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“Per non essere di coloro che tacciono”: per una mobilitazione della Scuola e dell’Università

lettere-sapere-umanistico-e-formazionedi Antonio Pioletti

Non da oggi si profila una tematica spesso non adeguatamente trattata, anche se non da tutti sottovalutata, che è parte integrante, a diversi livelli, della nostra esistenza: il nostro esser-ci nel mondo, la nostra visione, i nostri pensieri e le nostre idee, le nostre relazioni con l’Altro; e così, le relazioni sociali, i sistemi socio-economici, il governo dei sistemi nel mondo.

Questa tematica è la formazione delle nuove generazioni nei diversi ambiti nei quali dovrebbe svolgersi, da quello familiare a quelli scolastico e universitario e nei campi della cultura di base, della professionalizzazione, dell’elaborazione dei valori, dell’educazione civica e sessuale, della conoscenza degli strumenti della comunicazione. Eppure, dovrebbe trattarsi di argomento ­– nonché terreno di elaborazione e intervento -– centrale non solo per gli addetti ai lavori, ma per l’intera società.

Un discorso sulla formazione delle nuove generazioni implica un’articolazione dell’analisi che includa un’attenzione rivolta sia alla condizione strutturale di asili-nido, scuole, Università, ai dati della dispersione ed elusione scolastiche, alle risorse disponibili per garantire a tutti i livelli un decente diritto allo studio, al numero dei laureati, sia ai contenuti stessi della formazione e al paradigma politico-culturale oggi dominante.

Per il primo livello analitico, ci si limiterà qui ad alcuni tra i più significativi dati di uno stato di cose estremamente preoccupante; per il secondo, ad alcune annotazioni di carattere generale sui programmi scolastici e sulle motivazioni che sorreggono le Sette tesi su ricerca e formazione oggi che ho già avuto modo di presentare in occasione di un confronto su Lo statuto filologico di una filologia della contemporaneità organizzato dal “Centro di Studi Filologici Sardi”, i cui  interventi sono pubblicati in «Critica del Testo» XXIII/3, 2020.

9788815365262_0_536_0_75Quel che colpisce è il divario esistente sia per i diversi livelli scolastici che per quelli universitari, fra Nord e Sud d’Italia, fra centri e periferie. Sia sufficiente qualche dato (fonte Rapporto SVIMEZ 2020 sull’economia e la società del Mezzogiorno): «La scuola ha visto indebolirsi, soprattutto dopo la lunga e pesante crisi del 2008, la sua capacità di fare equità, di ridurre i divari nelle opportunità dei ragazzi che vengono da famiglie meno abbienti e meno scolarizzate. L’impoverimento delle famiglie e la riduzione dei fondi per effetto delle politiche di risanamento pubblico hanno allontanato il nostro Paese dai livelli europei e fatto crescere nelle aree più deboli (non solo nel Mezzogiorno ma anche nelle grandi periferie urbane del Nord) il tasso di abbandono scolastico. Il fatto più drammatico è che la scuola non sembrava già prima del Covid in grado di colmare pienamente le lacune di apprendimento e di favorire l’inserimento sociale di chi proviene da situazioni più svantaggiate» (ivi: 46). Dislivelli che hanno inciso ovviamente anche sui livelli di apprendimento e che la DAD ha ulteriormente accentuato.

Nel resto del Paese, ad esempio, è coperto il 32% del fabbisogno per posti in asilo nido, al Sud il 13,2 %; al Centro Italia la spesa pro-capite per bambini fra 0 e 2 anni è di 1468 euro, al Nord Est 1255, al Sud di 277 euro; nel Centro-Nord nell’anno scolastico 2017-2018 è stato garantito il tempo pieno al 46% dei bambini, in Lombardia e Piemonte al 50,6%, al Sud al 16%, in Sicilia al 7%. 

«Sul fronte della dispersione scolastica gli ultimi anni hanno visto significativi miglioramenti anche in Italia. […] da valori vicini al 20% nel 2008 si è passati al 13,5% nel 2019, valore, tuttavia ancora lontano rispetto al target di Europa 2020 (10%) e dalla media europea (10,6%). (…) Il Mezzogiorno presenta tassi assai più elevati: nel 2019, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, gli early leavers [early leavers from education and training (ELET)] meridionali erano il 18,2% a fronte del 10,6% del Centro-Nord. […] emerge chiaramente a partire dal 2012 prima un rallentamento della tendenza alla riduzione dell’abbandono scolastico e poi dal 2016 una sostanziale interruzione di tale processo» (ivi: 48-49).

Per quanto attiene all’Università: 

«Secondo il dato più recente, 2019 [n.d.a.: per il 2020-2021 si è registrato un aumento di immatricolazioni e una diminuzione, dovuta probabilmente anche alla situazione epidemica, della mobilità interprovinciale e interregionale, il tutto da valutare con i dati definitivi], il Mezzogiorno ha ancora 12.000 immatricolati in meno rispetto al 2008 e un tasso di passaggio di oltre 5 punti percentuali più basso. Viceversa, il Centro-Nord ha registrato per l’intero periodo un incremento di 30.000 immatricolati circa e un aumento di oltre un punto percentuale del suo tasso di passaggio».

Negli anni si è registrato un aumento dell’FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario), ma «non può tuttavia non segnalarsi come, analizzando i valori reali a prezzi costanti 2015 e prendendo in considerazione l’inflazione al 2019, esso sia addirittura inferiore del 5% del suo valore al 2008» (ivi: 50). Per quanto riguarda il reclutamento di Rtd-b (Ricercatori a tempo determinato di tipo b): «L’Italia ha reclutato nel periodo 2015-2019 in media 2,12 Rtd-b ogni 10mila abitanti, il Centro-Nord 2,41 e il Mezzogiorno 1,58. […] in fondo alla classifica, la Basilicata con 0,83, la Calabria con 0,91 e la Puglia con 1,01 ricercatori ogni 10mila abitanti» (ivi: 51).

9788858143889_0_536_0_75Un recente documento di un Gruppo di lavoro SVIMEZ su Le Università per lo sviluppo dei territori del 7 luglio 2021, sulla base di una ben documentata raccolta dati pone l’accento sulla necessità che l’“occasione storica” rappresentata dal PNRR non si risolva in qualche intervento straordinario che non incida sulle storture di sistema che attraversano, a vari livelli,  il nostro sistema universitario: squilibri territoriali tra Nord e Sud, tra centri e periferie, tra Atenei di grandi dimensioni e Atenei di dimensione ridotta; carenze nelle misure atte a garantire un reale diritto allo studio; criteri discutibili nella suddivisione dell’FFO e delle risorse volte a garantire il turn over; un sistema concorsuale che mostra crepe evidenti; gravi carenze nel reclutamento di giovani studiose/studiosi; un governo amministrativo obsoleto e di insopportabile pesantezza burocratica; una strutturazione dei corsi fondata su un 3+2 che in più di un’area disciplinare si rivela inefficace; spesso scadimento della didattica in semplificazioni che incidono negativamente sulla preparazione culturale e professionale dei giovani.

In altri termini, si richiede una nuova politica che intervenga in modo organico per mutamenti strutturali a partire da una prima scelta di fondo, assicurare cioè un sistema universitario diffuso nel territorio nazionale. Assistiamo viceversa oggi a scelte che tendono sempre più a privilegiare l’esistenza di Poli di cosiddetta eccellenza; a privilegiare un raccordo, di per sé certo non negativo, con i centri industriali, che come ben noto sono però diffusi solo in alcune aree del Paese, il che non implicherebbe altro che acuire le già pesanti disuguaglianze territoriali; a privilegiare la categoria di “professionalizzazione”, anch’essa di per sé non negativa, ma a detrimento di una solida preparazione culturale di base, con la conseguenza, tra l’altro, di emarginare sempre più i cosiddetti saperi umanistici. Assistiamo a proposte sul reclutamento universitario inique nei confronti dei “precari storici” e che prevedono lunghi percorsi destinati a creare nuovo precariato se non ancorate a una modifica profonda del sistema concorsuale. Eppure è ben noto come «i professori in Italia sono diminuiti fra il 2008 e il 2016 da quasi 63.000 a meno di 49.000 e la loro età media è notevolmente aumentata, divenendo la più alta d’Europa», rileva Gianfranco Viesti in Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo (Laterza, Bari-Roma 2021: 372).

 Paradigma politico-culturale 

Ho già avuto modo di proporre qualche riflessione sull’argomento, convinto come sono che troppo spesso prendiamo atto degli effetti di un fenomeno, ma non risaliamo, come ebbe a rilevare Italo Calvino, alle cause.

Ebbene: 

«Non c’è dubbio che all’interno del paradigma economico-sociale-politico-cul­turale non da oggi dominante i nostri saperi siano considerati “inutili”, e comunque, al massimo, “di contorno”. Ma, in proposito, le domande da porre sono: a) in che cosa consiste questo paradigma e se riteniamo che sia un dato oggettivo; b) quale via per trovarvi, se possibile, spazio e/o quale sia quella per superarlo.
Il paradigma largamente egemone presenta a suo fondamento il predominio del capitale finanziario e il conseguente ruolo dei mercati finanziari nel dettare le scelte della politica; una visione degli assetti economici, sociali e istituzionali di stampo neoliberista, che non è affatto incompatibile con il cosiddetto “sovranismo” – che è ben più corretto e proprio denominare “nazionalismo” –, in un contesto nel quale lo Stato dovrebbe esser chiamato a svolgere la funzione di garantire le mani libere di un mercato che va “lasciato fare” (sarebbe necessario invero richiamare più spesso quanto prevede l’art. 41 della nostra Costituzione: «L’iniziativa privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»); un processo di globalizzazione che, per i caratteri che ha presentato, ha visto l’acuirsi delle disuguaglianze sociali e territoriali, e che oggi è entrato in una nuova fase di egemonie policentriche che sono la negazione di un globalismo e di un’universalizzazione equilibrati, nonché, soprattutto, del co-sviluppo; lo smantellamento progressivo del Welfare State che non può essere confuso né con lo “statalismo”, né con l’“assistenzialismo”, essendo l’assistenza sociale, se ben mirata, una parte del Welfare stesso; una Pubblica Amministrazione, che dovrebbe fungere da esempio e che, ahimé, fra incompetenze e burocratismi, funziona poco e male; l’asservimento della condizione umana alla tecnica, che è cosa diversa dal concepire un progresso tecnologico al servizio della comunità umana e dell’ambiente; il far coincidere l’efficienza con l’ideologema del “privato”, della “privatizzazione”, della logica privatistica che porterebbe a una “sana” competizione; l’asservimento dei diritti del lavoro alle esigenze dell’impresa; la concezione del sapere come merce, è utile cioè quel che procura profitto, non importa poi se il profitto si investa in titoli di borsa e non in investimenti innovativi per l’impresa stessa e produttivi per la comunità o se le sue esigenze comportino delocalizzazioni della produzione.
L’utilità dei saperi si misura oggi su siffatti parametri che agevolmente si possono confutare uno ad uno, ma qui mi limito a invitare a riflettere sul quel che il Sars-Cov2 ha dimostrato facendo venire al pettine i nodi di anni e anni di politiche neoliberiste: tagli a Sanità pubblica, Scuola, Università e Ricerca; incuria del territorio; negazione di diritti fondamentali nel mondo dei lavori; precariato e lavoro nero dilaganti; preoccupante abbassamento dei livelli culturali, incluse le nuove generazioni, il che è del tutto inquietante (si vedano le stime dell’ultimo rilevamento OCSE sulla capacità di comprensione di un testo) – e ci stupiamo delle fake news? –; individualismo spinto, libera caduta della dimensione del “bene comune”.
Se il progresso tecnologico dev’essere al servizio della comunità umana e dell’ambiente, se la cosiddetta Azienda-Paese deve portare a un miglioramento delle condizioni di vita – che il PIL non misura –, se la dignità del lavoro si fonda su diritti inalienabili, se il lavoro stesso è un diritto e così l’istruzione, la salute, servono cittadini “coscienti”, in grado di comprendere il mondo, soggetti dotati di una base culturale che è premessa indispensabile a qualsiasi più che auspicabile “professionalizzazione”.
Risulta pertanto ingannevole una contrapposizione fra base culturale di fondo e specializzazione: sono complementari. È qui la funzione dei saperi umanistici» (cfr. A. Pioletti, Anniversario dantesco e crisi dei saperi umanistici. Ancora sulla filologia della contemporaneità e sull’ “inutilità” dei saperi umanistici, in «Le Forme e la Storia», n.s. XIV, 2021, 1: 261-69, 265-67).

Un rapporto strutturale fra Scuola e Università 

Formazione scolastica e formazione universitaria non possono essere, come in parte sono, mondi separati o poco comunicanti. Il nesso è strutturale e deve vivere in scelte di politiche attive. Canale fondamentale può essere, e in parte lo è, l’organizzazione di Corsi di aggiornamento per gli insegnanti. Anche in questo caso si manifesta una tendenza ministeriale a privilegiare corsi su abilità informatiche, pur necessari, ma complementari, e corsi di carattere psico-pedagogico, il che tende a ridurre la centralità che invece ricoprono Corsi di aggiornamento sui contenuti disciplinari.

In questa direzione è possibile entrare nel merito dei programmi scolastici ai vari livelli, squadernare la rigidità di “elenchi” di argomenti o autori da studiare per proporre percorsi tematici che prendano le mosse dall’idea di un canone letterario aperto, conferendo ampio spazio alle tematiche della contemporaneità, alla ricostruzione dei fili del passato, a un’apertura interdisciplinare.

9788833137315_0_424_0_75Uno sguardo a ricerca e formazione nell’ambito letterario 

Ho proposto sette tesi che qui sinteticamente motivo: 

1. Dalla critica del paradigma politico-culturale oggi dominante alla valorizzazione della circolarità dei saperi e della qualità della ricerca.

Occorre favorire una circolarità dei saperi per superare chiusure burocratiche e anti-scientifiche e dare concretezza all’art. 33 della nostra Costituzione: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». 

2. Sull’oggetto dello studio filologico: contro la specializzazione come hortus conclusus e contro la tuttologia, per una ricerca scientifica che si fondi sulla pienezza del tempo.

L’orizzonte verso cui tendere è quello di una specializzazione (vs tuttologia) aperta a un’interdisciplinarità praticata (vs iperspecializzazione chiusa e talora del tutto autoreferenziale). Viviamo nel presente, ma nel presente vive il passato e si costruisce il futuro. Per la formazione delle nuove generazioni risulta di fondamentale importanza conoscere da dove veniamo, riflettere sulle contraddizioni del presente, volgere lo sguardo alla costruzione di un futuro migliore. 

3. La ricerca della verità come fondamento del vivere civile, come utilità alternativa all’interesse aziendalistico neoliberista dei pochi.

La verità degli enunciati si fonda sulla ricerca della verità e non in sé sul risultato raggiunto, sempre in discussione. La ricerca della verità e non di un’utilità acritica subordinata come imperativo ai fabbisogni del sistema produttivo, la ricerca della verità come fondamento del vivere civile. 

4. Contro criteri di valutazione della ricerca che ne pre-determinino le scelte, per una professionalizzazione fondata su un sapere critico.

È da considerare fuorviante una contrapposizione dicotomica fra solida formazione culturale, da una parte, e un percorso professionalizzante inevitabilmente legato al mercato del lavoro, dall’altra. La questione è riconoscere alla prima la funzione primaria di contribuire a formare “esseri pensanti”, critici, dotati di strumenti che permettano, per quel che è possibile, di capire il mondo in cui vivono. 

5. La filologia come decostruzione degli stereotipi e come vettore critico controcorrente.

La filologia è anzitutto un habitus mentale a partire dal quale studiare i testi di cultura, tutti, saper distinguere nell giungla della comunicazione, dei social. 

6. Per uno studio delle lingue e delle letterature inserite nella dinamica spazio-temporale dei sistemi culturali.

L’ancoraggio dei canoni letterari alle identità nazionali ha rappresentato sempre una scelta ideologica. Punto di partenza di una riflessione non è chiedersi se esistano o no identità culturali, bensì quali siano i loro tratti costitutivi, se monolitici e “puri” o se mescidati o plurali. Le identità non esistono al di fuori della relazione. 

7. Per un rapporto permanente con il mondo della Scuola fondato sull’approfondimento teorico e metodologico dei contenuti disciplinari.

Nel nostro campo di interesse risultano centrali 1) la lettura e l’interpretazione dei testi della comunicazione non solo letterari; 2) la ricostruzione delle dinamiche spazio-temporali interareali dei processi culturali e letterari a partire dalle grandi tematiche che agitano la contemporaneità nella vita pubblica, nei sentimenti, nelle emozioni; 3) tentare di comprendere come far vivere il nesso fra vita e studio, studio e vita (per un’esposizione completa delle sette tesi, cfr. A. Pioletti, La “pienezza del tempo” nella filologia della contemporaneità. Sette tesi su ricerca e formazione oggi, in «Critica del Testo», cit: 35-42). 

Per una mobilitazione del mondo della cultura 

Che fare, allora?

Un paradigma non cambia in virtù di qualche lamentela. Si rende necessaria non dico una rivoluzione (scientifica, per carità), direbbe Thomas Kuhn, ma una iniziativa, articolata e permanente, quanto meno di tutta l’area umanistica. Chiamare a raccolta le migliori energie intellettuali del Paese anche esterne al mondo universitario e alle sue Accademie: ovviamente il mondo della Scuola, così come saggisti, scrittori, artisti, registi e attori di cinema e teatro, in generale il mondo della cultura, dello spettacolo, delle arti. Siamo disponibili a contribuire ad attivare questo percorso per concorrere a formare cittadini del mondo coscienti? 

Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022 

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Antonio Pioletti, professore emerito di Filologia romanza dell’Università degli Studi di Catania, ha condotto le sue ricerche negli ambiti delle letterature francese, spagnola e italiana medievali, della teoria della letteratura e della comparatistica, con interessi rivolti anche al Moderno e al Contemporaneo. Sue pubblicazioni principali sono Forme del racconto arturiano (1984); Renaut de Beaujeu, Il bel cavaliere sconosciuto (1992); La fatica d’amore. Sulla ricezione del Floire et Blancheflor (1992); La porta dei cronotopi (2014); La porta dei cronotopi 2 (2019); Filologia e critica. Contro gli stereotipi (2021). Vasta la produzione saggistica su testi epici, materia arturiana, Commedia di Dante, rapporti letterari e culturali fra Oriente e Occidente, rappresentazione letteraria dell’alterità, ricezione delle letterature romanze, canone letterario, costruzione del tempo-spazio nei testi letterari. È condirettore delle riviste «Critica del testo» e «Le forme e la storia», oltre che della Collana «Medioevo Romanzo e Orientale».

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