di Nino Giaramidaro
Volavo volavo nel blu dipinto di blu. Alla Pilazza di Mazara, riparato dentro il Vicolo del Vento, piccoli refoli che fanno pensare a quel Zefiro di Ponente che lambisce le acque mediterranee azzurre e che scodinzolano per tutto il visibile orizzonte. Volavo. Verso bellissime Turandot figlie del Persiano.
Era un tappeto di Bukhara, con le posizioni simili a moderni abbaglianti e i colori di Rino Gaetano: quel cielo che diventava sempre più blu. Blu notte, di Persia, Zaffiro in attesa di tramutare nel ceruleo delle albe anche d’Oriente.
Volavo. Sopra casupole e case di colore cilestrino, quel pallido celeste che giunge senza cambiamenti agli azulei valenziani e di Siviglia, nella Triana dove nascono i toreri “gitanilli”, e battono i tacchi del flamenco, con il Guadalquivir delle stelle – scriveva Lorca – che assedia l“isla magica”. Il Paseo de los Tristes a Granada, dove ancora volteggiano nel blu dei colori del vespero vecchi cattivi pensieri che si intrecciano a quelli giovanissimi gonfi di speranza. Nel 1930 c’erano 51 plaza de toros in Spagna.
Insomma, volavo aggrappato a quel bellissimo tappeto dei sogni che a pensarci poteva essere un drone da ricchi oppure un posto in classe turistica lato oblò. Forse per questo vedevo il cavallo di Vecchioni con le froge azzurrate dalla strepitosa cavalcata, da Milano all’Uzbekistan. Cavallo oh oh che portava il suo nocchiero al fatale appuntamento con la “nera signora”, lì a Samarcanda.
E nel blu di quel cielo c’era ancora il Cavaliere Azzurro di Vasilij Kandinskij che galoppava stanco provenendo dal “Der Blaue Reiter”. Blu, colore che il bavarese Franz Marc riteneva il più puro, quello della spiritualità. Un valore sacro e simbolico per Picasso, capace di sublimare la sofferenza e la morte del suo amico Carlos Casagemas. Un colpo di pistola per amore. «Quando mi resi conto che Casagemas era morto – disse il pittore – incominciai a dipingere di blu».
A quell’altezza, forse per sortilegio orientale, giungeva il canto del grillo che di sicuro qui ha un alto nome, e spero quelle piccole e tremule luci, non importa come le chiamino, siano le lucciole: non più “erranti appo le siepi”, scomparse dalle periferie e dalle campagne del mio mondo, che una volta sembravano voler fare da messaggere a coloro i quali si inoltravano. Sì volavo, “felice di stare lassù”, dove tanti sogni anche i più strampalati vivono di luce propria.
Era Semprini. Tiro fuori dai ricordi più cadenti: il “Sestetto Azzurro” che suonava quel ritmo americano, non più travestito come aveva voluto il fascio. Alberto Semprini, che visto al piano sulle copertine dei dischi sembrava un gesuita sorridente, che in un 45 giri Fonit del ’58 arrangiava la “Strada ’nfosa” lato molto B di “Nel blu dipinto di blu”. Lasciamo stare.
Lo sfavillio che trafigge il cielo stellato quando le città si fermano lì sotto. Ecco Tashkent con la sua imponente cattedrale cattolica – il Sacro Cuore di Gesù come l’ormai turistica e bianchissima grande chiesa parigina –. Le campagne anti-religiose, sempre più violente, condussero, nel 1925, alla chiusura. Tutte le suppellettili, le decorazioni, ecc. andarono distrutte assieme ai mobili, alle sculture, alle vetrate originali. Un passaggio di teste “talebane”, allora non chiamate così.
Scorgo luci meno intense ma non tanto da oscurare la Moschea Blu di Mazar – i Sharif. Mazar come Mazara, cioè seminario. Lo sapevo che il mio paese, malgrado il fiume Mazaro, era stato luogo di studio; soprattutto e forse per questo è sopravvissuto senza nessun fulgore e nessuna cupola blu. Pochissimi nomi da conservare, altri appiccicati alle strade senza riguardo per quello che erano stati. Lavoro, qualche zecchinetta e chiesa.
Dal portone grande della costruzione settecentesca uscivano incolonnati e con i vestiti talari decine e decine di seminaristi. Li rivedo da quassù e guardo se ancora hanno la tonsura, quella chierica al centro dei capelli che distingueva il popolo di Dio da tutti gli altri. Figli di pescatori che le madri volevano salvare dai rischi del mare, contadini allontanati dall’aratro, ultimi nati per i quali non si trovava nessuna professione e nessun mestiere, e quei pochi ieratici che avevano sentito “la chiamata”. Ora non è più così e il seminario, di restauro in restauro, aspetta che tornino i suoi aspiranti pretini.
Vi sono diversi scritti sulla Mazar afgana. Uno degli ultimi è I fichi rossi di Mazar-e Sharif, fra i più «belli, crudeli, spietati, cinici e reali», annota un suo lettore. Scritto da Mohammad Hossein Mohammadi (Edizioni Ponte33) narra l’Afghanistan, più precisamente la Mazar-e Sharif (e, i, l, è difficile centrare l’esatta grafia) negli anni che vanno dal ritiro delle truppe sovietiche a quelli dei bombardamenti intelligenti sulla popolazione. Le stragi talebane.
Ora il cielo sembra sereno: propizio alle scuole attente allo studio delle scienze, della matematica e dell’astronomia. «Samarcan è una nobile cittade, e sonvi cristiani e saracini» leggiamo nella semplicità di Marco Polo.
I cristiani potranno ora visitare anche i luoghi simbolo di questa lontana città (6.562 km da Roma, Roma-Boston 6.597 km). Un centro nevralgico lungo la Via della Seta prima e dopo la distruzione di Iskander Khan, nell’Occidente con fonetica più buona detto Alessandro Magno.
Da pochi anni l’Occidente nella foschia delle umane debolezze ha riscoperto questa città sul cui cielo era raggrumato un groviglio di venti senza nome dove annaspavano il cavallo di Vecchioni, il Blaue Reiter e i tanti blu dell’acceso Picasso. Forse più, sì, forse per oltre 2.500 anni Samarkand con Roma e Babilonia – dicono gli avveduti misuratori del tempo – è stata la città più importante di quel “piccolo mondo antico”, un ponte tra Oriente e Occidente, Europa e Asia, il Medioevo e la modernità.
Allah si è fermato a Samarcanda, così come tutti gli altri dèi. Nel crepuscolo che fa risaltare le ombre colorate delle cupole i sogni si svegliano; anche il mio e quelli più distanti di Domenico Modugno diventano relitti del cielo blu sui quali ricomincia a soffiare l’aria lieve della dimenticanza.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. In occasione dell’anniversario del terremoto del 1968 nel Belice, ha esposto una selezione delle sue fotografie scattate allora nei paesi distrutti.
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