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A Tunisi Giufà incontra J’ha
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2021 @ 02:45 In Cultura,Migrazioni | No Comments
di Rosy Candiani
La figura di Giufà, anti-eroe della letteratura popolare orale di tutti i popoli che si affacciano sul bacino del Mediterraneo, è a ragione considerata simbolo del Mediterraneo stesso, in quanto incarnazione della osmosi, della convivenza e dello scambio che da sempre accomunano le civiltà sorte sulle rive del “Mar Bianco”.
Presenza antichissima, Giufà può essere definito e identificato con la metafora del ponte: tra culture diverse ma connesse e comunicanti. Originario dei Paesi arabi, questo personaggio (come un po’ la figura di Pulcinella) ha viaggiato con le sue storie lungo le rotte commerciali e gli spostamenti verso i Balcani e attorno al Mediterraneo, toccandone tutti i Paesi, salvo Francia e Spagna. Proprio questo aspetto multiculturale, di avvicinamento e condivisione attraverso un personaggio fantastico, è uno dei motivi per cui, malgrado la personale e dichiarata incompetenza a riguardo del mondo delle tradizioni popolari e orali, e della fiaba, il progetto della Enciclopedia Treccani mi ha catturato da subito: allargare al bacino del Mediterraneo i «Sentieri della fiaba» già percorsi per l’iscrizione della fiaba a patrimonio immateriale dell’umanità; creare ponti culturali tra i diversi Paesi del Mediterraneo attraverso una figura chiave e ricorrente delle fiabe e tradizioni locali.
Ho sentito l’immediata armonia di questo progetto con due peculiarità dei miei studi e dei miei interessi: verso il Mediterraneo, come luogo di partecipazione culturale; e poi l’interesse per la oralità, ossia la impossibilità a fissare in un testo statico e univoco la molteplicità delle varianti di un episodio; e nello stesso tempo la assoluta unicità di ogni singola narrazione dell’aneddoto. Caratteristiche simili, per molti versi, alla unicità dell’evento teatrale performato, alla impossibilità, se non per approssimazione, di ricostruire, soprattutto quando si arretra nel tempo a epoche sfornite di strumenti di riproduzione, le modalità di realizzazione di uno spettacolo, di una esecuzione: il melodramma per esempio, nella irriproducibile armonia di voci, strumenti, scene, movimenti, pubblico, che un libretto o una partitura necrotizzano in una istantanea standardizzata e irreale: l’uno, per la staticità delle battute e l’impossibile riproduzione nelle interpretazioni attoriali e autoriali dell’universo delle didascalie implicite; l’altra, per la registrazione parziale delle variazioni vocali e dell’apporto di voce e musici a integrazione del dettato musicale.
Ma soprattutto ha fortemente catalizzato la mia attenzione la possibilità, attraverso questo progetto, di stabilire nuovi legami tra le rive del Mediterraneo, di fare emergere, da un percorso culturale dal basso, dalla cultura più vicina al popolo nelle diverse sfaccettature, i mille rivoli che uniscono la riva Nord e la riva Sud, accomunando nei secoli popoli diversi ma in ininterrotto rapporto e dialogo. Per quanto mi riguarda tra Italia e Tunisia.
La presenza di questo personaggio in Tunisia ha carattere emblematico del suo percorso: per questo ho pensato di poter contribuire al progetto, anche se con una semplice raccolta di testimonianze-campione, utili poi per le analisi degli specialisti della fiaba e delle culture orali tradizionali. In Tunisia Giufà è J’ha il personaggio di origini arabe, con varianti di pronuncia nelle diverse zone del Paese, esattamente come in Sicilia (Pitrè 1875); e forse proprio dalla Tunisia si è insediato in Sicilia con la conquista araba. Ma con l’esodo migrante di fine Ottocento e con lo stabilirsi di una popolosa comunità siciliana in Tunisia, almeno fino agli anni Trenta del Novecento, J’ha, diventato Giufà torna a Tunisi sulle rotte siculo-tunisine e manifesta la sua presenza persistente nei racconti familiari, ancora vivo nelle generazioni di cinquantenni e più degli italiani di Tunisia da me ascoltati [2]. Vediamo i ricordi di Rita Strazzera:
Come nella tradizione in Sicilia, il Giufà arrivato a Tunisi è dunque un giovane buffo e ridicolo, sinonimo di gesti ingenui, talora stupidi; come ricorda Mohamed Mezli, la sua mamma, siciliana sposata a un tunisino, appena diceva «Giufà» si metteva a ridere, «e io ridevo delle sue risate»; talora era lo sciocco del villaggio, preso ad esempio negativo, ma bonariamente, per mettere in guardia e correggere i bambini. Ricorda Aldo Maniaci: «quando ero bambino e facevo una bêtise mi dicevano ‘fai come Giufà’». E la scrittrice Marinette Pendola ricorda come fosse comune, nel linguaggio familiare, soprattutto dei suoi nonni, l’espressione «Giufà» o «che Giufà», come dolce rimprovero:
Per quanto riguarda invece i tunisini, Giufà, cioè J’ha, è un personaggio più complesso e dotato di sfumature, e si assiste quasi a uno sdoppiamento tra uno J’ha intelligente opportunista, con una logica apparentemente bizzarra ma sempre utilitaristica (la figura prevalente) e uno J’ha più ingenuo e forse apparentato o contaminato con la versione siciliana. La prima ricognizione di testimonianze [3] consente di raccogliere alcune considerazioni sull’ambiente sociale e sulle modalità di fruizione dei racconti nelle differenze e nelle analogie con la tradizione siciliana.
- J’ha è una figura conosciuta da tutti i tunisini adulti, di tutti i ceti sociali, ma non attraverso la trasmissione dei racconti familiari femminili; si tratta piuttosto di aneddoti di ambito maschile, delle chiacchiere da caffè per esempio, luogo privilegiato di socializzazione e dove si svolgono anche molte delle peripezie del personaggio.
- J’ha entra nell’immaginario dei tunisini fin da bambini: al kotteb, sui libri di scuola [4], nelle citazioni dei professori, per esempio di un professore di matematica, che ricorda le abilità di calcolo di J’ha, o ancora aneddoti di J’ha che vuol guadagnare senza sforzo.
- Diventato negli anni Sessanta protagonista di un breve stacco radiofonico del periodo di Ramadan – Chaneb – subito prima la rottura del digiuno serale, e quindi ascoltatissimo, J’ha diventa noto a tutti, come ricorda il compianto Hichem Haissa:
- Quindi come per il Giufà siciliano, J’ha diventa riferimento per antonomasia: se qualcuno vuole evitare un problema o svicolare (banalmente salire sul tram senza pagare il biglietto) si dice «vuoi diventare J’ha»; oppure alle sortite stravaganti di qualcuno nella conversazione è ricorrente l’esclamazione «famma J’ha – c’è un Giufà»
- J’ha personaggio adulto è simbolo dunque di furbizia contadina inserito nel contesto della città, della capacità di cavarsela, di una mescolanza di ottusità, ingenuità, intelligenza e furbizia verso il profitto. Un personaggio proveniente dalla campagna, di ambito popolare, che ricorda per certi aspetti la figura di Bertoldo.
Con il Giufà siciliano J’ha condivide alcune caratteristiche: l’assenza della figura paterna e la presenza assidua della madre; il contesto popolare e non cittadino, anche se Tunisi fino agli anni Sessanta/Settanta conservava molti angoli semi-rurali, con la conformazione del borgo, ed era circondata da campi.
A Tunisi, J’ha e Giufà non si sovrappongono e non assimilano le loro caratteristiche: il dialogo tra questi due personaggi si gioca sui contenuti e sono le loro storie a mescolarsi, con un filo comune e talora con varianti molto interessanti dal punto di vista sociologico.
Tutte le testimonianze raccolte, italo-tunisine (meglio siculo-tunisine) e tunisine, concordano per esempio nel ricordare in particolare la storia di “Giufà – J’ha e la porta”, che si dimostra la più popolare e anche molto comica. Ecco la storia di Giufà e la porta raccontata con il garbo e con le sue sfumature di siciliano da Rita Strazzera:
La storia ruota come perno centrale sulla polisemia del verbo “tìrati” la porta e, naturalmente, sulla attitudine di Giufà a interpretare il mondo, e le parole che lo nominano, alla lettera. La variante tunisina invece [5], gioca la sua efficacia sulla caratteristica della lingua tunisina della espressione sintetica, che spesso elide il verbo. “Win el bab win enti”: “dove (è) la porta, là (sei) tu” dice la madre, spianando la strada al gesto di J’ha di portarsi in spalla la porta al caffè. E l’aneddoto, come spesso nelle storie tunisine di J’ha, si conclude al caffè, nelle risate dei presenti (e degli ascoltatori) lasciando in sospeso e alla loro immaginazione le conseguenze: per i gioielli e i risparmi nascosti in casa, per i ladri, per l’ira della madre…
Le storie tunisine di J’ha possono essere articolate sulla dimensione del racconto, ma spesso sono molto brevi, facezie da caffè o motti di spirito, dove il protagonista non ha bisogno di preamboli, presentazione o ambientazione.
Ne trascrivo alcune dalle testimonianze di Ismail Nacir e Jamel Chabbi.
Per quanto riguarda le storie di maggior respiro, ne scelgo, tra quelle che ho raccolto dai miei novellatori, tre che toccano in qualche modo il rapporto di J’ha con l’autorità, o con un rappresentante di un ceto più elevato del suo. Le storie mi giungono da Mohamed Mezli (dalla parte del padre), Jamel Chabbi, Ismail Nacir e Hichem Haissa.
Un altro aspetto molto interessante della fortuna del personaggio J’ha nella cultura e nell’immaginario del popolo tunisino, e sicuramente meritevole di un approfondimento, riguarda l’incrocio tra il piano «basso», del racconto e dell’aneddoto popolari orali, e il piano «alto» della letteratura, del racconto scritto, che ci si propone, in un certo senso, come incontro di due anime.
La concezione di vita di J’ha, la sua visione concreta, sia pure un po’ stralunata, e fuori dagli schemi delle norme sociali comunemente accettate riaffiorano nel realismo sornione e ironico del grande Ali Douagi, fine fotografo e narratore della quotidianità tunisina piccolo-borghese e popolare degli anni Venti-Trenta. Spesso calato nei panni dell’io narrante protagonista di storie, aneddoti, sketches, Douagi ci propone un ritratto di sé forse non casualmente simile al mitico J’ha: maldestro e disincantato osservatore e non attore del mondo, con alcuni tratti di the Trump di Charlie Chaplin, Douagi si ritrova involontario protagonista di storie e disavventure ma se la cava sempre, con un dolceamaro lieto fine.
Non stupisce dunque di ritrovare, nel ricchissimo repertorio di situazioni e storie assurdamente quotidiane e reali quale è la rivista «Essourour», diretta e in buona parte redatta da Douagi per la brevissima esperienza dei sei numeri tra settembre e ottobre del 1936, la ripresa di una delle storie di J’ha : nel tono alto della poesia, ma nel genere popolare della malzouma in derja, la lingua tunisina, Douagi, che si firma con lo pseudonimo Abou el Foudoul, sfrutta le sue doti di giocoliere delle parole, dei sottintesi e dei bisticci e rivisita e riorganizza la storia di “J’ha che cerca la fidanzata”, dove il ruolo della madre nella società matriarcale nella scelta della sposa e nell’organizzazione del matrimonio si arricchisce del risvolto autobiografico del rapporto personale tra lo scrittore e la madre.
Riportiamo il testo su Giufà- J’ha nella trascrizione di Contarino 1988 (25-27)
Nella sua malzouma, Douagi non altera l’impianto della storia e l’effetto comico a sorpresa del finale, ma sposta l’attenzione sui preliminari del matrimonio. Preceduta dalla sentenza moraleggiante «mi han detto sposati e pentiti e chi non si è sposato non ha visto niente di bizzarro», la poesia è un dialogo con la madre cui l’io-poeta affida la ricerca della moglie, e le sue richieste: una ragazza «non ignorante, con la voce non acuta, il viso luminoso la notte come una lampada». Dopo una settimana di ricerca senza risultati e molte offerte a ogni zaouia della città nonché voti a Lella Manoubia, la fanciulla si trova: figlia di buona famiglia di Jendouba, padre agricoltore e commerciante, casa grande con fontana in marmo, e uccellini e un pozzo e un albero di carrube. Il suo nome è Hassina (la bella). Alla richiesta di dettagli sulla ragazza, la madre la descrive in modo allusivo, «occhi belli e capelli neri come la notte, viso raro», giocando sulle interpretazioni dell’ingenuo figlio secondo le attese. I preparativi si susseguono: il regalo per l’Aid (una parure di anello, bracciale e orecchini in oro), un mese a spendere «fino a stancare le sue tasche», la festa per la sera del matrimonio con «musica scelta di cinquanta trombe e danze». Entrato nella stanza il bisticcio si spiega: lo sposo scopre la sua haroussa seduta e abbigliata: «viso rotondo e piatto come un bendir (un tamburo), il collo corto, la carnagione nero sporco come il carbone». Nascosto in un angolo assiste agli arrivi degli invitati che si felicitano con la sposa, e se ne vanno augurando buona serata. Poi, rimasto per ultimo nella sala, si mostra, dice «mia bella Hassina, buona serata e buona notte» e se ne va» [8].
Le storie si potrebbero moltiplicare, le varianti, le interpretazioni e le improvvisazioni fanno parte del gioco, della vena comica e dell’abilità dei narratori. In conclusione di questo excursus tra le due sponde del Mediterraneo attraverso la figura di Giufà, vorrei ribadire l’intento di testimonianza e non di indagine critica, anche se una considerazione provvisoria si affaccia e sollecita gli approfondimenti della ricerca.
Nei suoi spostamenti spazio-temporali, il personaggio di Giufà ha cambiato nome e caratteristiche e si è adattato ai luoghi, ma ha anche mantenuto qualcosa di sé, tra saggezza e ingenuità; giostrando volta a volta tra potenti e miserabili, imperturbabile e armato solo della sua arguzia dialettica, Giufà-J’ha mostra la strada per vivere insieme: anti-eroe perché vincitore ma, nel quotidiano, riesce a cavarsela e a superare le difficoltà, magari in modo goffo o casuale, ma riuscendo talora a mettere in crisi i valori, le norme o le consuetudini che cristallizzano il gruppo o la comunità.
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