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All’ombra del laboratorio perfetto. Avanguardie antropologiche nel panorama italiano
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2024 @ 03:11 In Attualità,Cultura | No Comments
di Simona Taliani
Non dirò quanti sono. Non formulerò un numero che, nel frattempo, è cambiato, che, nel frattempo, è cambiato, che, nel frattempo, è cambiato, di persone eternamente rimaste. Per esser palestinesi, scomparvero per sempre dal luogo verso il quale fuggirono. Sono morte senza cena. Nella loro gola, neanche uno sputo d’acqua. Non le trasformerò, ancora una volta, in un numero esiliato, adatto a una notizia da piè di pagina Shahd Wadi, La pioggia di Gelsomini [1].
Un ristretto gruppo di antropologhe e antropologi ha deciso negli ultimi mesi di aderire a diversi appelli interdisciplinari – il primo risale a novembre del 2023 [2]; poi c’è stata la “lettera al Maeci” a marzo 2024 [3] – per poi promuovere un’azione più autonoma e circoscritta, sottoscrivendo l’appello “Antropolog* per la Palestina” del 18 maggio 2024 [4]. L’ultima mozione in ordine di tempo è quella sottoscritta insieme a un gruppo di membri dell’EASA, che verrà sottoposta all’attenzione del Direttivo dell’associazione europea di antropologia sociale durante la 18° Conferenza (Barcellona, 23-26 luglio 2024: https://easamembers4palestine.wordpress.com/).
Questa riflessione nasce da parte di chi ha fatto parte integrante di questi gruppi di lavoro, operando in questi mesi affinché la propria istituzione accademica di afferenza e le diverse società antropologiche di affiliazione “prendessero partito” interrompendo o invitando a interrompere accordi istituzionali con università israeliane e/o con centri e fondazioni di ricerca italiani che collaborano sistematicamente con università israeliane, nella convinzione che le università israeliane siano uno dei pilastri portanti del sistema di apartheid (Wind, 2024; Riemer, 2022 e, anche se a partire da una diversa prospettiva, Shokeid, 2020) in atto nei Territori Occupati, di cui Gaza fa parte.
Rantoli, e di come si resiste all’“aria del tempo”
Parlare di “avanguardie antropologiche” oggi suonerà ai più anacronistico, soprattutto per il riferimento diretto a una espressione usata da Clara Gallini ormai cinquant’anni fa, per parlare di uno sparuto gruppo di “obbiettori di coscienza” interni alla disciplina che avevano preso posizioni nette, sebbene minoritarie, al cospetto dei firmatari di una mozione proposta nel 1947 da Clyde Kluckhohn e Melville Herskovits alla Commissione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite per denunciare la complicità dell’antropologia con le politiche coloniali e militari del mondo bianco (Statement on Human Right). Perché, ci si chiederà immemori di quelle svolte disciplinari rimaste nell’ombra e non più rivitalizzate, opporsi a quella che a tutti gli effetti era una assunzione di responsabilità di fronte agli efferati crimini coloniali da parte della disciplina che, più di altre, ne era stata l’“ancella” [5]? Perché non sostenere unanimemente una posizione di autocritica, finalmente di autocritica?
L’avanguardia della fine degli anni ‘40, marginale a detta della stessa Gallini e composta da antropologi e antropologhe i cui nomi sono finiti nel dimenticatoio accademico, non si era accontentata di una dichiarazione di principio che se pur criticava il colonialismo, affermando il diritto di ogni popolo ad avere una cultura, non denunciava punto per punto la complicità (o, meglio, sarebbe dire la deriva) dei saperi accademici verso un uso militare delle loro conoscenze [6]. Non era sufficiente auto-criticarsi senza una puntuale disamina delle varie forme di collaborazione; né era credibile l’atto se, nella stessa mozione, si assumeva poi la necessità di costruire un sapere rigorosamente scientifico e obiettivo (sappiamo infatti, con Fanon, che l’oggettivismo si è sempre rivolto contro i colonizzati). Al di là dell’ipocrisia di certe posizioni personali – che stridevano, una volta conosciuti i ruoli assunti da alcuni dei primi firmatari [7] – la mozione insisteva su valori che, decontestualizzati e destoricizzati, giravano ormai a vuoto, come ingranaggi stanchi. È come se oggi si decidesse, seppur tardivamente, di diffondere un comunicato in cui ci si accontentasse di parlare di “pace” in Medio-oriente.
La ristretta avanguardia non si limitò dunque a rispondere disquisendo su “libertà”, “tolleranza”, “cultura” o “pace”, ma, ricorda Mastromattei,
È questo impegno certosino che agli inizi degli anni ‘70 vediamo realizzarsi in Italia con la già ricordata Clara Gallini, nel suo lavoro del 1974 Le buone intenzioni, e con altri due colleghi, Vittorio Lanternari e Romano Mastromattei, che sempre in quegli stessi anni parteciparono attivamente al dibattito, lasciandoci alcune delle pagine più dense di cosa significa fare antropologia al cospetto di un’epoca che impone delle scelte. Il problema, infatti, non è tanto o soltanto il destino della disciplina – se sia o meno (ancora) viva, come si chiese nel 1968 Gerald D. Berreman sulle pagine di Current Anthropology – ma le scelte che ogni singola ricercatrice e ogni singolo ricercatore si trovano a dover fare oggi, di fronte a una Storia che irrompe e ridefinisce i margini di un destino comune.
Torniamo per un istante indietro di cinquant’anni per capire se quei contributi ci aiutano a porre le questioni, senza perdere l’essenziale. Prendiamo il numero 25 della rivista La Critica Sociologica, pubblicato nella primavera del 1973. A un articolo a firma di Vittorio Lanternari – “La crisi dell’antropologia e la situazione degli USA” – segue una delle più dettagliate analisi sul ruolo dell’antropologia culturale statunitense nei piani strategico-militari (la loro intelligence, la nostra sicurezza) nel Sud est asiatico. Il titolo di questo secondo articolo, “Dieci antropologi per ogni guerrigliero”, trae origine – come Romano Mastromattei, autore di questo incredibile lavoro, ricorda – da una “vecchia formula per una efficace repressione della guerriglia” [8]. Cose e fatti riportati, secondo l’autore, sono “già da tempo noti”. Nessun archivio desecretato, nessuna “rivelazione” intorno al collaborazionismo accademico nel quadro della repressione della guerriglia in Thailandia. Cinquanta pagine, fitte e neanche troppo facili da leggere, di riferimenti, acronimi, rapporti, trascrizioni di verbali e dichiarazioni di questo tenore da parte di riconosciuti scienziati che hanno contribuito a costruire un sapere accademico “contro la gente” [9]:
E ancora:
Se è evidente la natura interdisciplinare di progetti come Jason o il più conosciuto Camelot [10], Mastromattei si sofferma sulle conseguenze interne all’antropologia per la partecipazione di antropologi, i cui nomi sono per lo più rimasti nell’ombra (eppur ce ne sono già alcuni nell’articolo). Verso la fine degli anni ‘60 sono diversi i comitati di mobilitazione studentesca che portano all’attenzione degli organi istituzionali preposti, nelle diverse Università (Chicago, San Francisco), il rapporto tra politica, ideologia e scienza, mettendo in discussione la legittimità di una antropologia asservita e incongruente. Una delle Commissioni etiche coinvolte fu quella dell’Associazione americana di antropologia, che così concluse il suo rapporto (con una formula, secondo Mastromattei, “insolita per chiarezza e univocità”):
Ironizza Mastromattei che le funzioni più consone ai membri di un direttivo di una associazione di settore erano le verifiche sulle denunce per plagio o intorno ai comportamenti dei singoli (come, per esempio, alzare il gomito prima di andare a lezione). Due anni dopo, nel 1975, su Quaderni storici, l’autore ritornerà sulla questione più spinosa di tutte (e già posta qui con forza, e cioè il presente di quella gente che forma l’oggetto di studio della disciplina). Lo fece denunciando gli “enormi sussidi sia privati che federali” alla ricerca (embedded, si direbbe oggi), riprendendo le posizioni dei conservatori dell’epoca (viene citato Kroeber, “il grande studioso degli Indiani d’America”, che ribadiva la distinzione tra Scienza e politica) e scrivendo conclusioni amare intorno al suo presente tetanizzato e a una «coscienza borghese … scossa da immagini di atrocità, diffuse prima dall’opposizione studentesca e poi dagli stessi media del sistema».
Risulterà forse ora come meno anacronistico tornare indietro di cinquant’anni, a una letteratura che aveva già posto nel dibattito italiano le questioni essenziali con assoluta nitidezza e aveva evidenziato il ruolo centrale della componente studentesca nella mobilitazione disciplinare. Il punto ancora oggi non è il destino o il ruolo dell’antropologia italiana di fronte alla guerra, al (neo)colonialismo, alle atrocità del nostro presente. I punti sono non meno di tre ed hanno a che fare con altri destini, ben più umani.
Il primo punto è il destino di quello che anche Lanternari, influenzato da Cirese, chiamava “l’oggetto etnologico” ribelle: il destino di chi non si lascia sterminare silenziosamente… Non è certo un oggetto etnologico uniforme, circoscritto, omogeneo; è chiaro che è polifonico e polisemico, complesso per sua storia (non per sua natura). Non è omogeneo né sincronicamente (perché al suo interno le forze di opposizione e resistenza sono numerose e in tensione), né diacronicamente (perché quello di Israele non è un colonialismo di insediamento facilmente comparabile ad altri scenari storici, fosse anche l’Algeria coloniale a più riprese evocata nei dibattiti, dal momento che non c’è una metropoli di riferimento a cui far tornare gli immigrati di ieri e colonizzatori di oggi). Eppure è lì, l’oggetto etnologico ribelle, a ricordarci che non è l’antropologia a poter dire l’ultima parola su “identità”, “appartenenze”, “genealogie”, “parentele”, “culture”, “genocidi”, “poetiche e politiche delle memorie”. Basta sfogliare le pagine di Arabpop #6 Palestina – l’ultimo contributo in ordine di tempo che è apparso in italiano e interamente dedicato alla cultura che si sta producendo in queste ore in Palestina – per riscontrare la vivacità di una certa produzione culturale da sotto le macerie, con buona pace delle nozioni neoliberali di agency e resilienza.
Possiamo solo augurarci come “antropologhe e antropologi per la Palestina” che quando altri o altre colleghe torneranno sul campo per poterlo (ri)etnografare, questo soggetto etnologico recalcitrante; quando valuteranno che è possibile tornare a fare ricerca su ciò che resta (perché pur qualcosa resterà), esso abbia la stessa forza antropologica che esprime oggi e sia in grado di rispedire al mittente i tanti ricercatori che si affolleranno per comprendere, capire e conoscere come si sopravvive a una volontà genocidaria. Possiamo solo augurarci che i Palestinesi e le Palestinesi non lasceranno che si scriva l’ennesimo capitolo su antropologia, violenza o antropologia e genocidio da parte di coloro che hanno preteso tempo per capire cosa sta(va) succedendo [11].
Il secondo punto è, come ben scrive Mastromattei, il destino di gente che va alla guerra – una guerra asimmetrica e impari – con un esercito tra i più tecnologicamente avanzati e finanziati al mondo, composto – e anche questo va pur riconosciuto – da studenti e studentesse richiamati alle armi. Un “esercito di massa” sostenuto politicamente e scientificamente dalla ricerca [12], non solo quella dura, perché sappiamo quanto l’archeologia, la sociologia, la psicologia, l’antropologia contribuiscano al successo delle politiche estrattiviste e espansioniste del sionismo di governo.
Che cos’è esattamente la reazione umana a cui assistiamo impotenti dall’8 ottobre 2023? Talal Asad se lo è chiesto tempestivamente, arrivando a una conclusione che lascia poche speranze a chi lo legge [13]: non essere più la sola, e ultima, comunità nella Storia a non aver reagito alla violenza brutale. Per questo il 7 ottobre 2023 costituisce un punto di non ritorno e una ferita indicibile, perché si è appunto avuta una reazione da parte di chi si pensava sempre inerme.
Il terzo e ultimo punto riguarda il destino di quelle antropologhe e quegli antropologi ancora illusi che capire meglio, dialogare di più, analizzare con “pudore etimologico” (l’espressione è di Balandier) le parole che usiamo per nominare il massacro sia non solo la cifra distintiva della disciplina ma anche l’unica cosa che si possa fare. Ci si illude che si possa ancora scegliere, quando si conoscerà a fondo e si potrà meglio valutare; che si potrà, dice Mastromattei, “aderire o non aderire, […] collaborare o non collaborare”, quando invece si è già di fronte a una «nuova minaccia: l’utilizzazione fattuale di dati e ricerche antropologiche da parte dei militari e di altri organismi repressivi, quali che siano le intenzioni, buone o cattive dei ricercatori».
Non sono più le nostre intenzioni a contare, buone o cattive che siano; e pur assumendo che si sia tutti mossi dai migliori propositi, non si è compreso che non è più soltanto un problema accademico o di posizionamento professionale: è un problema enorme, umano, che ci riguarda tutti e tutte. Come verranno usate le scienze, le conoscenze, le tecnologie? Quale sapere vogliamo costruire, per e insieme alle persone alle quali chiediamo di diventare “oggetti di studio”, e non contro di esse? Studenti e studentesse sembrano averlo capito meglio di chiunque: per età o strutturale subalternità, hanno capito che il futuro che preannuncia questa catastrofe non riguarda solo i Palestinesi e le Palestinesi, anche se certo ora sono loro a morire come mosche.
Per farla finita con “E Hamas”? Antropologie della paura e antropologie impavide
Non è certo casuale che il Rettore dell’Università di Glasgow, nel suo discorso di insediamento il 12 aprile 2024, citi Frantz Fanon e il suo grido al mondo («Ogni generazione deve, in una relativa opacità, scoprire la sua missione, compierla o tradirla»). C’è una generazione che sente che è coinvolta fino al midollo in una missione che è diventata, per altro, sempre più trasparente per via di una palestinizzazione della vita di cui parla Antony Loewenstein nel suo Laboratorio Palestina. I riferimenti del giornalista australiano sono puntuali nell’analizzare gli effetti della “palestinizzazione delle popolazioni indigene”, come quelle maya guatemalteche massacrate sotto il governo di Riós Montt (2024: 57), e di una palestinizzazione delle “città” (dal Kashmir alla Colombia si riconosce che “di colpo” i metodi efficaci a Nablus o Hebron sono validi altrove si voglia perpetuare una politica di disumanizzazione permanente: ivi: 66). Le munizioni dei fucili d’assalto Galit si ritrovano conficcati nei crani di nativi, quando le Commissioni di inchiesta concludono i loro verbali (come nel caso del massacro del 6 dicembre 1982 nel paese di Dos Erres). I droni Heron, usati massicciamente da Frontex per difendere la Fortezza Europa, sorvolano le rotte dei migranti; e controllano i cieli di Srinagar e Jammu, d’estate come d’inverno, facendo del Kashmir non più un paradiso (swarg) ma “un’altra Striscia di Gaza”. Un altro “laboratorio perfetto”, sostiene Loewenstein. L’inchiesta incalza alla ricerca dei documenti che provino i collegamenti tra la vendita di armi, l’esportazione di tecnologie di controllo, la diffusione di una politica genocidaria che non risparmia alcuna minoranza o gruppo “palestinizzato” su cui si è provato prima tutto ciò che si potrà poi usare ovunque.
Quando l’antropologo Naor Ben-Yehoyada parla dunque di “fine dell’empatia” [15] ci condanna a una miopia storica, perché non ci aiuta a vedere l’imponente dispiegamento di empatie apocalittiche nel mondo, di cui ci parlano altre antropologhe a partire da altre esperienze di mondo (Rebecca Wando nel caso delle letterature afroamericane prodotte intorno alla perdita; Lamia Moghnieh, più recentemente, parlando della distruzione sistematica di Gaza). Come aiutarci allora a sentire quell’intensa e radicale forma di affetto che gli esseri umani sentono di fronte a degli interi mondi che scompaiono, e che esplode nelle piazze delle città e nei cortili dei campus universitari, perché si teme una palestinizzazione del mondo e una spartizione del futuro inquietante e non desiderabile? Fino a quando non analizzano le relazioni di potere tra chi ha il potere di sentire l’empatia, chi ne è perpetualmente l’oggetto o chi ha preteso (costruendovi sopra l’intera propria identità psichica, culturale e politica) di esserlo a vita non riusciamo a fare incontri etnografici sensati. Semplicemente Ben-Yehoyada non può vedere né sentire quell’intensa e radicale forma di affetto che gli esseri umani sentono di fronte a degli interi mondi che scompaiono – e che esplode nelle piazze delle città e nei cortili dei campus universitari, perché si teme una palestinizzazione del mondo e una spartizione del futuro inquietante e non desiderabile – perché non analizza le relazioni di potere tra chi ha il potere di sentire empatia, chi ne è perpetualmente l’oggetto o chi ha preteso (costruendovi sopra l’intera propria identità psichica, culturale e politica) di esserlo a vita.
Abbattere quel “laboratorio perfetto” che è Gaza non è (solo) un imperativo morale o umanitario; né – se accadrà, non certo per gli appelli o le petizioni che si firmano, né per le pressioni che si cerca di attuare contro le istituzioni accademiche che nutrono di ricerche e finanziamenti le politiche sioniste governative – l’azione di esseri umani buoni o ricercatori mossi da buone intenzioni. Abbattere il “laboratorio perfetto” e restituire Gaza a Gaza e ai suoi abitanti, affinché si possa qui vivere una vita degna, è un impegno politico: un pensare politicamente alle società della paura che si prefigurano all’orizzonte e a quelle che hanno già tratto le lezioni essenziali da questa circolazione di potere e terrore. Sembra che ci sia nuovamente bisogno oggi di una “antropologia radicale”[16], la cui vitalità sarà direttamente proporzionale alla capacità di torcere il tempo e lo sguardo verso i soggetti implicati nella produzione di un mondo sempre più “Bianco” e pericoloso per tutti. Ruba Salih introduce un pensiero che si avvicina a questo processo di svelamento, quando analizza l’ipocrisia del processo chiamato DARVO: Denying Attacking and Reversing Victim and Offender, operante certamente dall’8 ottobre 2023 nella retorica dominante, politica, mass-mediatica ed anche accademica [17]. Talal Asad, come dicevo sopra, ha anche provato a farlo non riducendo a vendetta o sadismo la reazione umana israeliana e ascrivendo al “potere della vittima” questa capacità di trasferire su altri i brandelli di un’esistenza avvelenata, come magra forma di auto-affermazione. In questo scenario antropologico distopico, si muovono esseri umani dimezzati, mezz’uomini (ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini, e invece no…).
Siamo di nuovo nel pieno di un’escalation, di fronte a un eccesso di realtà brucianti in luoghi della terra che non saranno mai più esotici (e se mai lo sono stati in passato è per responsabilità anche di antropologi accecati dall’accademia), mentre contemporaneamente esplodono dentro le società di cui facciamo parte rivolte violente. Octave Mannoni, nel suo The Decolonization of Myself, concludeva che la fine del colonialismo apriva a scenari di guerre civili, parlandone al plurale (1966). Se almeno questa sua riflessione fosse fondata e se fossimo (come auspichiamo) di fronte all’agonia del colonialismo israeliano sulla Palestina – che qualcuno della disciplina ancora si contenta di rubricarlo nel registro della “metafora” – si preannunciano anni bui, di lotte interne, violenze trasversali, indipendenze ipotecate e confiscabili.
In questo mondo in fiamme, che è il nostro mondo comune, la paura circola di nuovo impunemente e di questo l’antropologia dovrebbe quotidianamente occuparsi. Il problema epistemologico, metodologico e insieme etico che abbiamo di fronte non è soltanto legato al fatto che l’oggetto etnologico non ci piaccia (Gusterson, 2017; Pasieka, 2019) o sia sempre più “culturalmente ripugnante” (Harding, 1991); ma che ci faccia paura per la determinazione con cui porta avanti politiche della disumanizzazione e della sopraffazione dell’umano (e del non-umano).
Antropologhe e antropologi, alcuni dei quali si autodefiniscono negli articoli pubblicati come “nativi”, stanno già interrogando il loro presente e il loro spazio vitale quando la scena etnografica è attraversata, simultaneamente, da s/oggetti etnologici ribelli, oppressi, ripugnanti. Arjun Appadurai (2021) è tra i primi ad aver preso la parola sulle pagine di Social Anthropology a seguito della recrudescenza delle politiche coloniali indiane nel Kashmir dopo l’abrogazione dell’articolo 370 (morte della democrazia, potrebbe essere la traduzione evocativa della sua riflessione). Le colleghe Rosana Pinheiro-Machado e Lucia Scalco, sempre dalla stessa rivista, incalzano su cosa debba essere oggi l’antropologia di fronte al “bolsonarismo” brasiliano. Più recentemente, Moshe Shokeid (2024) ricostruisce la minaccia per la democrazia dell’estrema destra israeliana. L’autore che su Haaretz nel 2010 aveva anticipato come inevitabile il boicottaggio accademico delle università israeliane, e che oggi confessa tutto il suo dolore nel vederlo materializzarsi a ritmo incalzante, si chiede cosa l’antropologia potrà farsene di nozioni sofferenti (painful notions) come quella dello “scacciato” da istituzioni o associazioni in una società che non produce altro che fuorilegge, cittadini di seconda classe, “infiltrati” da poter espellere più facilmente, in una spirale viziosa senza fine di inediti tipi di umanità messe al bando. Peter Pels (2008) nella sua disamina su quale lezione l’antropologia avesse appreso dall’antropologia del colonialismo – una sorta, dice l’autore, di “antropologia dell’antropologia” – introduce una distinzione che riprenderà anche più recentemente su Hau (Pels, 2014), tra una concezione “diadica” e una concezione “triadica” dell’incontro etnografico. L’antropologia del colonialismo avrebbe dovuto introdurre con forza nella disciplina la consapevolezza etica che la relazione non è mai soltanto tra il ricercatore e l’informatore, ma tra «researcher, researched and the powers that be» (ivi: 292).
Non possiamo dunque che (tornare a) pensare politicamente perché la paura strisciante e capillare che circola tra le persone – e che fa dell’incontro etnografico sempre almeno una triade – è il prodotto di una precisa idea di come ci si spartirà il futuro e il mondo. Non dovremmo parlare che di questo. E dovremmo con coraggio metterci al lavoro, perché se aveva ragione Sandra Puccini quando scriveva che «[i]n Italia … siamo eredi di una storia culturale e disciplinare che, per oltre trent’anni (non volendo risalire più indietro, al periodo delle origini stesse delle scienze sociali) ha variamente messo a confronto il piano scientifico con l’impegno politico, ed entro la quale, perciò, si è sperimentato (soprattutto sul piano teorico ma anche – parzialmente – su quello empirico) il rapporto tra le formulazioni disciplinari ed il loro uso politico e sociale» (1980: 135), dovremmo essere davvero ben formati e posizionati a farlo. Sempre che Puccini avesse ragione; e sempre che quello sparuto gruppetto di antropologi e antropologhe d’avanguardia sia (stato) capace di aprire uno squarcio nel silenzio assordante dell’accademia italiana e delle società di settore.
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