Premessa
Il tema proposto come focus dello scorso numero di Dialoghi Mediterranei, “ONG e solidarietà”, è collegato alla riflessione in corso da qualche anno a Venezia in vari ambiti, tra loro interrelati. A tanta maggior ragione è motivo di rincrescimento il non aver avuto modo di elaborare un contributo utile al dibattito, dati i tempi ristretti. Peraltro, alla luce dell’invito del Direttore a seguire i profili giuridici della questione, provo a svolgere, nell’ambito del diritto internazionale, alcune osservazioni che spero congrue allo sviluppo di un dibattito che nel frattempo è già in pieno svolgimento [1].
Il richiamo alla nozione di comunità, nella sua fortuna e pluralità di accezioni giuridiche, costituisce l’oggetto, limitato, delle note che seguono. Queste in conclusione si apriranno al passaggio verso quella nozione di “globalizzazione umanitaria” su cui il Gruppo di ricerca al quale appartengo è impegnato da tempo, che qui potrà solo essere oggetto di individuazione da lontano, diciamo quale possibile orizzonte degli eventi.
La nozione di comunità secondo il diritto internazionale: un paesaggio carsico?
In diritto internazionale l’espressione comunità [2] è stata in passato utilizzata solo episodicamente, ad indicare la totalità degli abitanti di un determinato Stato o area geografica, oppure, e diversamente, determinate e ben individuate minoranze religiose, etniche, linguistiche [3]. In termini ancor più generali, l’espressione è stata riferita talvolta alla gioventù, alle donne, agli abitanti di specifiche aree [4]. Solo negli strumenti giuridici dedicati ai popoli indigeni l’espressione ricopre fin dall’inizio un ruolo significativo [5].
Il quadro è drasticamente cambiato nell’ultimo ventennio. Prima di andare a toccare con mano, e azzardare spiegazioni, resta tuttavia da sottolineare come nel diritto internazionale dei diritti umani il termine comunità appaia già con la Dichiarazione universale del 1948 [6], il cui art. 27 dice: «Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici». Di tale aurorale richiamo alla nozione di comunità nell’ambito dei diritti umani si è sempre parlato poco, e male. I motivi – e ciò può creare sorpresa – sono legati solo in minima parte allo scontro politico del tempo tra i blocchi contrapposti [7].
Più che il solito ritornello auto-giustificante della guerra fredda, viene infatti in evidenza al riguardo la riluttanza di molti specialisti di diritti umani a considerare davvero tali i diritti collettivi, quali sono in generale i diritti economici, sociali e culturali: definiti a suo tempo da qualcuno diritti umani di seconda generazione con intento larvatamente sprezzante, rispetto ai diritti civili e politici, diritti individuali che nell’ottica tradizionale d’Occidente costituirebbero i “veri” diritti umani. In questo senso una dottrina di oltreoceano si è spinta, diciamo creativamente, a definire il diritto culturale come diritto ad autonomia limitata [8].
Si tratta di una posizione non condivisibile, anche se sostenuta da più parti con perseveranza davvero degna di miglior causa, volutamente ignorando l’evidenza: l’art. 1 di entrambi i Patti, dal contenuto identico, è infatti dedicato al diritto dei popoli all’autodeterminazione, diritto collettivo – l’evidenza è solare – se mai ce n’è uno [9]. Di più, il fatto che i diritti culturali siano sempre diritti collettivi – diritti del gruppo, diritti dell’umanità nel suo complesso – si lega alla intrinseca presenza, al loro interno, di alcuni elementi necessari di relativismo. Il loro modo di esplicarsi lascia cioè spazio – deve lasciarlo – a forme specifiche di manifestazione, pena il trasformarsi in una forma soft di imperialismo ideologico (o di neo-colonialismo, per usare un termine tornato decisamente, purtroppo, d’attualità).
La situazione cambia radicalmente, come già accennato, con il nuovo secolo, sotto l’iniziativa dell’UNESCO per un verso, del Consiglio d’Europa (COE) per l’altro verso. Per quanto riguarda la prima organizzazione, viene in evidenza la Convenzione del 2003 (C2003) sulla salvaguardia del patrimonio intangibile (o immateriale) [10]. L’art. 2 par. 1 di questa stabilisce che per patrimonio immateriale si intendano
«le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana» [11].
La Convenzione non contiene dunque una definizione di comunità, ma vi provvede in via indiretta, dapprima indicando all’art. 2 par. 2 i settori (indicazione peraltro non tassativa) in cui il patrimonio intangibile, e quindi l’azione delle comunità, può operare: trattasi di danza e musica, consuetudini sociali, eventi rituali e festivi (compresi quelli legati alle manifestazioni del culto, ma ovviamente non i credo religiosi in quanto tali), tradizioni orali (compreso il linguaggio, inteso però come strumento culturale, non nel senso di mero mezzo di comunicazione), cognizioni relative alla natura e all’Universo, saperi artigianali [12]; quindi al successivo par. 3 dello stesso articolo, quando definisce la salvaguardia come l’insieme delle misure volte ad assicurare
«l’identificazione, la documentazione, la ricerca, la preservazione, la protezione, la promozione, la valorizzazione, la trasmissione, in particolare attraverso un’educazione formale e informale, come pure il ravvivamento dei vari aspetti di tale patrimonio culturale».
La partecipazione dei diversi attori sociali all’attività di salvaguardia è poi disciplinata agli artt. 11 e seguenti, fermo restando che la responsabilità a livello internazionale resta in capo agli Stati parte. Secondo i termini “stretti” della C2003 questi non avrebbero neppure l’obbligo di avvalersi della collaborazione dei detti attori per procedere alla salvaguardia. A garantire un ruolo centrale alle comunità nell’applicazione della Convenzione avrebbe opportunamente provveduto la prassi del Comitato intergovernativo per la salvaguardia del patrimonio culturale intangibile (in particolare tramite l’emanazione delle Guidelines) con la collaborazione dei Subsidiary and Consultative Bodies.
Il richiamo alla nozione di comunità ha luogo, sia pure in un ambito significativo molto puntuale, anche nel testo della Convenzione del 2005 sulla protezione della diversità culturale [13]. L’art. 7, dedicato alle misure atte a promuovere le diversità culturali, chiede al par. 2 alle Parti contraenti di provvedere «a riconoscere l’importante contributo degli artisti e di tutti coloro che partecipano al processo creativo, delle comunità culturali e delle organizzazioni che li sostengono nel loro lavoro, nonché il loro ruolo centrale, consistente nell’alimentare la diversità delle espressioni culturali» [14].
Arriviamo per tale via alla Convenzione-quadro del COE sul valore del patrimonio culturale per la società [15] (CF), che dedica alla comunità patrimoniale l’art. 2 lett. b. Secondo tale disposizione «una comunità patrimoniale è costituita da persone che attribuiscono valore a degli aspetti specifici del patrimonio culturale, che essi desiderano, nel quadro di un’azione pubblica, sostenere e trasmettere alle generazioni future» [16].
La nozione di comunità patrimoniale, è stato giustamente osservato, viene qui fornita in assenza di parametri genericamente sociali, siano questi nazionali, etnici, religiosi, professionali, o basati sulle classi [17]. Ancora, lo Steering Committee del COE fa riferimento, incrociando la nozione in oggetto con quella di “common heritage of Europe”, al possibile senso di “multiple cultural affiliation” degli umani, come individui e come gruppi [18]. Non solo non possono esistere comunità patrimoniali imposte dall’esterno, (il riferimento è in particolare all’assimilazionismo forzato, manu militari o anche tramite imposizioni economiche non sostenibili dalle società attaccate dalle forze del c.d. liberismo economico); è altrettanto vero il fatto che nessuno è rappresentato all’appartenenza ad una sola comunità.
Viene naturale allora richiamare l’art. 27 della Dichiarazione universale, e l’utilizzo che tale disposizione opera della nozione di comunità. L’importanza dell’art. 27 della Dichiarazione universale sta proprio nella indeterminatezza del richiamo alla comunità ivi presente, che rimane quindi libera dalla soggezione ad identità predeterminate o, peggio (oggi si parlerebbe di identitarismi); La definizione richiamata allude, forse all’insaputa degli stessi autori del testo, alla nozione di comunità elettiva. Di qua la legittimità dell’immagine del percorso carsico, ad indicare appunto l’emergere faticoso, nell’ordinamento internazionale, di una nozione viva di comunità, non diversamente da quanto capita ad un corso d’acqua quando esce finalmente dal paesaggio carsico che lo aveva costretto ad una circolazione sotterranea o semi-sotterranea per la prima parte del suo ciclo di vita.
La temperie di fine millennio ed i suoi effetti
Il cambio di passo, ma si potrebbe forse dire lo shift paradigmatico, ha avuto luogo nello scorcio conclusivo del secolo scorso grazie ad alcuni eventi succedutisi nella temperie di fine millennio. Il primo tra questi è naturalmente in stretto rapporto con il riemergere dei conflitti identitari (e/o pseudo-identitari) a seguito della caduta del muro di Berlino [19]. In ambito UNESCO, un gruppo di esperti formula già nel 1993 l’ipotesi che nel nuovo tipo di conflitti la distruzione del patrimonio mobile e immobile, dei monumenti, della memoria, si ripropone il fine «of suppressing all that bears witness that the threatened people were ever living in that area» [20].
Era comunque il COE l’organizzazione che diede il là alle prime reazioni esplicite: già la Dichiarazione congiunta dei Capi di Stato COE del 9 ottobre 1993 pone con forza mai emersa in precedenza la questione del legame tra diritti umani e patrimonio culturale. Facevano seguito i documenti preparatori (in particolare delle delegazioni finlandese e ceca) alla Conferenza di Helsinki del 1995 [21], e la stessa decisione di unificare i due Steering Committees preesistenti in materia in uno solo, lo Steering Committe for Culture, Cultural Heritage and Landscape (CDCPP).
Quanto al secondo ordine di motivi, questo è legato alla controversa questione della c.d. heritagization (patrimonializzazione) della cultura, non approfondibile in questa sede [22]. Assistiamo negli ultimi decenni, riassumendo, ad un ritorno potente a livello giuridico internazionale della nozione di comunità; ritorno – ciò va sottolineato con forza – libero dalle rigidità con cui la nozione si presentava in precedenza. Senza voler approfondire le differenze tra le nozioni di “comunità e gruppi” di cui alla C2003 e di “comunità patrimoniali” di cui alla CF, sottolineiamo che nel secondo caso entrano in campo non solo i portatori diretti, ma anche le comunità vicine, i simpatizzanti, gli acquirenti, i visitatori, il pubblico che assiste all’eventuale performance. In altre parole, ha osservato uno tra i più qualificati antropologi culturali:
«The Faro perspective suggests that cultural heritage is not just ‘someone’s heritage’, but involves strong symbolic constructs that also interest ‘others’, and that touches you and me, not just its bearers or practitioners. Faro also recognizes that cultural heritage establishes a dialogue with cultural repertoires of ‘others’, possibly inspiring and being inspired by them, both symbolically and practically, and is thus open to innovations» [23].
Viene in tal modo definitivamente compiuto il passo verso la presa di cognizione dell’esistenza di un vero e proprio diritto umano, da parte delle comunità, al patrimonio culturale: ciò è cosa diversa (e più avanzata) rispetto al generico richiamo all’osservanza dei diritti umani, pretesi dalle stesse Convenzioni UNESCO ora citate. Il discorso è chiaro quando consideriamo il cambiamento del punto di vista: nel caso delle seconde, le manifestazioni patrimoniali (intangibili in particolare) direttamente agite da comunità, prima di essere riconosciute/proclamate, vanno sottoposte al vaglio preventivo, e cioè al controllo di rispondenza ai diritti umani, intesi come qualcosa di diverso e di ordine superiore. Nel caso della CF l’attenzione si sposta sui soggetti, cioè sulle comunità in quanto tali, e sul loro diritto ad identificarsi con un patrimonio di propria scelta, la cui esplicazione lo Stato non può ostacolare e deve anzi favorire, fermo restando che tali identificazioni siano congrue con il sistema di tutela generale (non cozzino insomma contro altri diritti umani, cosa che spetta alle istituzioni controllare).
L’evoluzione giuridica del termine comunità conosce una crescente presa di vigore e importanza di pari passo con l’estensione dell’ambito di applicazione materiale della nozione stessa: comunità patrimoniali possono essere, tra gli altri, gruppi che si occupano di tutela dell’ambiente, come associazioni per la protezione degli animali, la salvaguardia dei mestieri tradizionali, o altro [24]. Vale la pena di riproporre quanto osservava la sociologa pakistana Farida Shahed, incaricata nel 2010 dal Consiglio dei diritti umani, in qualità di esperto indipendente, di preparare una relazione sul rapporto tra diritti culturali, diversità culturale e universalità dei diritti umani. A detta dell’eminente studiosa la successione degli strumenti internazionali sul patrimonio culturale negli ultimi anni (punto 20 della relazione), a sua volta riflesso di processi reali in atto nel corpo delle diverse società, indicava un evidente shift dalla protezione del patrimonio culturale in quanto tale, in termini dunque inevitabilmente elitari, in direzione della salvaguardia del patrimonio (qualsiasi patrimonio) in quanto «of crucial value for individuals and communities in relation to their cultural identity». Per concludere: gli strumenti giuridici più recenti unescani (C2003) e del COE (CF) delineano insomma uno shift dalla protezione/salvaguardia per il pubblico alla protezione/salvaguardia per le comunità di riferimento.
Queste sommarie note si fermano a questo punto, senza affrontare il tema, pur centrale, del come il percorso indicato dagli strumenti giuridici in questione stia trovando applicazione nei vari ordinamenti interni degli Stati parte.
La coscienza del duro presente in cui siamo immersi, e le (facili) prospettive di rapido peggioramento verso cui siamo trascinati, ci costringono infatti a formulare una domanda inquietante: a chiederci cioè se il passaggio evolutivo di cui si è parlato con ottimismo sia davvero acquisito (nel senso di consolidato) o sia stato piuttosto solo un accenno, una possibilità destinata ad essere travolta dal dispiegarsi del volto feroce del XXI secolo, quale si viene dipanando; un sogno, alla fine. Invero non può sfuggirci, pena l’andare incontro a drammatiche disillusioni, come gli strumenti giuridici su cui ci si è soffermati siano stati concepiti e posti in essere nel breve periodo tra la sospensione della mattanza che aveva fatto seguito alla caduta del muro di Berlino, e il primo drammatico annuncio di crisi mondiale del nuovo ordine con la grande crisi finanziaria SU (e quindi, a gioco lungo, il ritorno della guerra nel gioco tra Potenze, come stiamo sperimentando).
Il primo decennio del nuovo secolo aveva certo a sua volta conosciuto eventi drammatici (basti pensare all’invasione dell’Iraq e a quanto le ha fatto seguito), ma anche speranze diffuse su scala universale: la stessa forza dell’opposizione di massa all’invasione dell’Iraq da parte di ampi strati dell’opinione pubblica in Europa come nel Nord-America, era indice dell’intuizione diffusa dei suoi esiti nefasti. La guerra [25], e prima il dilagare del sovranismo in Europa, nel loro (demenziale) intreccio articolato, creano una situazione in cui il rapporto partecipativo tra istituzioni e comunità patrimoniali incontra crescenti difficoltà a svilupparsi; in qualche caso anzi l’utilizzo degli strumenti giuridici qui sommariamente descritti rischia di rovesciarsi di segno [26].
Quale che sia il futuro che ci attende a breve, resta che l’ampio sviluppo di associazioni di volontariato e di NGO, nazionali e transnazionali, di comunità e comunità patrimoniali, ma anche di settori sia pure minoritari di personale interno ai singoli apparati statuali e alle organizzazioni internazionali governative, che operano in una logica di globalizzazione umanitaria [27] trova quanto meno una sponda nell’atteggiarsi più attento dell’ordinamento internazionale. La speranza è che ciò aiuti nel rispondere ad un presente orribile con crescente impegno di molti – intesi soprattutto come gruppi e comunità – in solidarietà con le popolazioni vittime delle emergenze. Pur nel drammatico intreccio tra queste ultime che caratterizza l’attuale scenario internazionale, praticare per quanto possibile tale corretto percorso significa muovere nel senso che nella solidarietà tra umani, si tratti di singoli o di comunità/gruppi, sia possibile individuare le radici feconde di un comportamento alternativo a quello auto-assertivo ed egoistico che sembra oggi dominare la scena.
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
Note
[1] Un dibattito senz’altro qualificato scorrendo l’ultimo numero della rivista; in particolare l’intervento di Roberto Settembre, “Della memoria e del diritto al tempo delle guerre e delle migrazioni”, fornisce una apertura pregevole ad un nuovo (almeno nei termini in cui si pone oggi) e importante piano di approfondimento, quello del nesso guerra/migrazioni.
[2] Per non gravare lo scritto con troppe note bibliografiche, mi limito a precisare che i richiami sono tratti, quando non diversamente indicato, dagli scritti di Sabina Urbinati e di Lauso Zagato, entrambi in Adell N., Bendix R., Bortolotto C., Tauschek M. (eds.), Between Imagined Communities and Communities of Practice, Universitätsverläg Gottingen, Gottinga, 2014. Trattasi rispettivamente di Urbinati S., The Community Participation in International Law (ivi: 123-140) e di Zagato L., The Notion of “Heritage Community” in the Council of Europe’s Faro Convention. Its Impact on the European Legal Framework (ivi: 141-168). Più in generale, per chi volesse approfondire, rimando a Zagato L., Pinton S., Giampieretti M., Lezioni di diritto internazionale ed europeo del patrimonio culturale, Cafoscarina, Venezia, 2019 e all’ampia bibliografia ivi richiamata (aggiornata al periodo immediatamente precedente la sindemia).
[3] All’inizio degli anni ‘30 l’allora Corte Permanente di Giustizia Internazionale, in un suo parere (31 luglio 1930), si riferì alle “Greco-Bulgarian Communities”, affermando (con sconfinata prudenza) che l’esistenza di comunità è (solo) una materia di fatto: «It is not a question of law».
[4] Si tratta per lo più, in questo caso, di Convenzioni in materia ambientale: in particolare nel testo della Convenzione contro la desertificazione le espressioni “popolazioni locali”, “comunità locali”, “popolazioni”, sono utilizzate quali sinonimi. Interessante è il fatto che già nelle Guidelines della WHC (Convenzione sul patrimonio culturale e naturale mondiale) del 1972, vi sia in riferimento esplicito al ruolo delle Organizzazione non-governative operanti nel settore.
[5] Nella Dichiarazione delle NU del 13 dicembre 2007 sui diritti dei popoli indigeni si parla di: famiglie o comunità indigene (preambolo), diritto di appartenenza ad una nazione o comunità indigena (art. 9), e poi senz’altro di comunità, agli artt. 13, 14, 35.
[6] Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, New York, 9 dicembre 1948.
[7] Tale scontro, su cui non è possibile soffermarsi in questa sede, avrebbe portato alla rinuncia, nel 1966, al progetto di emanare, sulla scia della Dichiarazione del ’48, una unica Convenzione sui diritti umani, sostituita dai due diversi testi del PDCP (Patto sui diritti civili e politici, preteso dalle potenze occidentali), e PDESC (Patto sui diritti economici, sociali e culturali, patrocinato dai Paesi aderenti al Patto di Varsavia e da una parte dei Paesi di nuova indipendenza), strumenti peraltro entrati entrambi in vigore solo dieci anni dopo, nel 1976. Il termine “comunità”, non ricorre in alcuno; tanto meno, esso compare nella CEDU lo strumento giuridico vincolante più ravvicinato nel tempo alla Dichiarazione (è del 1950). Trattasi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ed entrata in vigore a livello internazionale il 3 settembre 1953. Il testo è stato più volte emendato, da ultimo dal Protocollo 15, entrato in vigore il 1 agosto 2021, dopo la ratifica da parte di tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa (ricordiamo che la Federazione russa è uscita dal COE nel corso del 2022, per i noti motivi, e che è attualmente in fase di approvazione da parte della Duma il progetto di legge che esclude l’applicabilità della Convenzione alla Federazione a partire dalla stessa data).
[8] Ho affrontato l’argomento di petto in Zagato L., “(In-)tangible Cultural Heritage as a World of Rights”, in Pinton S., Zagato L., (a cura di), Cultural Heritage. Scenarios 2015-2017, Ed. Ca’ Foscari Digital Publishing, Venezia: 521-537.
[9] L’art 1 par 1 di entrambi i Patti afferma: «Tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi decidono liberamente il loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale».
[10] Convenzione sulla salvaguardia del patrimonio culturale intangibile, Parigi, 17 ottobre 2003, entrata in vigore a livello internazionale il 20 aprile 2006. Attualmente gli Stati parte sono 181, ma l’importanza (diciamo il peso) delle defezioni (in Europa, Regno Unito e Federazione russa non sono parte) toglie in parte valore al dato numerico pur rilevante.
[11] Il testo prosegue: «Ai fini della presente Convenzione, si terrà conto di tale patrimonio culturale immateriale unicamente nella misura in cui è compatibile con gli strumenti esistenti in materia di diritti umani e con le esigenze di rispetto reciproco fra comunità, gruppi e individui nonché di sviluppo sostenibile».
[12] Malgrado tutte le osservazioni della miglior dottrina, è rimasta nella traduzione italiano l’espressione “artigianato tradizionale”, che non corrisponde né alla lettera (traditional craftmanship) né allo spirito del testo: si parla delle abilità e capacità di coloro che i prodotti sanno creare, non della produzione di beni in sé (handicraft).
[13] Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali, Parigi, 20 ottobre 2005, entrata in vigore a livello internazionale il 20 ottobre 2007. È stata ratificata da oltre 150 Stati, tra questi gran parte dei più importanti, ad eccezione di Stati Uniti, Israele, Giappone.
[14] Nel preambolo abbiamo un altro richiamo alla comunità, ma nel senso, non infrequente negli strumenti di diritto internazionale, di “comunità dei popoli e delle nazioni”.
[15] Convenzione-quadro sul valore del patrimonio culturale per la società, Faro, 27 ottobre 2005, entrata in vigore a livello internazionale il 1giugno 2011. Gli Stati parte sono al momento 24 (su 47) dopo i recenti ingressi di Belgio, Polonia e Spagna.
[16] La traduzione di “people” con “persone” lascia a desiderare: la Convenzione non fa riferimento al comportamento di singoli, ma di gruppi di persone. Ancora, il legislatore italiano ha scelto di parlare di “comunità di eredità” piuttosto che di comunità patrimoniali, si può supporre per non inserire contraddizioni radicali con il testo del vigente Codice dei beni culturali: mah! Si potrebbe ribattere che ci si è lasciata sfuggire l’occasione per rimettere mani ad un testo – quello del vigente Codice – nato una ventina di anni fa, ma già vecchio.
[17] Così Dolff-Bonekämper G., The Social and Spacial Frontiers of Heritage. What is New in the Faro Convention?, in AA.VV., Heritage and Beyond, Council of Europe Publishing, 2009: 69-74 (in part. P. 71).
[18] COE, Steering Committee for Cultural Heritage and Landscape (CDPATEP), Some Pointers fort he Understandiing of the Faro Convention, Strasburgo, 20 aprile 2009.
[19] Su questi temi resta attuale il testo di Ciminelli M.L., “Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e possibili effetti collaterali: etnomimesi ed etnogenesi”, in Zagato L. (a cura di), Le identità culturali nei recenti strumenti UNEsCO, Cedam, Padova, 2008: 99-122.
[20] Risoluzione del gruppo di esperti convocati a Stoccolma dal Central Board of National Antiquities, dalla Commissione nazionale svedese per l’UNESCO, 3e da ICOMOS Svezia, 10 giugno 1994. Nello stesso senso il direttore il Drettore del MaltwoArt Museum (canadese), Martin Segger, dirà, in un intervento a Dubrovnik del 1998, che la differenza essenziale tra i conflitti etnici precedenti e quelli in corso «is the extent to which erasing not only ethnical identity but also ethnical memory, has been raised to the status of a legitimate goal».
[21] Cultural Heritage – A Key to Our Future, Strasburgo, 1996, DOC. MPC-4(96)7 e, rispettivamente, DOC. MPC 4(96)5. Sul primo v. anche oltre, nota seguente
[22] Il termine heritagization è stato coniato dall’antropologo Herzog nel 2005. Per prime informazioni sull’argomento, e qualche richiamo bibliografico, v. Zagato L. “Opening Remarks”, in Pinton S., Zagato L., Cultural Heritage, cit.: 43-47.
[23] Arantes A., Intervento d’apertura alla sessione, “Cultural Heritagge Inspires”, in Paper Preview, Cultural Heritage 2016: 59-64, al sito https://www.unive.it/pag/31191.
[24] Peraltro il crescere di importanza della questione ambientale porta a ri-considerare la centralità del profilo: non perché si tratti di una nicchia più importante di altri, ma nel senso di sottofondo comune che gli altri attraversa. E invero: che senso può avere oggi la difesa di comunità che non abbiano saputo, se del caso, riqualificare alla luce della crisi ambientale che ci attanaglia il proprio oggetto?
[25] Su questo drammatico tema, segnalo, come proposta forte di fuoruscita utile dal trabocchetto di una campagna unidirezionale che procede, rissosamente, attraverso slogan brutali, evitando al contempo di indulgere a qualsiasi giustificazionismo vagamente in odore di russofilia, il bel testo di Morin E., Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa, Cortina Ed., 2023.
[26] Fino ad ora in Europa occidentale le forze più radicalmente sovraniste hanno tenuto un atteggiamento di sostanziale contrarietà alla CF ed ai valori ivi espressi, cosa che rende il percorso ivi previsto di difficile esecuzione, ma ci risparmia l’alternativa, ben più orrida. Per spiegarci: la CF è stata ratificata, tra i primi, dall’Ungheria, trovandovi una applicazione ispirata alla sostanziale etno-fobia (oggi costituzionalmente garantita e rilanciata: si può rimandar sul punto ai numerosi commenti scientifici rintracciabili on line) che caratterizza la prassi, internazionale ed interna, di tale Stato. Preoccupante, lungo la stessa linea di tendenza, risulta la recente ratifica da parte della Polonia, cioè lo Stato che più ha ridotto negli ultimi anni il sistema di garanzie costituzionali proprie dei sistemi occidentali. Cosa finisca per significare nel concreto il rapporto partecipativo tra istituzioni e comunità patrimoniali in siffatti ambienti socio-giuridici (e culturali) si apre su scenari da incubo.
[27] In termini generalissimi, si fa riferimento al fenomeno che vede «frange avvertite delle società affluenti, in particolare europee, rispondere con l’impegno personale, e solidale con le popolazioni vittime dei conflitti armati, ai compartimenti stagni – dal punto di vista sociale, economico, sanitario, culturale – altrimenti mantenuti in vita dal perdurante assetto della società internazionale». Si tratta di un assetto fondato sulla segmentazione dell’umanità nella rispettiva base sociale di Stati impegnati nello spregiudicato inseguimento del (preteso) interesse nazionale, attraverso una serie di comportamenti che rispondono alla famigerata ragion di Stato. È, quest’ultimo, un atteggiarsi della società internazionale ancora ben vivo (e la ripresa coeva di sovranismo e scontri armati ormai a ridosso della metropoli imperiale lo dimostra), solo in minima parte messo in discussione oggi dal dilagare della globalizzazione economica e finanziaria: Quest’ultima infatti «lungi dal realizzare una integrazione delle diverse sfere di sovranità statale, tende a sfruttare se non ad esaltare le differenze tra queste ultime» A vantaggio, allora, di nuove e più sfuggenti formazioni transnazionali di potere.
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Lauso Zagato, giurista, già docente di Diritto Internazionale e Diritto dell’Unione Europea all’Università Ca’ Foscari di Venezia, è stato anche titolare del corso di Diritti umani e politiche di cittadinanza presso il Corso di laurea specialistica in Interculturalità e cittadinanza sociale della stessa Università. Si è occupato in particolare di problemi legati ai profili internazionali e comunitari della protezione della proprietà intellettuale, di diritto umanitario e di tutela dei beni culturali nei conflitti armati, nonché del patrimonio culturale intangibile e delle identità culturali delle minoranze e dei popoli indigeni. Tra i suoi lavori: La politica di ricerca della Comunità europea (1993); La protezione dei beni culturali in caso di c onflitto armato all’alba del secondo Protocollo 1999 (2007). Ha curato il volume collettaneo Verso una disciplina comune europea del diritto d’asilo (2006) e, più recentemente: Le culture dell’Europa, l’Europa della cultura (2012 con M. Vecco); Citizens of Europe. Culture e diritti (con M. Vecco); Cultural Heritage. Scenarios 2015-2017 (con S. Pinton); Il genocidio. Declinazioni e risposte di inizio secolo (2018); Lezioni di diritto internazionale ed europeo del patrimonio culturale (2019, con S. Pinton e M. Giampieretti). È stato tra fondatori, e poi Direttore, del Centro studi sui diritti umani. Attualmente coordina il gruppo di ricerca su “La difesa del patrimonio e delle identità/differenze culturali in caso di conflitto armato”, che opera sotto l’egida della Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace.
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