Non penso sia utile incasellarli in una nuova categoria più consona al nostro pensiero educato, più a classificare che a comprendere. Lo sforzo consiste se mai in munirsi di opportuni arnesi mentali di fronte ad un avvenimento nuovo, diffuso per fortuna solo tra una minoranza. L’obiettivo è di capire se mai Le ragioni degli altri, come recita un bel libro di Piero Coppo [1].
Non si vuole applicare un’etichetta di criminalizzazione o di giudizio sulle persone che con diverse motivazioni “scelgono” di non vaccinarsi. Essi fanno parte di un mondo dalle diverse sfaccettature in cui co-abitano fragilità e paure, derive ideologizzanti ed argomentazioni fuorvianti. In realtà il focus della discussione andrebbe direzionato sulla rilevanza del rifiuto rispetto alla comunità di cui si fa parte. In un periodo di crisi globale – che non sembra demordere – l’atteggiamento di non vaccinarsi diventa un atto a-sociale e a -relazionale che quindi riguarda tutti noi. Mai come in questo caso l’uso del ’a privativo risulta appropriato! Infatti ci si sente deprivati e non sufficientemente protetti, non solamente dal virus!
Questa manifestazione di dissenso da norme create per tutelare tutti ha infatti smosso considerazioni “a largo spettro” che travalicano il semplice e divisivo sì/no. Proveremo ad attraversare un percorso da dentro, attenti alle suggestioni prodotte da questa “ribellione” senza dare troppo spazio alle pur presenti speculazioni e opportunismi politici.
Cominciamo dalla paura.
Sentimento fisiologico e comune al genere umano diffuso in ogni landa anche se con appellativi, effetti e concezioni diverse a seconda delle culture prese in considerazione. Jean Delumeau [2] nel suo magistrale La paura in Occidente (2018) ne traccia la storia nell’era moderna. Egli sostiene quanto sia stata sempre presente nella natura umana: «non soltanto gli individui isolatamente considerati.ma anche le collettività e le civiltà stesse sono impegnate in un dialogo permanente con la paura» (Delumeau: 10).
Quale paura? Lasciando le ipotesi complottiste agli esegeti della dietrologia (anche se non risultano ancora sufficientemente chiari a tutt’oggi – dicembre 2021- il luogo di nascita del virus e vie di diffusione) consideriamo principalmente due tipi di paura: quella propria del virus (la peste del terzo millennio come è stata apostrofata tristemente da qualcuno) e quella del vaccino. Sulla prima si rimanda alla vasta produzione di articoli e pamphlet prodotti copiosamente da addetti ai lavori e da “esperti dell’ultima ora”! Per quanto riguarda il secondo punto è naturale la paura di “reazioni avverse” – anche se è stata amplificata e manipolata da visioni del mondo negative, basate su un certo scetticismo, sul “fidarsi” ed “affidarsi”, alimentati anche da una informazione non sempre impeccabile. Non è che la categoria dei “vaccinati” abbia abbracciato improvvisamente posizioni “fideistiche” ed a-critiche, più semplicemente si è resa consapevole di quale situazione grave stiamo vivendo e della necessità di aderire a norme comunitarie! I vissuti individuali pur importanti diventano individualistici, nel senso che si arroccano sempre di più su posizioni autocentrate, incuranti del rapporto con gli altri. Una monade autarchica avvitata sempre di più su se stessa.
Il confine Io/Altri
Gregory Bateson [3] ci offre una puntuale descrizione (1976: 477):
«… Supponiamo che io sia cieco e che usi un bastone. Cammino toccando le cose: tap, tap, tap. In quale punto incomincio io? Il mio sistema mentale finisce all’impugnatura del bastone? O finisce con la mia epidermide? Incomincia a metà del bastone? O alla punta del bastone? Le domande che sorgono al “filosofo della natura” sono come al solito numerose e di livelli diversi; si può dire che il bastone può rappresentare un filo attraverso il quale il cieco può camminare in quanto da lì riceve informazioni sulla strada, oppure la zona che divide il cieco dal resto del mondo, etc…».
La metafora batesoniana vuole indicare – fra l’altro – i limiti entro i quali si colloca un determinato sistema cognitivo e quanto non sia affatto facile delineare dove inizio/finisco io e dove l’altro inizia/finisce. Le domande che sorgono al “filosofo della natura” sono come al solito numerose e di livelli diversi; si può dire che il bastone può rappresentare un filo attraverso il quale il cieco può camminare in quanto da lì riceve informazioni sulla strada ma anche la zona che divide il cieco dal resto del mondo. In tutti e due casi si evince la necessità di rapportarsi con il mondo esterno anche se è difficile delineare dove io inizio/finisco, e dove l’altro inizia/finisce.
Forse, è nel dialogo, e nella riflessività del rapporto che si può stabilire una maggiore reciprocità e rispetto della persona senza chiudersi nel proprio mondo ritenuto il solo. Marcel Mauss [4] riteneva la persona “una categoria dello spirito”. Stiamo invece assistendo a movimenti che enfatizzano sistemi difensivi e differenzianti atti solo a circoscrivere perimetri e territori autarchici. In realtà i confini io-altri sono molto più sfumati e si deve parlare più di un insieme che interagisce con tutte le sue parti.
La comunità, l’appartenenza ad una storia difficile che stiamo attualmente vivendo mette a dura prova il nostro essere con. Il fenomenologo Bin Kimura [5], noto psichiatra giapponese, nel suo testo. Tra, per una fenomenologia dell’incontro afferma che «il principio vitale che regge e armonizza le dinamiche dell’esserci si chiama sé, l’istanza che esprime il nostro essere collocati al confine dell’esperienza, lì dove siamo protesi verso l’altro e incontriamo l’ambiente che ci sollecita e ci nutre».
Accanto alla domanda: “Quando la mia libertà la sento minacciata”? (da che?) bisognerebbe aggiungere “anche se diventa la limitazione della libertà degli altri!”. Sembrerebbe però che il virus non abbia tempo per rispondere a queste domande e nel frattempo circola “liberamente”!
La posizione
Non si potrebbe cercare di de-posizionare da certi atteggiamenti rigidi e pensare insieme a come poter essere tutti liberi da un virus micidiale che ha causato milioni di morti nel mondo (e non è ancora finita!)? Si potrebbe così apprendere che è possibile limare “un io ipertrofico” capace di accorgersi dell’esistenza anche di qualcun altro che abita nello stesso mondo!
Ci sono anche momenti in cui è necessario dosare le proprie idee e renderle più flessibili per adattarle alla realtà in cui si vive, non de-contestualizzandola e proiettandola in un orizzonte proprio, sciolto da ogni legame sociale. Il de – di derivazione latina – indica “allontanamento, privazione”, una processualità negativa dimentica del mondo e della storia.
Due testi recenti Io tu noi di Vittorio Lingiardi [6] e La psicologia del Noi di Vittorino Andreoli [7] hanno rilanciato – se mai ce ne fosse bisogno – un tema molto ricorrente nei tempi di pandemia: il rapporto con gli altri. Quest‘ultimo è salito prepotentemente alla ribalta grazie ai movimenti non-vax legati ad una dimensione molto “particulare” della crisi attuale, come se fosse un fatto esclusivamente individuale. Come abbiamo visto precedentemente non si può viverla ed affrontarla da soli. Infatti in momenti di estrema difficoltà è necessario ancora di più considerarsi come parte di una comunità che nel suo essere insieme trova forza e compattezza
L’uomo come animale relazionale sembra lontano da chi disconosce le ragioni degli altri trincerandosi nel “proprio io “. Forse è opportuno ritoccare la Grammatica del vivere, parafrasando il titolo del libro di David Cooper [8] basata su vocaboli rappresentanti di un pensiero in cerca solo di auto conferme. Sfogliamola un po’:
Io: pronome personale molto (forse troppo!) usato, che talvolta può andare in… ipertrofia
Noi: pronome personale poco adoperato quasi dimenticato se non nella forma retorica di plurale maiestatis, molto gratificante per chi lo usa.
Altro: pronome indefinito (veramente!) scomparso dal vocabolario no-vax.
Il loro “pensiero”, chiedendo scusa a questo termine, pullula in un momento di crisi collettiva dovuta non solo al coronavirus. Non si può infatti dimenticare come esso abbia aperto altre finestre: questione climatica, energetica, sistema sanitario smantellato della rete territoriale – mai così importante come in questo momento – ambiguità dell’industria farmaceutica, rete di trasporti inadeguata a seguire le norme anti assembramento, etc. Né possono essere dimenticati i disagi psichici procurati attualmente e i danni futuri non prevedibili ma intuibili. Nel corso del tempo infatti la nostra tenuta psichica, sottoposta ad ogni tipo di insulto, potrebbe risultare logorata e “presentare il conto”. Possiamo immaginare che lo stato di paura subìto, senza opportuni dispositivi di elaborazione, abbia “toccato” i nostri stati d’animo strutturando disturbi depressivi, fobie fino a vere e proprie anomalie percettive di tipo paranoico nella nostra relazione con gli altri. Mai come in questo momento sarebbe necessaria una rete territoriale di supporto e un rafforzamento dei servizi di salute mentale, dei consultori, dei centri di accoglienza, per offrire uno spazio evolutivo al malessere senza cedere alle lusinghe di nuove categorie diagnostiche!
Alimentare la paura con previsioni terroristiche simili a bollettini di guerra, fatte salve ovviamente le opportune norme educative e di rispetto anche degli altri, può aumentare lo stato di angoscia diffuso nell’aria e spesso trattenuto dentro con molta difficoltà fino ad una destabilizzazione psichica con possibile calo delle difese fisiche.
Senso etico e di responsabilità
Un’altra questione che il virus ha mosso è quello di ricordare a tutti (anche ai no vax) il senso etico e di responsabilità che ognuno di noi ha verso gli altri. È sotto gli occhi di tutti come sia diventato un pretesto per “battaglie ideologiche” strumentalizzate da partiti politici (di destra) che hanno dimenticato il senso profondo di “politica”. Essa deriva dal greco πολιτική, parola che significa l’arte di governare la cosa pubblica negli interessi dei cittadini. Un dovere come recita anche l’articolo 2 della nostra Costituzione: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Athos Turci [9] nel suo recente testo Homus eticus ci ricorda come Ethos sia un termine che significa anche «amore vitale». «L’essere-umano è etico perché le persone, di cui è composto, esprimono quell’amore nell’unità essenziale di vita. L’amore che le costituisce rende poi il loro vivere una comunione. L’etica dunque definisce e muove le persone come comunione di vita nel cammino della storia umana».
Il concetto di oltre venne utilizzato dal geniale filosofo, matematico e prete ortodosso russo Pavel A. Florenskij [10] fatto fucilare nel 1937 da Stalin per le sue idee “sovversive”. Con questo termine egli voleva indicare la «tensione verso qualcosa che resta al di là delle nostre capacità intellettive e di cui, ciononostante, si avverte la presenza» (in Tagliagambe, 1997) [11]. Un senso di ulteriorità che ci potrebbe far protendere verso l’altro attraversando la soglia della diffidenza ed egoismo. In questa direzione l’altro diventa non più un nemico, ma un alleato in battaglia (come quella attuale contro il virus). Potrebbe sembrare un’utopia, ma anche una concezione diversa del mondo, di me, dei rapporti con gli altri. Una occasione per ri-pensare comunità e società partendo da una “crisi” che ha colpito tutti noi e che può divenire trasformativa!
Attraversare la soglia non è facile! Il non noto può spaventare: si possono scoprire nuovi territori, nuove relazionalità e superare vecchie paure. Fra queste l’alterità, tema ricorrente che emerge ogni volta che si esce dal proprio guscio e si scopre l’esistenza dell’altro! Ernest Jünger [12] nel suo Oltre la linea ci invita all’apertura, a vincere la prudenza immobilizzante che fa sì che la gente tenda ad «evitare perfino le correnti d’aria» a guardare spingendosi “oltre la linea”. Forse così si potrà osservare come «nel bel mezzo dello stato assistenziale, con le sue assicurazioni, mutue, previdenze e narcosi, si vedono comparire tipi umani la cui pelle sembra conciata a cuoio e lo scheletro fuso nel ferro. Potrebbero essere figure complementari nel senso della teoria dei colori; la generale nevra- stenia reclama la loro esistenza. Ci si interroga sulle loro scuole. Sui loro modelli. Saranno i più diversi» (Jünger: 66).
Oltre la linea indica anche un altro tipo di direzionalità, quello della profondità, della ricerca, dell’esplorazione, dello sguardo “oltre”. La linea di confine rappresenta una continua tentazione fra istanze ad attraversarla, con il rischio di sconfinamenti, di timori mai sopiti che immobilizzano i pensieri, fermandoli sulla soglia. Percepire la soglia significa riconoscere allo stesso tempo l’esistenza di “altro” che ci spaventa, ci sfugge, ci affascina. Può essere al tempo stesso materiale e spirituale, altro da noi ed uguale a noi, diverso in ogni caso dai nostri punti di partenza che conosciamo bene e che per questo non vogliamo mai abbandonare. Significa anche sapere che in quel momento l’Hermes che alberga in noi deve chiedere ‘permesso’ a Hèstia, dea della soglia, dell’ingresso che è punto di congiunzione e di divisione fra i due mondi, ombelico che indica comunione simbiotica ma anche diversità. «Riconoscere la soglia è perciò la condizione del dialogo, non ci può essere dialogo nell’uniformità» ci ricorda Roberto Marchesini [13]. È questo il luogo di “confine” non più mitico, non più virtuale che acquista corpo proprio nella visibilità delle differenze, nel riconoscimento reciproco.
L’esperienza del confinamento e del distanziamento sociale ha toccato tutti. Ognuno di noi è stato sottoposto con più o meno difficoltà alla prova della separazione. Ognuno di noi ha sentito, a livello personale e professionale, l’evidente necessità di mantenere connessioni con l’altro nelle sue dimensioni individuali e di gruppo. In particolar modo noi “tecnici del mentale” abbiamo visto come lo stare insieme – anche non fisicamente – aiuti a co-vivere meglio il trauma come afferma lo psichiatra Yves Pelicier: «Stare insieme è anche l’occasione di facilitare la percezione dell’esperienza traumatica come un’esperienza condivisa, anziché come una situazione estrema ed eccezionale» [14]. Mai come nelle condizioni difficili dei nostri tempi il rapporto «l’io/gruppo è stato sottoposto a riflessioni, rimozioni, adattamenti, cancellazioni» (Ancora) [15].
Oggi in periodo di internet il tema delle connessioni è dunque tanto attuale quanto stimolante anche per le sue dimensioni tecnologiche. Se il tema dei rapporti io/l’altro ha interessato tutti, con diverse sfumature, anche il mondo della scienza non è rimasto indifferente prestando più attenzione a quanto succedeva altrove. Il risultato è stato di creare un “lavoro comune”. Al di là dei rispettivi saperi e comprensibili competizioni ha prevalso un senso di responsabilità nuovo da parte dei ricercatori, basato su una maggiore condivisione e articolazione delle competenze e delle conoscenze acquisite. Il mondo si è interconnesso in maniera diversa, non dimenticando certamente alleanze e vecchi conflitti. Un obiettivo comune prodotto da un virus più potente dei potenti!
Termine noto e abbastanza usato nel linguaggio comune soprattutto per il mondo virtuale. E quello naturale? Connessione si riferisce anche alla dimensione fondamentale del legame e dell’integrazione del soggetto nella comunità degli uomini nel mondo reale. Un’occasione per riprendere e ri-connotare i rapporti? O per chiudersi ulteriormente? L’estremizzazione di tutta la problematica indotta dai no-vax sembrerebbe andare in questa difficile (e brutta) direzione. Siamo di fronte ad un paradosso: ad un livello sembriamo essere sempre più interconnessi, ad un altro più distaccati! Il collettivo è stato sostituito dal connettivo! esclama Michel Serres [16].
Forse per poter apprendere qualcosa dalla crisi che ha attentato al nostro modo di vita, veloce e frettoloso, dovremmo allentare un po’ le nostre difese ed aprirci di più “al mondo” scoprendo che ci si può avvicinare agli altri che popolano lo stesso condominio senza aver paura di volgere loro lo sguardo! Potremmo accorgerci che il bisogno degli altri è pari a quello degli altri verso di noi. Scoprire che la solidarietà di questi tempi sta divenendo quasi una necessità! Siamo tutti interconnessi, non solo con internet ed altri mezzi virtuali ma anche con pensieri e comportamenti che interagiscono fra loro. Potremmo scoprire di essere non solo interconnessi (anzi iperconnessi!) ma anche intersolidali. La solidarietà non virtuale è un’altra cosa: rappresenta una direzione verso! Anche verso un mondo mentale più sano ed “igienico”, non utopico, ma reale, capace di modificare qualcosa di noi, dentro di noi e di noi con gli altri.
Pronunciato da Papa Francesco, è stato ridotto ad uno slogan e non una visione del mondo! Nel quadro “precario” dei tempi attuali fortemente e forzatamente marcato dalla presenza del coronavirus sembra riecheggiare quanto scriveva nel suo La fine del mondo Ernesto de Martino: «La nostra civiltà è in crisi: un mondo accenna ad andare in pezzi, un altro si annunzia» [17]. Possiamo preannunciarlo anche noi? La pandemia che definirei meglio con il termine pandemonio-disordine- confusione, oltre ad aver materializzato la sua presenza nefasta con più di cinque milioni di morti nel mondo ha lasciato qualcosa che possa aver influenzato il nostro “pensiero/comportamento”? Non è facile rispondere a queste interrogazioni più che interrogativi.
Innanzitutto bisognerebbe capire se la crisi abbia o meno orientato le nostre condizioni di vita verso una direzione più sana ed ecologica. Ecologica nel senso più vasto di “ecologia della mente”. L’uomo è un animale relazionale prodotto da e di relazioni nel senso di «quei legami che uniscono le singole parti di un organismo, di un sistema vivente o sociale, all’intero» (Bateson, 1972).
Una crisi del pensiero? “Un’occasione” per pensare – noi ed il mondo – in maniera differente o solo il desiderio di lasciarci tutto alle spalle, tanto passata la pioggia, chiudiamo gli ombrelli e tutto ritorna come prima? Michel Serres [18] nel suo Temps des crises ci fa riflettere più in generale sul fenomeno della crisi. Egli dice: «quando si vive una crisi, nessun ritorno indietro è possibile. Bisogna inventare qualcosa di nuovo, avere il coraggio di voltare pagina».
Quello che colpisce, invece, è che, nonostante lo sconvolgimento che ha colpito tutto il mondo sembrerebbe che le istituzioni abbiano difficoltà a cambiare. «È questa la vera crisi, continua Serres, per cui di qui occorre partire per ripensare il passato, mettere in discussione il nostro rapporto con il mondo e dare finalmente voce al pianeta Terra, diventato un protagonista essenziale della scena politica… La crisi affrontata in maniera non convenzionale, quello che vediamo noi in superficie è soltanto il risultato di una crisi!».
Amalia Signorelli, antropologa culturale allieva di De Martino, parte dall’avvento del neoliberismo e dagli effetti della globalizzazione per chiedersi «cosa stia cambiando nelle società contemporanee. Quali mutamenti abbiano condizionato la vita delle persone, di che genere siano i nuovi riferimenti che incalzano e sostituiscono quelli tradizionali, cosa stia accadendo ai cosiddetti valori» [19].
Edgar Morin, fresco dei suoi 100 anni appena compiuti, parla di “crisologia”, come scienza della crisi ossia possibilità di cambiamento e non solo nell’accezione negativa in cui comunemente viene considerata. Infatti in una sua recente intervista [20], commentando la situazione attuale, intravede in questa crisi «la possibilità di riconquistare il tempo interiore come una sfida politica, ma anche etica ed esistenziale» per non rischiare di «diventare clienti non familiari di una stessa umanità».
L’assalto alle condizioni di vita attuali per certi versi ci ha riportato indietro nel corso del tempo riproponendoci quel senso di precarietà dell’esserci e il rischio di non esserci. La “crisi della presenza” (di demartiniana memoria!), la presenza intesa come esserci (il “da-sein” heideggeriano) come persone dotate di senso in un contesto dotato di senso. A questo proposito la Signorelli puntualmente chiosa:
«l’esserci indica lo stare al mondo in modo tipicamente ed esclusivamente umano, in quanto è stare al mondo sapendo di starci, avendo coscienza di sé, del mondo e di sé nel mondo. Tuttavia la presenza, l’esserci nel mondo, non è solo coscienza e conoscenza del mondo: è anche agire nel mondo. Condizione per poter agire nel mondo è che la presenza, la coscienza di esserci nel mondo si costruisca attraverso contenuti culturali che sono tali in quanto sono anch’essi condivisi. In altre parole, la coscienza è sociale prima oltre che individuale» (Signorelli 2016: 144).
In realtà il no-vax e il no-vax pensiero ci hanno smosso le nostre “menti”, non solo per controbattere! Questo virus ci ha scosso sin dalle fondamenta. È divenuto un “terrorista” che ha attentato alle nostre condizioni di vita e ci ha “costretto “a pensare”! Non sappiamo prevedere – ma dorremmo augurarcelo – se il passaggio da questa situazione allo stato successivo porterà con sé anche l’adozione di nuovi parametri di valori, cominciando da una maggiore considerazione del cosiddetto capitale umano che non è sempre monetizzabile. L’aumento del Pil non coincide necessariamente con una maggiore felicità e salute, forse un nuovo modo di vivere è possibile (con qualche rinuncia!). Siamo davvero pronti ad eventuali aggiustamenti (forse cambiamenti)? È difficile rispondere se non accodandosi a valutazioni “comode” basate sul “tanto tutto tornerà come prima”. È impossibile desiderare il cambiamento senza cambiare, stando fermi nel pensiero/comportamento, sperando solo il ritorno alla nostra normalità precedente rassicurante!
Per riflettere in modo diverso potremmo iniziare a pensare questo periodo come esperienza di tempo vissuto, non solo subìto, marcato dal nostro orologio interno. Gli angoscianti “bollettini” con i numeri dei contagi e decessi, “il distanziamento sociale”, le mascherine e i continui richiami alle norme igieniche hanno sicuramente colpito anche il nostro stato d’animo. Ci hanno procurato sensazioni simili a quelle descritte nel libro già citato di De Martino, La fine del mondo (2016), in cui individuava non una «catastrofe cosmica che può distruggere o rendere inabitabile il pianeta terra», ma «una perdita del senso dei valori intersoggettivi della vita umana»[21]
In breve
Tutti i pensieri qui presentati ci suggeriscono che le menti, come aggregazioni di idee debbono essere sempre attive! Risultano “coadiuvanti” nella forza del vaccino. Ci aiutano a pensare che non siamo soli al mondo (Ancora) [22] e ci offrono la possibilità di ri-pensarci! Ci obbligano allo stesso tempo a lavorare per un nuovo pensiero più complesso e condiviso capace di trasformare l’esperienza individuale in vissuti di tutti, all’interno di uno stesso psicodramma collettivo al quale stanno partecipando tutti anche i no-vax, forse non del tutto consapevoli! Per loro una occasione persa in un momento catartico e liberatorio!
Ai no e al non pensiero si risponde con il sì, quello della cultura della solidarietà e del pensiero comune, dell’oltre il senso della crisi, della condivisione della scienza e dell’obbligo di distribuzione a tutti gli abitanti della terra dei vaccini. Uno sguardo oltre è possibile ed è necessario!
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
Note
[1] Piero Coppo, Le ragioni degli altri, Raffaello Cortina Milano 2013
[2] Jean Delumeau, La paura in Occidente. Storia della paura nell’età moderna, Il Saggiatore Milano 2018
[3] Gregory Bateson, Verso una ecologia della mente, Adelphi Milano 1973
[4] Marcel Mauss, La nozione di persona, Morcelliana Brescia 2016 (nuova ediz.)
[5] Bin Kimura, Tra- per una fenomenologia dell’incontro, Edizioni Il pozzo di Giacobbe Trapani 2013
[6] Vittorio Lingiardi, Io tu noi, Utet Torino 2019
[7] Vittorino Andreoli, La psicologia del Noi, Rizzoli Milano 2021
[8] David Cooper, Grammatica del vivere, Einaudi Torino 1986
[9] Athos Turchi, Homus eticus, Editore C&P Adver Effigi Firenze 2020
[10] Pavel A. Florenskij, La prospettiva rovesciata, Adelphi Milano 2020 (nuova ediz.)
[11] Silvano Tagliagambe, Epistemologia del Confine, Il Saggiatore Milano 1997: 266
[12] Ernst Jünger, Martin Heidegger, Oltre la linea (Carteggio fra il 1950-1955), Adelphi Milano 1989
[13] Roberto Marchesini, Il concetto di soglia, Theoria Roma 1996: 6.
[14] Yves Pelicier, La gestion de la crisi est aussi une psychoterapie, in Quale psicoterapia (a cura di Luigi Peresson), Edizioni Cisspat, Padova 1990: 24
[15] Wilfrid R. Bion, Esperienze nei gruppi, Armando Roma 1971: 141.
[16] Alfredo Ancora, Verso una cultura dell’incontro, FrancoAngeli 2017: 131-135
[17] Ernesto De Martino, Il mondo magico, Bollati Boringheri Torino 1948: 12
[18] Michel Serres, Temps des crises, Le Pommier, Paris 2009 (trad it. Tempo di crisi, Einaudi Torino 2010: 11).
[19] Amalia Signorelli, La vita al tempo della crisi, Einaudi, Torino 2016: 114-116
[20]Edgard Morin, Fratelli del mondo, in “La lettura” del Corriere della Sera, 5 aprile 2020.
[21] Ernesto De Martino, La fine del mondo, Einaudi Torino 1977 (prima edizione a cura di Clara Gallini)
[22] Alfredo Ancora, I costruttori di trappole del vento, FrancoAngeli Milano 2006: 114-119.
________________________________________________________
Alfredo Ancora, psichiatra e psicoterapeuta, Directeur Scientifique de l’Université “Ernesto De Martino-Diego Carpitella”Paris. Ordinary member of Society for Academic Research on Shamanism. Professore a c. Psicologia Clinica Università Cattolica Brescia. Consulente Dipartimento Salute Mentale Roma 2 per la Formazione e Supervisione Transculturale. Co-direttore di Cahiers Trans-ire Editions l’Harmattan Paris e della Rivista Transculturale Mimesis Edizioni (di prossima uscita). Il suo ultimo testo Verso una cultura dell’incontro. Studi di Terapia Transculturale FrancoAngeli (2017) è stato pubblicato anche in Francia da l’Harmattan, in Spagna da Aracne e prossimamente in Russia dall’Accademia delle Scienze di Mosca .
______________________________________________________________