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Multiculturalismo, cittadinanza e diritti umani

Concept Of Communication

per la cittadinanza

di Mariangela Vitrano

Ho un debole per le serrature, le quali, generalmente, implicano una porta chiusa. Lasci intravedere chi sei dipendentemente dalle modalità con cui ti approcci a una serratura; puoi avere già la chiave adatta ed aprirla senza troppi rompicapo (ma potresti portare con te, insieme alla chiave, anche un’estrema paura di perderla) o potresti non sapere quale chiave sia quella giusta e provarle tutte, indistintamente. Oppure, ancora, potresti non avere nessuna chiave e decidere di forzarla, di sbirciarci dentro o di andare a cercare la chiave altrove.

Una porta indica un confine, che può essere un divieto o una via d’accesso a uno spazio altro, magari anche ad un altro tempo, sconosciuto o meno; dipende da come si interpretano i luoghi, gli spazi, i confini. Li rispetti, li infrangi o li crei? Quali sono i tuoi strumenti per farlo? E se quella porta fosse già aperta? E se avessi solo paura di andare oltre…?!

Nella mia sfera privata, tante volte ho avuto paura di varcare una soglia, di cavalcare il cambiamento, anche se sapevo già dentro di me che farlo sarebbe stato necessario e si sarebbe, inoltre, rivelato prezioso. Il cambiamento, trovare il coraggio di aprire una porta, è sempre doloroso e, spesso, nel nostro umano e ossessivo tentativo di evitamento del dolore vorremmo evitare anch’esso, per non mettere in discussione nulla di noi. Ma è veramente possibile evitarlo? Ci siamo mai chiesti se sia più doloroso impiegare tutte le nostre energie verso questo evitamento, per rimanere gli stessi? Nulla rimane lo stesso, il cambiamento è, ossimoricamente, l’unica costante della natura umana, della vita. Tante volte ho creduto di poter opporre resistenza ad esse, rendere immutabile un eterno e inesorabile divenire.

Volevo fermare delle immagini, delle dinamiche, degli affetti, tenerli sempre con me per non vederli andar via, ancora e ancora. Il risultato è stato solo uno: il dolore mi ha divorato da dentro, mi ha cambiata, mi ha portato comunque dove il cambiamento voleva che io arrivassi, ma con l’impiego di maggiori energia e fatica. Improvvisamente, sposto lo sguardo da dentro a fuori, fuori di me. Inizio a credere che questi meccanismi li impariamo guardando fuori, rimanendo molto esposti al fuori. Deresponsabilizzazione? Non saprei, è possibile. Credo che la realtà sociopolitica abbia le stesse basi comportamentali, con l’unica differenza che l’opposizione al cambiamento è guidata da un indefinito numero di individui, quindi potrebbe risultare più massiccia.

Lotman ci dimostra che esistono sempre dei confini delimitanti qualsiasi oggetto di studio che marcano la presenza di due spazi, rispettivamente: quello interno, confortevole, conosciuto e sicuro; e quello esterno, sconosciuto, pericoloso e caotico. Insieme all’oggetto di studio, a cui apparterrà un personale sistema di significazione, dobbiamo immaginare una sfera che lo raccolga dentro sé, la cosiddetta semiosfera. Il confine tra semiosfere è concepito come separazione, ma possiede anche la specifica funzione filtrante che permette di tradurre un linguaggio altro in quello appartenente allo spazio individuale. Il trasferimento dall’esterno all’interno non comporterebbe la totale perdita delle caratteristiche di una delle due aree, ma l’armonizzazione delle distinte caratteristiche di entrambe: da questo processo nascono arte ed evoluzione.

chambersQuest’osmosi avviene nel mantenimento dell’identità, nel rispetto reciproco e nella predisposizione dinamica alla perdita o al rimodellamento di alcuni tratti caratteristici; il percorso non esclude però che, per giungere a compromesso, le due parti proiettino una parte di se stesse e i propri codici nell’elaborazione dell’altro da sé. Il fenomeno migrazione potrebbe essere, senza problema alcuno, assimilato a questo processo di natura dinamica, migratoria appunto. La migrazione porta con sé cultura altra, fornita di codici non conosciuti da imparare e integrare a quelli già noti, in virtù del fatto che né la cultura né nessun’altra entità sono di indole statica. La cultura è uno spazio talmente esteso in cui coesistono tanti sistemi di significazione e la semiotica ha come fine ultimo lo studio delle relazioni che intercorrono tra essi.

A dimostrazione dell’elasticità interpretativa di questa teoria semiotica, nell’introduzione a Tipologia della cultura, Lotman e Uspenskij applicano lo stesso paradigma semiotico in ambito letterario e in particolare nell’analisi de L’infinito di Leopardi. Ne L’infinito sono rappresentati due spazi: quello aldiquà e aldilà della siepe, quest’ultima si erge a confine tra i due. Prima contraddizione è rappresentata dal titolo utilizzato per descrivere qualcosa di limitato, chiuso, in cui ogni possibilità di comunicazione viene respinta. Vengono descritti i due mondi come a sé stanti fino al ripresentarsi di un ulteriore contrasto che talora risolve il primo e manifesta il significato del titolo: improvvisamente un’alternativa esiste alla totale impenetrabilità della siepe, cioè l’immaginazione, l’accoglienza e l’interiorizzazione nel proprio pensiero dello spazio altro. A questa fase ne succede un’altra, simile e inversa, in cui il pensatore si “annega”, si “dissolve” nello spazio infinito e raggiunge uno stato di pace interiore.

«Se la lettura dell’intero testo rinvia al titolo – che acquista una nuova pienezza di significati –, la parola ‘infinito’ si arricchisce per noi di un senso nuovo, assegnatole da tutta la composizione della lirica: l’‘infinito’ è l’esistenza di una contrapposizione fra uno spazio interno e uno spazio esterno, di una loro incompatibilità e incomunicabilità, e – ciononostante – il trasferimento dello spazio esterno nell’interno, prima, e dello spazio interno nell’esterno poi» (Lotman, Uspenskij 1995: 21).

41uyxvpcikl-_sx308_bo1204203200_Il concetto semiotico e la teorizzazione della semiosfera mi riportano sempre al pensiero del primo vagito di un neonato, è così doloroso respirare per i nostri piccoli polmoni nuovi fiammanti, ancora mai utilizzati, che piangiamo; piangiamo per l’opportunità più bella che ci possa capitare, la vita. La trasmigrazione di linguaggi, tra una semiosfera e l’altra, tra un individuo e l’altro, tra una cultura e l’altra, risulta essenziale quanto respirare. Anche il processo respiratorio, così come quello semiotico, è un processo di scambio e anche in questo ci sono delle parti che assumono le importanti funzioni di filtro tra il nostro organismo e l’esterno. Respirare è un meccanismo naturale, talmente spontaneo che spesso lo diamo per scontato anche se racchiude in sé un funzionamento molto complesso, che se venisse compromesso creerebbe certamente del malessere. La respirazione è talmente importante da contribuire al corretto funzionamento degli organi vitali attraverso la loro continua ossigenazione. Analogamente, la migrazione è necessaria, è utile, è scambio, è istinto, è accoglienza dell’altro, dell’esterno e del nuovo che ci nutre, ci arricchisce, ci sostiene, ci cambia, ci tiene in vita così come l’atto di respirare.

Allora perché non vogliamo farlo? perché questo sentire, questa necessità, questa apertura alla vita, non si traducono mai completamente in politiche concrete, reali, sulla migrazione? Ebbene sì, perché c’è un’estenuante e faticosa resistenza al cambiamento. Come spiega Giuseppe Sorce nel numero di luglio 2021 (n.50) di Dialoghi Mediterranei:

«È quest’ultimo in particolare, tra i tanti, il paradosso più ridicolo in cui la retorica nazionalista incorre sempre e cioè “dimenticare” che non esiste una cultura se non in relazione alle altre, e che le culture che si privano delle altre muoiono sempre. Ciò che oggi siamo costretti ad affrontare come vera e unica sfida è, per dirla con le parole di Ghosh, una questione culturale, ha a che fare con i linguaggi e quindi con l’immaginazione. L’Antropocene, la crisi climatica, non sono questioni che riguardano solo le scienze dure, a dispetto di ciò che alcuni (fortunatamente pochi) continuano ancora a voler affermare con omertà e disonestà. Come pensare allora il futuro e il futuro del mondo se non cercando di fare il massimo per garantire massima pluralità di visioni, di sogni e idee attraverso una pluralità di culture se non legittimando l’unità degli intenti sin dall’infanzia, nelle scuole, nelle istituzioni in generale, tutelando l’accoglienza di chi arriva e incentivandone la partecipazione alla vita della comunità, garantendo la possibile ibridazione di ciò che può apparire “diverso” ma che in realtà è solo fonte di nuovi punti di vista?» 

La resistenza a una concreta traduzione del multiculturalismo in politiche sociali è una resistenza storica e secolare. Ce lo racconta Walter Mignolo, importante esponente di studi post-coloniali, attraverso un’attenta analisi storica e linguistica della definizione di Umano nel suo saggio Who speaks for the “human” in Human Rights?. Concetti quali Umano e Umanità sono stati introdotti per la prima volta nel dibattito europeo occidentale nell’epoca dell’Umanesimo e del Rinascimento da coloro che verranno definiti poi, appunto, Umanisti. L’Umanesimo coincide anche con la scoperta del nuovo mondo e le sue ancora sconosciute popolazioni indigene. In queste circostanze storiche, i cosiddetti umanisti hanno sentito la necessità di riconoscere se stessi quali uomini, diversi dai cristiani e, allo stesso tempo, distinti dagli indigeni, dalla ‘minaccia pagana’. Questa necessità stabilisce, inevitabilmente, delle differenze tra esseri umani.

61btzorre-lIl termine Umano, a causa della sua presunta universalità, lascia fuori dalla sua definizione un’enorme quantità di persone, di popoli. L’acquisizione di questa definizione genera per conseguenza un’immediata classificazione della popolazione globale, che però non corrisponderà alla descrizione reale del mondo ma ad una parziale approssimazione ovvero ad una rappresentazione costruita attraverso lenti etnocentriche. I termini Umano e Umanità diventeranno presto un punto di riferimento per stabilire chi appartiene al genere umano e chi no. Nell’arco del tempo l’Occidente ha espressamente manifestato la presunta detenzione del sapere, di una sorta di privilegio, di superiorità nella descrizione e nella definizione dell’argomento in questione. Proprio sulla convinzione di possedere il controllo assoluto del sapere si basa la gerarchia che divide l’umanità in culture avanzate e retrograde, in società sviluppate e sottosviluppate. Ma chi ha stabilito i termini di sviluppo, chi i termini di modernizzazione, di umanità? Come dicevamo prima, l’Occidente imperialista e colonizzatore (non solo del sapere), che sempre tenta di rendere universali i suoi enunciati, imposti come fossero vestibili su tutti i tipi di corpi. È evidente che forgiando questa arma, l’obiettivo sia quello di permeare e dominare l’immaginario dell’intera umanità fino ad arrivare al cuore della percezione che essa stessa ha di se stessa.

Stabilire quali siano i requisiti per appartenere all’umano, lasciando fuori il non-umano, stabilendo quali siano i suoi diritti, ha un ascendente molto importante sulla retorica dei diritti umani e sulla percezione della cittadinanza. Anche questi ultimi, spesso, ridotti a strumenti mascherati a servizio del neoimperialismo, avente come unico e solo orizzonte il mantenimento dello status-quo, del potere: la resistenza al cambiamento. La concezione dei Diritti è fortemente impregnata dell’interpretazione imperante del concetto di Umanità, e qui stabilisce le sue fondamenta il fulcro della teoria di Walter Mignolo sulla Decolonizzazione dell’Umanità, che si traduce nella decolonizzazione del sapere capace di sfidare e mettere in discussione la narrativa dominante allontanandola dalla propria presunzione di universalità e, al contrario, avvicinandola ad una narrativa più attenta e sensibile al particolare. L’essere umano non può essere definito perché è sfumatura, è indefinite possibilità interpretative. Distaccarsi da uno standard preconfezionato del termine Umano non significa però ricercarne o fornirne un altro che funga da ulteriore verità universale o erigere un nuovo sapere, ma accettare la non classificabilità di un concetto così plurale, offrire opzioni tra le altre e prospettive alternative. Anche secondo Sylvia Wynter, attivista e scrittrice giamaicana, in consonanza con la voce di Mignolo, essere umani significa essere in grado di rifiutare la categorizzazione occidentale dell’umanità. L’orizzonte, per Mignolo, non dovrebbe più essere l’universalità ma la pluriversalità, la decolonizzazione del pensiero per poter accogliere dentro la nostra ‘semiosfera’ una pluralità di elementi e civilizzazioni.

tillyA tal proposito, l’attuale contesto europeo, che si staglia in uno scenario ormai post-globalizzato, è in continuo cambiamento; cambiamento che muove verso una più completa definizione di popolo e di nazione, che possa finalmente superare il tratto naturalistico in cui è irretito il senso di appartenenza a una comunità decretato da una presunta discendenza di sangue. La scoperta del Multiculturalismo quale terreno fertile in cui poter nutrire e coltivare questi due concetti sta facendo virare l’idea di nazione verso quella di Costituzione. La cittadinanza non è più un diritto di sangue, la cittadinanza diventa uno status che dipende da criteri stabiliti dal potere legislativo. Questa è una distinzione fondamentale che fa da premessa alla nostra argomentazione; infatti, in nessuna Costituzione esistente si può trovare una precisa definizione del termine Cittadinanza, che non lasci spazio all’interpretazione. Per esempio, l’ultima legge italiana sulla cittadinanza è stata varata nel 1992 ma non fu tradotta costituzionalmente proprio per la sua stessa natura costantemente mutevole.

I diritti civili e politici dipendono sicuramente dal possedimento della cittadinanza; ma perché diritti come quello di assemblea, di manifestazione e di circolazione dovrebbero essere attribuiti sulla base di essa? Non esiste nessuna ragione logica di riservare questi diritti solo ai cittadini e non a tutti gli esseri umani. Questa una delle principali critiche mosse verso le modalità di attribuzione dei diritti civili sulla base della cittadinanza. James Tully, filosofo canadese, nel suo Strange Multiplicity. Constitutionalism in an age of diversity ha scritto circa il superamento della concezione naturalistica di nazione approcciandosi a teorie sul Multiculturalismo, in generale, e alla situazione canadese, in particolare. Lo studioso pone l’accento sull’importanza, in un contesto sociale multiculturale, dell’adozione di una dottrina costituzionale che sia interculturale e che vada oltre le supposte condizioni di omogeneità dei cittadini, che non può oltremodo essere rappresentata perché non più adatta all’odierna condizione di diversità in cui naturalmente risediamo.

51ao153cxqlLo stesso concetto di Cittadinanza e di Cittadino può cambiare ed acquisire significati differenti poiché tutti i cittadini devono essere pensati come culturalmente differenti, mentre la Costituzione descrive un popolo come culturalmente omogeneo. È appena il caso di precisare che la nazione andrebbe interpretata in un modo totalmente differente rispetto all’idea naturalistica di discendenza di sangue, ovvero come una comunità di differenti gruppi etnici con delle diverse identità culturali. Come chiarisce Seyla Benhabib, in The Claims of Culture, questa coesistenza non sarebbe da intendere come un mosaico composto da pezzi separati tra loro, ma come semiosfere che si incontrano, dialogano e si attraversano. La visione per cui i gruppi e le culture umani sono chiaramente delineati e identificabili quali entità coesistenti mentre mantengono dei confini precisi e reificati come dei pezzi di un mosaico necessita ormai di un radicale superamento. Il multiculturalismo non può essere assimilato alla figura di un mosaico perché ci porterebbe ad un concetto scorretto di Cultura. Dovremmo, invece, immaginare le culture come creazione costante, ricreazione e negoziazione di confini immaginari tra un Noi e un Loro: le culture, quindi, percepite come processo. Julia Kristeva, psicoanalista bulgara, introdusse un concetto molto interessante, per cui l’altro è sempre in noi, fa parte di noi e quindi non sarebbe che una nostra creazione, una nostra rappresentazione della realtà. Come direbbe Freud, qualcosa di conosciuto ma rimosso.

Per concludere, penso che Accoglienza sia permettere di lasciarsi attraversare, permettere che questo passaggio ci nutra e ci stravolga e ci coinvolga a tal punto da non lasciarci mai come eravamo prima di farlo. É viaggiare dentro di noi e dentro chi e cosa lasciamo entrare. Partecipare e sentire tutto ciò che scorre, tutto ciò che questa scarica elettrica ha da svelare finché non passa e lascia spazio ad altro, all’universo. 

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022

 

Riferimenti bibliografici
Benhabib S., The claims of culture: equality and diversity in the global era, Princeton University Press, Oxford, 2002
Bogues A., After man, towards the human: critical essays on Sylvia Wynter, Ian Randle, Kingston, 2006
Cariello M., Chambers, La questione mediterranea, Mondadori Università – Mondadori Education, Milano, 2019
Ciccozzi A., Migrazioni, Cittadinanza, Polarizzazioni., in “Dialoghi Mediterranei”, n. 52, novembre 2021
Ferrarotti F., Dai diritti umani al diritto di umanità. Verso il concetto e la pratica della cittadinanza planetaria, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 50, luglio 2021
Kristeva J., Etrangers a nous-memes, Fayard, Parigi, 1988
Lombardi Satriani L.M., Oltre la cittadinanza, nel nome di una comune umanità, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 52, novembre 2021
Lotman J.M., Uspenskij B.A., Tipologia della cultura, Bompiani, Milano, 1995
Mignolo W., Who speaks for the “human” in Human Rights?, in “Hispanic Issues on line” 5.1, 2009
Pittau F., Perché stenta a essere approvata una nuova legge sulla cittadinanza: un punto di vista, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 52, novembre 2021
Sorce G., Culture della pluralità. Il ruolo chiave delle visioni del futuro, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 50, luglio 2021
Tully J., Strange multiplicity: constitutionalism in an age of diversity, Cambridge University Press, Cambridge, 1995
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Mariangela Vitrano, attualmente impegnata a completare i suoi studi magistrali in Protezione dei Diritti Umani e Cooperazione Internazionale all’Università di Bologna; laureata in Lingue e Letterature moderne e Mediazione Linguistica all’Università degli Studi di Palermo, si interessa di antropologia e in particolare dei processi migratori, non solo in quanto fenomeno sociale ma anche artistico ed esistenziale.

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