte facevano tremare le case, metteva a dura prova la resistenza di chi pernottava in zona.

Tutto questo, paradossalmente, proteggeva l’integrità del borgo fino al 2004, quando la ferrovia cambiò traiettoria, e improvvisamente i treni smisero di passare e di segnare il tempo veloce e violento nel piccolo borgo, che tornò ad essere incantato e lento. Ritrovato il silenzio, il borgo però ha perso la memoria: malgrado la precarietà dell’accesso, la trasformazione della strada ferrata in pista ciclopedonale ha stimolato nuovi interessi turistici, che oggi rischiano di spazzare via quegli elementi peculiari che si sono mantenuti per secoli. Il formato “small”, le finestrelle, la comunione delle acque e il selciato di sassi, infatti, sono incompatibili con i bisogni privatistici ed “extralarge” della società dei consumi di massa.

acquabella-fig-6Per salvaguardare la memoria storica di questo microcosmo economico e culturale, dove cinquanta persone vivevano in sole cinque case dividendo le loro laboriose attività tra forno comune, orti comuni, cappella, manutenzione delle acque e della fonte, vigna e paranze, si è attivato un processo di patrimonializzazione dal basso, che considera questo luogo come “patrimonio materiale e immateriale” secondo il dettato di due diverse Convenzioni internazionali sull’immateriale che sono state ratificate dall’Italia: quella del 2003, promossa dall’UNESCO, e quella di Faro, promossa dal Consiglio d’Europa.

Se, infatti, le istituzioni demandate alla tutela del patrimonio non ritengono che il borgo abbia un valore storico-artistico, né paesaggistico, esso potrebbe comunque avere un valore demo-etno-antropologico e immateriale, costituendo la straordinaria testimonianza di un particolare insediamento umano e di un’originale interazione con l’ambiente che la moderna organizzazione della produzione di ricchezza ha mandato in profonda crisi. Soprattutto Italia Nostra, che su tutto il territorio nazionale è costantemente vigile sulla salvaguardia dei borghi minori, indica la prospettiva di nuove fruizioni per i piccoli borghi marinari come questo, che rischiano di essere cancellati da uno sviluppo forzato che spesso distrugge ciò che vuole valorizzare.

Per questo, una serie di associazioni del territorio si sono unite per lanciare una campagna di sensibilizzazione che ha coinvolto studenti, ambientalisti e operatori culturali, con convegni, petizioni e ripetute sollecitazioni agli organi di competenza per la salvaguardia dell’integrità del luogo. L’ultimo Festival dell’Acquabella si è svolto tra le antiche mura il 27 giugno del 2021 (foto 6), con “scrittori del mare” come Stefano Medas e Fabio Fiori. Il borgo dell’Acquabella resiste, ma ha bisogno di rinforzi per affermarsi come presidio culturale ed ambientale permanente e per contrapporsi ad una concezione elitaria della residenzialità marina, che privatizza luoghi che invece, per la potenza del loro significato e per la capacità di evocare tempi lontani, incarnano memorie collettive e “beni comuni” in senso pedagogico, museale, riflessivo e sostenibile.

Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
[*] L’articolo, concepito da entrambi gli autori, va attribuito ad Adriano Ghisetti (prima parte) e a Lia Giancristofaro (seconda parte).
Note
[1] G. Doria, Del colore locale e altre interpretazioni napoletane, Laterza, Bari 1930: 26.

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Adriano Ghisetti Giavarina, laureato in Architettura all’Università di Napoli “Federico II”, è professore ordinario di Storia dell’Architettura all’Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti-Pescara. È stato docente in corsi e seminari del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza e nel 1983 ha vinto la prima edizione del premio per la Storia dell’Architettura “Gustavo Giovannoni” del Centro di Studi per la Storia dell’Architettura di Roma. Ha partecipato a convegni e congressi internazionali e pubblicato libri e saggi su riviste specializzate, interessandosi specialmente all’architettura italiana del Rinascimento. Ha collaborato al Dictionary of Art (Mac Millan, Londra) e al Dizionario Biografico degli Italiani (Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma).
Lia Giancristofaro, Ph.D., DEA, è professore associato di Antropologia Culturale all’Università degli Studi di Chieti-Pescara. Si occupa di diritti umani e culturali, di culture folkloriche e popolari e delle nuove responsabilità politiche delle ONG. In rappresentanza di SIMBDEA, ha osservato diverse sessioni dell’Assemblea Generale degli Stati-Parte della Convenzione Unesco per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale. Tra le sue pubblicazioni: Il segno dei vinti, antropologia e letteratura nell’opera di Giovanni Verga, 2005, pref. di Antonino Buttitta; Riti propiziatori abruzzesi, 2007, pref. di Alberto M. Cirese; Tomato Day, il rituale della salsa di pomodoro, 2012; Il ritorno della tradizione. Feste, propaganda e diritti culturali in un contesto dell’Italia centrale, 2017; Cocullo. Un percorso italiano di salvaguardia urgente, 2018; Politiche dell’immateriale e professionalità demoetnoantropologica in Italia, 2018; L’avenir du patrimoine, Parigi 2020 (con Laurent Sébastien Fournier); Patrimonio culturale immateriale e società civile, 2020 (con Pietro Clemente e Valentina Lapiccirella Zingari); Le Nazioni Unite e l’antropologia, 2020 (con Antonino Colajanni e Viviana Sacco).

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